LE RESPONSABILITÀ DEL GOVERNO ITALIANO.
La vicenda del ricorso massiccio e spregiudicato all’uso della tortura da parte delle forze di occupazione angloamericane in Irak è stata rapidamente metabolizzata dal sistema politico italiano, dopo che, con rituali dichiarazioni di biasimo, i vertici politici hanno apparentemente preso le distanze da “notizie di cui (il Governo italiano) era completamente all’oscuro” relative a “fatti inimmaginabili ed imprevedibili che fermamente condanna” (1), senza assumere nessun comportamento conseguente, come se la vicenda non ci riguardasse.
Invece la vicenda ci riguarda da vicino, a cagione della cooperazione del contingente militare italiano, dislocato a Nassiriya, con la CPA (l’Autorità Provvisoria di Coalizione).
La questione non è emersa con la dovuta chiarezza in quanto il dibattito sulla missione militare italiana in Irak si è arrestato sulla soglia dei profili di legittimità/illegittimità, opportunità/inopportunità, lasciando in ombra ogni approfondimento sull’attività concretamente svolta dai militari italiani, in cooperazione con il Comando della CPA.
Al riguardo è importante interrogarsi sulle modalità di attuazione dell’attività di “polizia militare” svolta dai Carabinieri e destinata – per forza di cose – a realizzare un’azione di contrasto agli atti di ostilità nei confronti della Coalizione e del contingente militare italiano. È bene precisare che si tratta di una attività doverosa e necessaria perché, fin quanto c’è un contingente di militari italiani (non importa se inviato legittimamente o illegittimamente), occorre contrastare ogni possibile attentato.
Qualche giorno dopo la battaglia del 15 e 16 maggio, nel corso della quale è morto il Caporale Vanzan, la stampa ha dato notizia che i Carabinieri hanno fermato sette persone, sorprese vicino alla rete di recinzione della Base aerea di Tallil, dove è ospitato anche il grosso del contingente italiano, che detenevano armi e munizioni da guerra. Quelle persone probabilmente stavano preparando un attacco contro postazioni italiane. Bene hanno fatto, pertanto, i Carabinieri ad arrestarli, sventando possibili atti aggressivi. Tali azioni, dal punto di vista del diritto, si presentano come delitti contro la personalità dello Stato italiano, per il quale l’art. 7 del codice penale prevede la punibilità secondo la legge italiana, dovunque siano commessi.
Peccato, però, che tali persone non saranno mai sottoposte ai rigori ma soprattutto alle garanzie della legge penale e processuale italiana, in quanto una norma provvidenziale, inserita nel decreto legge relativo alla missione militare italiana in Iraq, ha legato le mani ai giudici, impedendo loro di procedere, se non richiesti dal Ministro della Giustizia e da quello della Difesa.
E allora c’è da chiedersi che fine fanno coloro che commettono atti di ostilità contro le forze della coalizione quando vengono arrestati dalla polizia militare italiana. Il mistero è stato svelato dal Ministro della Difesa, on. Martino, che, intervenendo al question time della Camera, il 12 maggio scorso, ha dichiarato: “ i dati che attengono alla consegna di soggetti fermati dal nostro contingente alle forze della coalizione ed alla polizia locale riguardano 573 cittadini iracheni: di questi 112 sono stati direttamente rilasciati a seguito dei primi accertamenti, 419 sono stati consegnati alla polizia locale per l’ulteriore denunzia alla autorità giudiziaria irachena perché sospettati di reati comuni, 42 sono stati consegnati al Comando della Coalizione che esercita il controllo operativo delle forze per aver commesso atti ostili contro di essa.
A questi soggetti – ha precisato il Ministro – deve essere garantito il trattamento previsto dall’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra: questo precetto del diritto umanitario è stato puntualmente indicato nelle direttive impartite per la missione “Antica Babilonia”, richiamando le Convenzioni internazionali e le previste sanzioni.
(…) I responsabili di attacchi contro le forze della Coalizione vengono fermati per non più di 48 ore e sottoposti ad un primo accertamento. Ove le indagini debbano protrarsi, i sospettati vengono consegnati al comando alleato.
Al riguardo è stato firmato un memorandum di intesa con il Regno Unito per disciplinare il trasferimento dei fermati e l’osservanza delle norme del diritto internazionale applicabili in materia di trattamento dei catturati.”
