Sull’imperialismo, l’uranio, la Nato, la Palestina e altro ancora

Per chi avesse sognato di vivere in un mondo inesorabilmente unito da quel fenomeno naturale , peraltro ciclico, della globalizzazione, in cui tutti erano d’accordo di fare tutto con tutti, di stare insieme armonicamente nella Nato, nel Fmi, nella Bm, nel G7, nell’Omc, l’inizio anno, secolo, millennio sono suonati come una brusca sveglia. Una sveglia suonata da due trombettieri: uno che urlava “uranio 238”, l’altro che ribatteva strepitando “terrorismo”. A corredo, parole antiche, quasi desuete: “fedeltà atlantica”, “schieramento occidentale” e, addirittura, “civiltà occidentale” e, perfino, “democrazia occidentale”. Tutte ripetute tanto più accanitamente, quando più la loro sostanza si assottigliava. Ci resta solo da attendere il fatidico “non possiamo non dirci filo-americani” del canuto padre della patria. Con buona pace di coloro che pensavano tutto fosse sopito, che i supremi regolatori del sistema pianeta, appunto i Fmi, le Bm, ecc., alti nell’empireo di una realtà misteriosa, opaca, inafferrabile, ma certo superiore avessero fatto del mondo un circolo della briscola. Con uno solo che da le carte, ma appunto briscola.. Che sviste! Tutt’a un tratto gli è esplosa in mano una roba di cui si erano scordati financo il nome: contraddizione interimperialistica. Gliela aveva nascosta l’anfibio militare che gli Usa sono soliti schiacciare in faccia a grandi e piccini, amici e avversari: “la buttiamo sul militare, sulla guerra e voi europei, con le vostre fisime, i vostri interessi, potete andare per nespole.” Eppure, tra un chiodo e l’altro dell’anfibio, non era difficile percepire gli assembramenti, i subbugli, le scazzottate, che so, sulla carne agli ormoni che, respinta dagli europei, avrebbe mandato in rovina gli allevatori americani; o sul transgenico che, senza mercato europeo, avrebbe visto le corporations agricole Usa buttarsi dal 50° piano di Wall Street. O la questione dell’esercito europeo agli ordini – tantissimo, così così, poco, pochissimo – della Nato, che è come dire il guinzaglio a stelle e strisce al collo dei botoli europei. Si era intravisto lo scazzo sulle tecnologie militari da acquistare, quello su Jugoslavia sì-Jugoslavia no e, poi, a chi cosa della Jugoslavia. Qualcuno si è ricordato che qualcuno aveva ucciso Enrico Mattei, qualcun altro aveva pensato al Moro detestato da Kissinger, altri, almeno fino allo scorticamento con i trucchi finanziari di George Soros delle tigri asiatiche, aveva teorizzato i tre grandi poli imperialistici in gara sulle corsie africane ed asiatiche dei mercati, delle risorse naturali, della forzalavoro rivestita di catene. Ora coloro che avevano parlato di imperialismo, cioè, se proprio si vuole, la globalizzazione a guida Usa, e, peggio, di contraddizioni interimperialistiche, quando hanno sentito singhiozzare l’Europa per le decimazioni all’uranio e, di conseguenza, per tutte le schifezze della schifezza guerra d’aggressione e gli Usa scatenarle contro il narcotico “terrorismo”, si sono aggiustati la cravatta, hanno tirato fuori il petto e stanno passeggiando per il corso lungo una serie di scappellate. Avevano previsto la falange, l’avevano vista arrivare, avevano spiegato come fermarla. Questa falange la guerra Usa-Europa l’ha portata al sole, come fanno i caterpillar. E se poi vi saranno secchiate d’acqua gettate dai padroni del mondo e dai loro maggiordomi su queste braci, la contraddizione interimperialistica avrà chi, tra gli uranizzati, i mandati al macello, i privati del diritto, i derubati per spendere sul militare, i flessibili di ogni specie, vorrà invece rinfocolarle perché divampino. E anche i palestinesi, con il loro “o patria o muerte”, avranno qualche zolfanello da contribuire. Loro che la falange ce l’hanno addosso.
