A che punto siamo in questo difficile cambiamento di stagione e di scontro sociale? Un agile libretto della manifestolibri – pubblicato in queste settimane sotto il titolo, Diciottesimo parallelo, con ammiccante riferi-mento al Trentottesimo parallelo della guerra di Corea e allo stracitato art. 18 – conclude il suo capitolo introduttivo con un’affermazione drammatica: “lo scontro è mortale”. Il giudizio è pesante, forse non sarà “mortale”, ma il rischio di una pesante sconfitta è presente. In
queste condizioni l’imperativo è quello di combattere e di sostenere chi combatte: la Cgil, i movimenti no global e quelli locali e anche i cosiddetti “ceti medi riflessivi” del professor anglofiorentino Paul Ginsborg.
Ma per combattere bisogna innanzitutto studiare il terreno, la situazione esistente, la fase. E, a questo riguardo, dobbiamo confessare le nostre gravi carenze: siamo divisi, in modo quasi schizofrenico, tra l’abuso dell’aggettivo “epocale” per ogni stormir di foglia e il dar corpo, nel nostro immaginario analitico, a fantasmi del passato, a cristallizzazioni di realtà in mutamento. Grande è il disordine sotto il sole, ma la situazione non è affatto eccellente.
Cominciamo dalla situazione economica che, in Europa, e in Italia ancora di più, è di stagnazione e non tanto – credo io – per difetto di domanda, ma per difetto di offerta, per la mancanza di nuovi prodotti. In società, fondamentalmente benestanti e con larga soddisfazione dei consumi tradizionali, manca lo stimolo dell’offerta di nuovi prodotti : quello delle nuove tecnologie è finito in una bolla speculativa. E, per quanto concerne l’Italia, c’è una netta perdita di competitività: il miracoloso Nord-Est che copriva l’1,4% del commercio mondiale è sceso all’1,1%. In Italia le grandi imprese (Fiat e Pirelli) non stanno bene e per le medie e piccole noi abbiamo il più alto tasso di natalità e anche di mortalità, tale che fa pensare agli andamenti demografici del Terzo Mondo.
Tutto questo si traduce in caduta dell’occupazione (soprattutto di quella a tempo indeterminato) e delle aspettative di chi vive di lavoro: in un sostanziale indebolimento del movimento operaio. In Italia ci sono ancora – ed è di straordinaria importanza – scioperi generali, ma i conflitti aziendali, di base, sono in calo.Una situazione difficile quindi, ma anche – e va sottolineato – a forte tasso di inquietudine e di scontento, che trae alimento dal relativo acculturamento (anche consumistico) nelle nuove generazioni: anche il movimento no global trae forza da queste innovazioni culturali.
Sul fronte più immediatamente politico i fenomeni dominanti – sempre a mio parere – sono tre.
In primo luogo l’avanzata politico elettorale, in Europa e in Italia, della destra, non di una destra democraticamente conservatrice, ma di una destra populista o a forte supporto populista, e – come si sa – il populismo porta con sé pulsioni autoritarie, specie in una situazione internazionale nella quale la cultura della guerra ha grande peso.
In secondo luogo c’è una sorta di divorzio tra società e politica, almeno della politica che abbiamo conosciuto. Da una parte c’è il fenomeno dominante dell’astensionismo elettorale, che non è solo americanizzazione e coinvolge anche i movimenti no global che subiscono la tentazione dell’esodo dalla politica. Dall’altra una crescita della protesta sociale che si esprime negli scioperi e non solo. I due elementi – anche in Italia – attualmente non si in contrano (raggrumamento delle varie sinistre e scontro sull’art. 18) e i tentativi di fecondazione assistita non sembrano destinati a successo. Alcuni – e tra questi Bertinotti – ritengono che il Novecento sia finito e che la crisi dello stato nazionale abbia prodotto la crisi del partito nazionale: il nuovo Principe di Gramsci sarebbe in esilio. Credo sia un’ipotesi da valutare, anche se penso – come credo anche Fausto – che senza partiti non ci sia politica e senza politica non ci sia democrazia. Già, cos’è la democrazia attuale? In terzo luogo – ma questa forse è una mia fissazione – c’è il ruolo politicamente e culturalmente assunto dalla paura: il premio anche elettorale del valore sicurezza dovrebbe esserne la controprova. Il paradosso è che ai tempi “dell’equilibrio del terrore” non era così forte. Paura diffusa, che va dal terrorismo internazionale al nucleo familiare e che ha un indubbio fondamento nel nostro, occidentale, relativo benessere: il timore di perdere quel che si ha. Siamo, sintomaticamente, al rialzo del prezzo dell’oro, e quel che secondo l’autorevole Economist ha sostenuto l’economia mondiale è stato l’immobiliare, il mattone; dappertutto. Se le cose stanno a questo modo, o un po’ a questo modo, dove concentrare il nostro cosiddetto “lavoro politico”? Credo, innanzitutto sul lavoro e lo sfruttamento. Contro la retorica corrente sulla fine del lavoro e contro lo stesso Marx, che pure sostenne che in una società scientificamente e tecnicamente avanzata, il plus lavoro, lo sfruttamento, sarebbe stato ben misera cosa, ritengo che lavoro e sfruttamento siano ancora il fondamento della nostra società capitalistica. Ma vale ricordare che il capitalismo, come il mitico Proteo, cambia forma in continuità e così cambia anche il lavoro, cambiano le forme della sua organizzazione. Oggi siamo in presenza di una straordinaria diversificazione dei lavori e delle forme della loro dipendenza, fino al punto che si parla correntemente di lavoratori autonomi.
Se la situazione, o la fase se si preferisce, è questa, l’obiettivo obbligatorio dovrebbe essere quello di tentare di riportare a unità questi lavori e per sovrappiù occorre tener conto che circa il 45 per cento dei lavoratori dipendenti sono occupati in imprese al di sotto dei 15 dipendenti, nelle quali, talvolta, così dicono le indagini, i lavoratori diventano imprenditori.
L’obiettivo della riunificazione di questi lavori e di questi lavoratori tuttavia fatica a realizzarsi sul terreno strettamente sindacale: i nuovi sindacati di questi lavoratori continuano ad avere pochi iscritti.
Allora? Allora, so di muovermi su un terreno che ai compagni de l’ernesto non è tanto gradito, ma penso che, come altre volte nel passato del nostro paese, siamo in presenza di una stagione di cetimedizzazione . Così fu negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, soprattutto in Emilia dopo la chiusura delle Reggiane: accanto e in combinato con la politica di classe bisognerebbe fare una politica dei ceti medi: l’attuale populismo non nasce forse dall’emergenza e dal disorientamento dei ceti medi?
Fatte queste impopolari premesse raccomanderei la lettura di Ceti medi ed Emilia rossa di Palmiro Togliatti, del Diciotto Brumaio di Carlo Marx e anche di alcuni non inutili scrittarelli di Giuseppe Stalin, sempre sui ceti medi. Il fatto che oggi, a sinistra, solo nominare i ceti medi (ma non ne parla neppure la destra) sia considerato una sciocchezza, a me pare la vera sciocchezza. Ma forse, ancora una volta, mi sbaglio.