Adesso sappiamo che, mentre da noi si discute ancora del cosiddetto “mandato d’arresto europeo”, cioè di una procedura semplificata di estradizione fra gli Stati membri dell’Unione, in Irak le forze della coalizione hanno già realizzato, senza tanti fronzoli, una sorta di “mandato d’arresto iracheno”.
Per l’Italia il mandato d’arresto iracheno si concretizza nel Memorandum d’Intesa con il Regno Unito cui ha fatto cenno il Ministro Martino. Tuttavia se tale Accordo disciplina anche “l’osservanza delle norme del diritto umanitario applicabili ai catturati”, occorre fare chiarezza su quali siano le norme effettivamente applicabili ai catturati, in quanto il richiamo all’art. 3 comune alle quattro Convenzioni, per quanto utile, è insufficiente a chiarire lo “status giuridico” delle persone arrestate dalle forze della Coalizione.
Infatti, le persone in questione non sono né feriti o malati delle forze armate in Campagna (situazione disciplinata dalla I Convenzione) né naufraghi delle forze armate sul mare (situazione disciplinata dalla II Convenzione), né prigionieri di guerra (situazione disciplinata dalla III Convenzione), in quanto secondo il Ministro della Difesa Martino, l’Italia in Irak “non sta combattendo alcuna guerra”.
Di conseguenza lo status giuridico di tali persone ricade nella dettagliata disciplina prevista dalla IV Convenzione di Ginevra, che regola la condizione delle persone che vivono nei territori soggetti ad occupazione militare da parte di una Potenza belligerante.
È assolutamente pacifico, ed è stato ribadito in più occasioni dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU (in particolare con la Risoluzione n. 1483 del 21 maggio 2003) che le Potenze occupanti ed i Paesi alleati che collaborano con le forze della Coalizione debbano rispettare scrupolosamente tutte le obbligazioni nascenti dalla IV Convenzione di Ginevra e dagli altri strumenti internazionali che regolano la condizione dei territori occupati.
La IV Convenzione, com’è noto, detta delle norme stringenti a tutela delle persone che vivono nei territori occupati che, proprio per tale motivo, sono considerate “persone protette”. La Convenzione consente soltanto due misure privative della libertà personale delle “persone protette”: l’internamento e l’imprigionamento.
Ai sensi dell’art. 78, l’internamento può essere disposto dalla Potenza (o dalle Potenze occupanti) soltanto “per imperiosi motivi di sicurezza”.
Il provvedimento che dispone l’internamento deve essere adottato in conformità ad una procedura che preveda il diritto d’appello degli interessati. Qualora l’organo di appello confermi la decisione di internamento, tale decisione non vale per l’eternità, in quanto deve essere sottoposta ad una revisione periodica possibilmente semestrale, a cura di un organismo competente (vale a dire un organo giudiziario) istituito dalla Potenza occupante.
La seconda misura privativa della libertà consentita è l’imprigionamento attuato nell’esercizio del potere di perseguire penalmente le “persone protette” che commettano infrazioni alle norme penali che la Potenza occupante ha il potere di emanare, nei limiti di cui all’art. 64, a tutela della regolare amministrazione del territorio e dei membri delle proprie forze armate. Tale potere di esercizio dell’azione penale è regolato da una serie di norme (gli articoli da 68 a 77), che prevedono che ai catturati debbano essere applicati i principi del “giusto processo”.
In particolare la Convenzione prevede che ogni imputato debba essere informato senza indugio dei capi d’accusa addebitatigli e che la sua causa debba essere istruita il più rapidamente possibile (art. 71).
Il dibattimento deve essere pubblico, salvo imperiosi motivi di sicurezza, mentre ogni imputato ha il diritto di essere assistito da un difensore che può scegliere liberamente e che ha facoltà di visitarlo liberamente.
Tali disposizioni, a differenza di analoghe normativa in materia di diritti dell’uomo, non possono essere derogate per ragioni di emergenza, in quanto il diritto umanitario disciplina proprio situazione di emergenza e quindi non ammette deroghe.
Sono queste le norme del diritto internazionale dei conflitti armati al cui rispetto è vincolato il contingente militare italiano, come le forze delle altre Potenze occupanti. A questo punto c’è da chiedersi se una Potenza occupante, sulla quale gravano specifici obblighi relativi al trattamento delle persone in suo potere, si può scaricare di tali obblighi, trasferendo tali persone ad altre Potenze alleate.