La falange macedone è tornata di moda. Basta guardare la carta geografica per rendersi conto cosa si nasconde dietro al fenomeno della globalizzazione, quello smoking sotto al quale gli Usa e gli imperialismi minori europei e dell’Estremo Oriente indossano la divisa e le armi, magari all’uranio 238, dei loro assalti genocidi a popoli e risorse da riportare sotto lo stivale del colonialismo ottocentesco. Alessandro Magno non avrebbe saputo fare meglio: la punta della falange collocata in Turchia e proiettata verso il cuore dell’Asia, a conquistarne le risorse e ad assediare i potenziali rivali, Russia, Cina, India. Lo aveva detto chiaramente un libro bianco del Pentagono fin dal 1992: gli sforzi degli Stati Uniti per garantirsi l’egemonia mondiale (ecco la globalizzazione mascherata da “civile” mediante i terminali del complesso militare-industriale-politico statunitense: Fmi, Omc, Bm, G7) devono anzittutto impedire il riemergere di un rivale. I due fianchi della falange: la penetrazione verso Est attraverso i Balcani disintegrati e l’Europa, ridotta all’obbedienza facendo giocare la stellare superiorità militare Usa; il Medioriente assoggettato attraverso la rimozione dei punti di resistenza alla normalizzazione americana costituiti dall’Algeria (dunque sovversione anarco-integralista), dalla Palestina (soluzione finale per mano israeliana), dall’Iraq, potenza regionale e punto di riferimento per le mai sopite speranze di rivoluzione nazionale, mai morte tra le masse arabe (liquidazione totale attraverso guerra, embargo, uranio 238). In questa accelerazione offensiva impressa alla politica estera Usa da Bill Clinton si inseriscono tutte le iniziative destinate a sopprimere ogni punto di attrito all’interno dei paesi vassalli, governati da oligarchie politico-militar-mafiose, colluse in virtù di ricatti, garanzia di potere, minacce di destabilizzazione, prebende agli apparati finanziario-economici.
In primo luogo l’eliminazione nei termini più sanguinari di fattori di disturbo interni alla Turchia, come l’opposizione di sinistra che si è arrivati, con l’Europa che voltava la faccia dall’altra parte,a carbonizzare nelle carceri e, soprattutto, il popolo curdo e della sua rivoluzione armata, sospinta alla mercè dei tagliagole proconsolari del Puk di Talebani in Iraq, dopo la sconcertante resa unilaterale di un leader incarcerato e torturato, in tutta evidenza non padrone di sé. La persistente aggressività statunitense, per mano delle bande brigantesche e narcotrafficanti dell’ex-Uck e di formazioni simili in Montenegro ed Albania. Questa, col duplice obiettivo di tenere sotto pressione una Jugoslavia abitata da un popolo da sempre infido e nella quale la partita tra il Quisling Goran Djindjic e l’ondivago Vojislav Kostunica non è ancora risolta, e di costringere all’allineamento un’Europa terrorizzata dalle tensioni politico-sociali che potrebbero essere innescate da una nuova guerra balcanica. Infine, la militarizzazione, lungo linee strategiche dettate dagli Usa, dei paesi europei, con una formidabile accelerazione dei processi di criminalizzazione e repressione di ogni espressione di antagonismo sociale, antimperialista, pacifista, nonché di un capillare controllo sociale, di promozione a istituzione sopra le istituzioni di corpi militari (Carabinieri) e di professionalizzazione delle forze armate nell’ambito della nuova Nato d’attacco, anche nucleare, illegittima sul piano costituzionale e delle procedure parlamentari violate.
In questo contesto, per iniziativa di giornalisti e parlamentari di Rifondazione Comunista, si è verificato l’imprevisto: la dirompente rivelazione che la “guerra umanitaria” non era né umanitaria, né “pulita”, ma che il massiccio uso di proiettili e missili all’uranio 238, oltre a innescare un genocidio strisciante, già collaudato in Somalia e più mostruosamente in Iraq, dei popoli renitenti, non faceva differenza tra queste popolazioni civili e i militari dei paesi mercenari. Si è trattato della più grossa contraddizione esplosa nell’arco di cinquant’anni di Alleanza Atlantica, tra europei, da un lato, e comando politico-militare statunitense e britannico della Nato e, più significativamente, tra popolazioni che si sono viste sacrificate agli appetiti dell’imperialismo e dei loro governanti, collusi con l’operazione di pulizia etnica e sociale più scellerata dai tempi del nazifascismo e di Hiroshima. La reazione di Washington e dei suoi sicofanti europei alla prospettiva, ora davvero credibile, di finire nei tribunali sia del diritto, sia dei popoli, sia della storia, ha avuto il noto svolgimento previsto per queste occasioni dai manuali Cia. La chiusura dell’ambasciata a Roma come schiaffo a un presidente del consiglio che aveva osato l’impensabile: chiedere lumi alla Nato sulle cause della strage di militari italiani contaminati dall’U238 (delle popolazioni avviate verso il destino iracheno di un milione e mezzo di morti, in gran parte da U238, non interessa dar conto: trattasi di quegli imbecilli di kosovari che si sono fatti scoprire fuggire dalle bombe Nato – a buona ragione come s’è visto – piuttosto che dalla poi svaporata “pulizia etnica” serba). Il parallelo lancio della campagna terroristica contro un terrorismo – capofila Osama Bin Laden, da sempre manutengolo Cia – che tutta la storia dell’imperialismo ci insegna essere nella quasi totalità un autoterrorismo finalizzato alla soppressione del dissenso.
All’ossessivo allarme terrorismo si sono subito accompagnate le salmerie dei corifei mediatici, quali intellettualmente soft, quali con la grazie della mannaia. Si va da un Adriano Sofri, il falsificatore ad uso Nato delle stragi musulmane a Sarajevo e a Racak, che interviene sul mattatoio allestito in Palestina da Israele con un oceanico studio sull’innocenza ebraica e sulla colpevolezza romana nel processo a Gesù (storia già documentata da ben altri studiosi), a quei centri sociali del Nord Est, fraterni amici delle organizzazioni Cia in Jugoslavia (Otpor, Alleanza Civica), che rifiutano di partecipare alle manifestazioni in difesa del popolo palestinese massacrato perchè “non ci riconosciamo nella parola d’ordine Due Stati per Due Popoli, essendoci estranea (come all’imperialismo nei confronti degli stati da assoggettare, ndr) la nozione di Stato”. Oppure da certi democratici che insistono per il processo a Slobodan Milosevic per pulizie etniche (smentite da tutti gli investigatori) ed espulsioni (provocate da 78 giorni di bombardamenti Nato all’uranio), per poi adombrarsi della “violenza” nei territori occupati, tra bambini con pietre, senza patria, senza terra e spesso senza casa, e serial-killer con tiratori scelti, carri armati e Apache, forniti di munizioni all’U238 (fonti sulle consegne di proiettili all’uranio: Ufficio Ambiente delle FFaa Usa e Istituto di Ricerca olandese LAKA). Per finire con l’incongruenza dei moderati che, dopo aver alimentato il “partito del nè-ne”, né con la Nato, né con il dittatore Milosevic reo quantomeno di autoritarismo e corruzione, si schierano con Arafat, opportunamente nel contesto attuale, ma senza adottare la stessa equidistanza alla luce di fenomeni di corruzione ed autoritarismo dell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) rispetto ai quali il governo di Milosevic era un giardinetto di gigli.
Mirabilia di certo pacifismo.