Anche questa situazione è prevista dal diritto bellico, che consente una sorta di estradizione extragiudiziaria, sottoponendola, però, a delle rigorose condizioni restrittive.
L’art. 45 della IV Convenzione (e l’analogo art. 12 della III), infatti, prevede che:“Le persone protette non potranno essere trasferite dalla Potenza detentrice ad una Potenza partecipante alla Convenzione, se non dopo che la Potenza detentrice si sia assicurata che la Potenza di cui si tratta, desidera ed è in grado di applicare la Convenzione. Quando le persone protette siano, in tal modo trasferite, la responsabilità dell’applicazione della Convenzione incomberà alla Potenza che ha accettato di accoglierle per il tempo durante il quale le saranno affidate.”
A questo punto occorrerebbe accertarsi se il Memorandum d’Intesa stipulato fra l’Italia ed il Regno Unito contenga le necessarie assicurazioni e garanzie che l’Inghilterra e gli Stati Uniti (nelle cui mani i detenuti finiscono dopo essere transitati attraverso gli Inglesi) desiderano e sono in grado di applicare le norme della Convenzione (che, come abbiamo visto, non si esauriscono nell’articolo 3).
Purtroppo questo accertamento non è possibile, in quanto il testo del Memorandum non è stato divulgato, sebbene, rientrando nella categoria degli Accordi internazionali (di natura semplificata) avrebbe dovuto essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ai sensi della legge 11 dicembre 1984 n. 839.
Le autorità italiane, anche a prescindere dalla conoscenza o meno della pratica della tortura, non potevano ignorare che nessuna disposizione delle autorità di occupazione americane assicura ai detenuti, sospettati di attività ostili, il diritto ad un giusto processo, con le garanzie della difesa, come previsto dalla III e IV Convenzione di Ginevra.
In questa vicenda non ci sono avvocati, non ci sono imputazioni da cui difendersi, non ci sono dibattimenti pubblici innanzi a giudici imparziali. È chiaro che le Convenzioni internazionali non consentono la consegna dei “catturati” se questi sono destinati ad un trattamento di tipo Guantanamo. Del resto, ove i detenuti siano privati di ogni diritto e sottoposti ad un potere incondizionato ed illimitato da parte della Potenza detentrice, la tortura non può essere più un “accidente”, ma diventa un’istituzione.
Per questo motivo la consegna alle autorità militari inglesi (e per tramite di esse agli americani) delle persone catturate dal contingente italiano fallisce i criteri di ammissibilità indicati dall’art. 45 della IV Convenzione (e 12 della III), con la conseguenza che l’Italia, di fronte al diritto internazionale e di fronte al suo stesso diritto interno, rimane responsabile del trattamento che queste persone subiscono o hanno subito.
A questo punto occorre accertare che fine hanno fatto le persone che noi abbiamo consegnato alle altre Potenze occupanti. Occorre domandarsi se siano ancora in vita o siano stati sottoposti a torture o ad altri trattamenti inumani, o sia stata applicata nei loro confronti la pena di morte, magari in via “preventiva”, com’è successo ad un numero imprecisato di detenuti iracheni torturati dagli americani.
In realtà proprio la possibilità che venisse applicata la pena di morte, rendeva la consegna dei catturati iracheni “giuridicamente” impossibile, anche in presenza di precise garanzie. Ha statuito, infatti, la Corte Costituzionale con la nota sentenza relativa al caso di Pietro Venezia (2) che: “nel nostro ordinamento, in cui il divieto della pena di morte è sancito dalla Costituzione, la formula delle “sufficienti assicurazioni”, ai fini della concessione dell’estradizione per fatti in ordine ai quali è stabilita la pena capitale dalla legge dello Stato richiedente, non è costituzionalmente ammissibile. Il divieto contenuto nell’art 27, quarto comma, Cost.. ed i valori ad esso sottostanti, primo fra tutti il bene essenziale della vita, impongono, infatti, una garanzia assoluta.”
Fin quanto non sarà fatta chiarezza sulla sorte dei 42 iracheni (più i sette arrestati il 21 maggio) che gli italiani hanno consegnato alle forze di coalizione, noi ci troveremo in presenza dei primi “desaparecidos” italiani.
Note
1 Dalle dichiarazioni del Ministro della Difesa, on. Martino, alla Camera dei Deputati, seduta del 12 maggio 2004.
2 Corte Costituzionale, sentenza n. 223 del 27 giugno 1996.