Mi sono trovato a viaggiare con un legambientino pacifista per buona parte del campo di concentramento chiamato Territori Occupati. Per arrivare in qualsiasi villaggio o città sotto controllo palestinese, in quella allucinata fisionomia butterata dal vaiolo degli insediamenti che sono la Cisgiordania e Gaza, si impiega dieci volte il tempo che occorrerebbe se si potessero percorrere le ampie strade riservate ai coloni ed ai loro presidi armati. Il percorso è un gioco dell’oca, con in alto i moderni e lussuosi insediamenti colmi d’acqua potabile, per piscine e irrigazione di territori incessantemente confiscati ai palestinesi e, in basso, a portata di fucilate ad arbitrio degli umori coloniali, le case degli occupati, sistematicamente rinserrate da barriere ufficiali o allestite dai coloni. Lavoratori che non hanno reddito dal 24 settembre 2000, inizio della nuova Intifada di Al Aqsa, perchè non possono raggiungere i posti di lavoro, studenti impediti di andare a scuola, famiglie che non si possono rifornire di viveri e combustibili, trattenute di buste paga per 7 miliardi di dollari in tre mesi non restituite sotto forma di indennità di disoccupazione, assistenza sanitaria, pensioni, e quindi rubate da Israele. A Hebron sono entrato nella casa di un medico, nella città storica dei crociati ed ottomani, sui cui piani superiori si sono installati militari “a difesa” dei 400 coloni fascisti arrivati dagli Usa e insediatisi nel cuore del centro arabo. Dopo aver spaccato le tubature d’acqua e i cavi della luce del padrone di casa, oltre a riempirne dei loro rifiuti e delle loro feci il giardino e cortile, i soldati sparano quando gli gira contro le case arabe sottostanti. Nella giornata della nostra visita uccidevano una ragazza di 18 anni e ne ferirono l’amica all’interno di un appartamento. Più tardi, siamo capitati nella sparatoria contro un gruppo di civili palestinesi, alla disperata ricerca di viveri nel mercato sotto coprifuoco, e altri due palestinesi rimasero feriti. Questa volta però, i Tanzim (milizia palestinese), pareggiarono il conto, con altrettanti feriti da parte israeliana. In un’altra occasione, al posto di blocco di Belua, che blinda Ramallah verso Nord, nel solito scontro tra fucilatori israeliani dietro a blindati e tank e ragazzi palestinesi con le fionde di Davide, ci sono caduti a fianco in un’ora cinque feriti, dei quali una ragazza. Come fare, a questo punto, i grilli parlanti e rimproverare ai palestinesi di ricorrere, nell’ora del loro strangolamento e degli eccidi, alla lotta armata? Il mio amico non violento, brav’uomo, appariva disgustato dalla sfilata di uomini armati nell’anniversario della fondazione di Al Fatah, mi parlava della necessità imperativa per i palestinesi di dialogare con l’altra parte e si disperava di quanta strada dovessero percorrere per “arrivare ad amare i coloni”.
A Betlemme incontriamo Kamal Nasser che è dirigente sia della formazione di elite di Fatah, Forza 17, sia del Partito del Popolo (erede del partito comunista palestinese): “Il piano di pace di Clinton è uguale al diktat di Rambouillet e soddisfa esclusivamente gli interessi colonialistici israeliani, negandoci unità nazionale, capitale, frontiere, continuità territoriale, ritorno almeno di parte dei cinque milioni di profughi e punta soltanto a farci fare la figura di chi rifiuta ogni soluzione. Soltanto da Betlemme sono dovuti andarsene 250.000 betlemiti. Qui il 30% della popolazione vive di turismo, ma gli alberghi, ristoranti e negozi sono vuoti. L’esercito israeliano impedisce l’entrata e l’uscita. L’anno scorso a Natale abbiamo avuto 14.000 pellegrini, quest’anno 400. Per l’anno santo erano attesi un milione e mezzo, ne sono arrivati meno della metà e prima dell’Intifada. Eppure erano stati spesi, per l’accoglienza, 110 milioni di dollari pubblici e 130 privati. Oltre il 55% della forza lavoro è disoccupata. L’università ha perso l’80% degli studenti a causa del blocco. Sul piano sanitario rasentiamo la catastrofe. Le nostre ambulanze vengono trattenute per notti intere ai check-point e spesso i malati ci muoiono. Noi che eravamo al centro di scambi culturali con tutto il mondo (trenta gemellaggi con altre città), siamo ridotti a un deserto delle comunicazioni. A questo punto non abbiamo più nulla da perdere e la posta è esclusivamente il ritorno ai confini del 1967, come da risoluzioni Onu. Le elezioni del 6 febbraio saranno un esame di coscienza per il popolo israeliano. Se vince Sharon, il macellaio di Sabra e Chatila, vuol dire che non vogliono la pace. Toccherebbe all’Europa intervenire, i suoi interessi sono antagonistici rispetto a quelli americani ed israeliani. Purtroppo continua a funzionare il ricatto della Shoah, che non fu il nostro crimine. Ho letto che in Italia ci sono autorevoli commentatori, legati ad Israele, che tentano di far passare l’equazione: antisionismo uguale ad antisemitismo, ovviamente tesa a imbavagliare quei pochi che ci sostengono.”
Un’equazione che non fa la sinistra israeliana della coalizione Meretz. La forza di questa formazione, ambigua e piena di contraddizioni, sta scemando, come si è dissolto il movimento per la pace “Peace Now”, oggi sostituito da un gruppo assai minuscolo, ma molto combattivo e meno “equidistante” dei suoi predecessori sostenitori di Rabin, Gush Shalom, che in effetti fa ogni sforzo per sostenere la causa palestinese, però con l’obiettivo che un tempo apparteneva al Fronte Popolare palestinese: un unico stato laico, oggi certamente non all’ordine del giorno. I nostri interlocutori di Meretz cincischiano sullo smantellamento di tutti gli insediamenti e, soprattutto, sul ritorno dei profughi, per i quali “non ci sarebbe spazio” (c’è però spazio per 150.000 lavoratori stranieri, tra legali e illegali, forza lavoro sottopagata e alla mercè di qualsiasi arbitrio, come per tutti gli ebrei del mondo; ne sono arrivati, in parte falsi ebrei, più di un milione dalla Russia). Le elezioni sono vicine e anche Meretz sente l’aria razzista e fascistoide che tira nel paese. Si teme addirittura, e questa è una preoccupazione fondata sulla conquista delle posizioni più elevate nella gerarchia militare e delle forze di sicurezza da parte degli ufficiali integralisti più bellicosi, che Israele si avvii a una dittatura militare, appena mascherata da quanto il benevolo Occidente continuerà a considerare una democrazia. Già ora l’esercito è il massimo centro di potere dello Stato, i politici avanzano nella misura in cui sono stati comandanti nelle guerre del ‘67, ‘73 e nella carneficina nel Libano, le massime autorità giudiziarie si esprimono all’unisono con questi fautori della Grande Israele e l’esercito dispone anche della forza d’urto fascista dei coloni: 200.000 in armi e ormai liberi di compiere qualsiasi arbitrio ai danni dei civili palestinesi.
Jamal Zakuti, a Gaza, è uno dei massimi dirigenti dell’altro partito comunista palestinese, il Fida (Unione Democratica di Palestina), nato da una scissione del Fronte Democratico di Najef Hawatmeh. È stato a capo della prima Intifada, 1987-1993, nella quale ha avuto un figlio ucciso e la moglie incarcerata. Ha fatto parte del famoso gruppo di resistenti palestinesi che Israele espulse in Libano e che si arroccarono, in un lungo digiuno della fame, lungo il confine. Oggi è nel Politburo del Fida e segretario del Comitato Politico del parlamento (Consiglio Nazionale Palestinese), è stato tra i negoziatori della prima fase e ora è al governo della più disperata striscia di terra del mondo: 130.000 abitanti, la più alta densità demografica in assoluto, di cui 700.000 profughi rinserrati nei campi dai quali parte la più vivace risposta armata agli attacchi israeliani; 500 coloni installati in sei insediamenti che insistono sulle terre fertili e sulle acque non salinizzate dal prelievo israeliano.
Jamal ci parla dell’Intifada e del suo futuro. “C’è bisogno di un maggiore grado di organizzazione, coinvolgimento a lungo termine, comunicazione esterna. L’intifada deve avere un crescente carattere popolare, a fianco di una più efficiente risposta in termini militari. Contro gli abusi che stiamo subendo c’è poco da cincischiare: abbiamo il diritto, sancito dall’Onu, di difenderci con tutti i mezzi; come fa qualsiasi specie minacciata di eliminazione. Siamo in un momento critico, poiché sette anni di chiacchiere ed inganni, di promesse non mantenute, hanno provocato da un lato depressione, dall’altro una polarizzazione estrema tra le due parti. L’indebolimento ha anche riguardato il rapporto di partiti ed associazioni con il governo. Con l’escalation dell’aggressione, Barak ha tentato di approfittare di questa situazione, ma, nonostante tutto, i quattro mesi trascorsi hanno dimostrato che, anche se presi alla sprovvista dalla provocazione dello stragista Sharon sulla Spianata delle moschee, i palestinesi hanno una capacità di resistenza che nessun violenza riesce a piegare e sentono di essere più vicini che mai alla fine del dominio coloniale, nonostante il terrorismo di Stato esercitato da Israele e protetto dagli Usa e dai suoi accoliti. La nostra resistenza è un incoraggiamento a tutti coloro che vedono in Israele un avamposto dell’imperialismo neocolonialista , è la cartina di tornasole per ribadire che imperialismo e indipendenza sono la questione centrale nel mondo oggi. Vorrei che tutti coloro che protestano contro le organizzazioni internazionali della finanza, dell’economia, del commercio, vedessero il vero nocciolo del problema: l’egemonismo americano che in Medio Oriente e Asia si combina con il colonialismo sionista e che ha i suoi centri a Washington, a Bruxelles, a Tel Aviv. Si pensa a noi come a delle vittime, e lo siamo, ma siamo anche vincitori strategici. La nostra lotta ha conseguito successo dopo successo: ha imposto Madrid e poi Oslo, per quanto poi svuotati, ha fatto risvegliare le masse arabe dal Marocco all’Oceano Indiano, ha messo in crisi i regimi vassalli degli Usa e li ha costretti ad appoggiare l’Intifada; ha permesso all’Iraq di uscire dall’ostracismo arabo e mondiale (dall’Iraq ci sono venuti gli unici aiuti cospicui: beni per 1 miliardo di Euro bloccati dagli israeliani al confine giordano; 130.000 dollari alle famiglie degli arabi israeliani uccisi da Tsahal in Galilea, dopo che queste avevano respinto le scuse di Barak); ha dato nuovo impulso alle rivendicazioni di quei cittadini di terza classe che sono i palestinesi d’Israele, spodestati, discriminati, repressi non meno di noi nei territori occupati; ha costretto gli americani a misure di panico, come il lancio planetario dell’allarme terrorismo, un terrorismo attuato soprattutto da Usa e Israele nel nome del “contrasto al terrorismo”; i vertici arabi e islamici hanno formulato condanne senza precedenti di Israele, il suo isolamento economico attraverso la sospensione degli scambi commerciali e turistici”.
Chiediamo al compagno Jamal di parlarci del futuro della Resistenza.
“L’Intifada deve organizzarsi meglio a livello di base e di quadri. Dobbiamo creare un’economia della Resistenza con forme di cooperazione tra tutti i settori della società, un anticipo di come vorremmo la nostra futura società socialista. Dobbiamo costringere le autorità politiche ad adeguarsi all’Intifada. Ora che i negoziati sono evaporati nel nulla da cui erano sorti, il governo non ha più alibi. La base sociale del popolo ha dimostrato di sapersi far carico della Resistenza, a costo di sacrifici inenarrabili. Contadini, lavoratori, studenti, donne devono avere più voce in capitolo e si deve formare un governo nuovo, unitario, dove si facciano sentire le forze vive del nostro popolo, quelle che hanno pagato il vero, enorme tributo di sangue. Il suo programma economico e sociale deve essere indirizzato a costruire un’economia di resistenza solidale e di lunga durata. Non è più possibile che si sacrifichino solo i poveri, mentre alcuni ceti agiati non sono coinvolti. Sul piano militare le organizzazioni di sicurezza dell’Anp devono essere guidate dai patrioti palestinesi e specializzarsi nel contrasto agli squadroni della morte israeliani che hanno assassinato molti dei nostri migliori dirigenti. E qui una grande responsabilità pesa sulle forze della sinistra. Spetta a queste sostenere la lotta contro il nemico e contro le degenerazioni antidemocratiche interne. Spetta alle forze di sinistra coinvolgere tutte le classi e superare la spaccatura tra Anp e formazioni islamiche con strutture democratiche che sappiano controllare l’Anp. È l’unico modo per contenere l’espansione islamica. Quanto ai negoziati, noi vorremmo che procedessero di pari passo con le varie forme di lotta.
Quando abbiamo abbassato la guardia, hanno fatto spezzatino dei nostri diritti. Ma i negoziati non possono essere condotti da un arbitro che gioca per una delle due squadre. Devono guadagnare una nuova base internazionale, con il coinvolgimento di Europa, Russia e di tutti i paesi dell’area. L’obiettivo è l’attuazione delle risoluzioni Onu, l’unica questione da discutere è il calendario”.
Obietto a Jamal che tutto questo oggi, agli occhi di chi sta fuori, pare abbastanza utopico.
“Meno di quanto credi. Questa guerra fa molto male agli Usa e al loro controllo sul mondo arabo e islamico. E fa molto male a Israele.
Psicologicamente, la società ebraica è in piena nevrosi da paranoia.
Economicamente i danni sono enormi: si pensi che il blocco dei territori occupati e della nostra forza lavoro ha anche bloccato i 3,9 miliardi di dollari che noi importiamo da Israele contro i 600 milioni che esportiamo. L’industria e l’edilizia israeliane, pilastri dell’economia dello stato, sono ferme senza gli operai palestinesi. I generali-killer che si vanno facendo largo nella società e nelle FFaa d’Israele sono pericolosi per la stessa Israele. Voglio vedere per quanto potrà star ferma la cosiddetta comunità internazionale quando in Israele si sarà verificato un putsch, o, comunque, quando al potere ci sarà un criminale come Sharon. Ci saranno sicuramente nuove elezioni tra sei mesi e un anno. E anche Israele dovrà decidere se vuole essere un paese normale o in eterno un ghetto”.
Per accertarsi che non c’è utopia nelle previsioni che sorreggono tutti i palestinesi, basta fare un giro d’orizzonte nell’area. Israele, oltre a subire una pesante crisi di produzione e commerciale, si trova ad affrontare la bruciante questione dei lavoratori immigrati, circa 150.000, in rapporto alla popolazione la presenza più elevata del mondo. Filippini, nigeriani, latinoamericani, bangladeshi, pakistani, coreani, tutti adibiti ai lavori più umili e sottopagati, privi di ogni garanzia sindacale e sanitaria, oggetto di uno sfruttamento spietato che prevede 15 ore di lavoro al giorno e alloggi in stamberghe fatiscenti e superaffollate. Fanno bene ai profitti degli speculatori edili e di ogni genere che dovrebbero affrontare un costo del lavoro decuplicato impiegando manodopera israeliana. Ma provocano lacerazioni razziste nella società che ha, in grande maggioranza, un atteggiamento tipo Lega padana. I lavoratori palestinesi sono stati espulsi, nessuno li vuole più perché sa che domani saranno una quinta colonna dell’Intifada. Ma nessuno vuole gli immigrati. Una bella grana per un governo sostenuto dagli istinti più belluini del suo elettorato.
Guardando oltre il Golan, congelato nella presa israeliana, uno sviluppo storico di enorme rilevanza è la normalizzazione dei rapporti tra Siria ed Iraq, con la riapertura delle frontiere, i voli alla faccia del divieto Onu, gli scambi ripresi in pieno a dispetto dell’embargo, le visite ad alto livello, la riapertura delle ambasciate. Il tutto, dopo che ai vertici arabo ed islamico l’Iraq è rientrato alla grande nel consesso arabo-islamico, come quel paese che può dire a tutti: “avevamo ragione noi”, sia quando organizzammo l’alleanza anti-Camp David del 1977, sia quando resistemmo all’espansionismo di Khomeini, sia quando fummo l’ultimo trincea contro l’imperialismo. E anche l’Iran si è avvicinato allo schieramento arabo con la sua minaccia, di grandissimo peso dopo la sconfitta subita da Israele ad opera degli Hezbollah in Libano, di appoggiare fattivamente Siria e Libano in caso di aggressione israeliana. Il messaggio poi ha assunto maggiore concretezza, quando gli Hezbollah hanno ripreso le azioni armate contro il Nord d’Israele, in dichiarato appoggio all’Intifada.
Si tratta di successi dell’Intifada, ai quali se ne potrebbero aggiungere molti altri, anche sul piano psicologico. Ma più importante di tutto appare l’incipiente destabilizzazione del più importante paese arabo, l’Egitto del vecchio tiranno Mubarak, stretto tra aiuti statunitensi, indispensabili alla sua disastrata economia liberista e corrotta, e l’infiammarsi della protesta popolare, laica ed islamica, per la democrazia e a fianco dei palestinesi. Pressioni a tutti i livelli per interrompere i rapporti commerciali con Israele hanno portato al ritorno in patria dell’ambasciatore in Israele, alla chiusura degli uffici commerciali, all’interruzione del remunerativo flusso turistico.
Mentre campagne di boicottaggio ben organizzate e rilanciate da continue mobilitazioni di massa hanno provocato la rovina di alcune delle maggiori compagnie angloamericane che avevano investito in Egitto e che ora si ritirano.
Significativo il caso della Sainsbury Egypt, filiale della più grande catena di supermercati del mondo. Un membro della camera di commercio egiziana ha dichiarato: “Sainsbury, Coca Cola e Pepsi, ma anche moltissime grandi società di costruzione sono le prime vittime dell’Intifada, ma non saranno certamente le ultime. Il regime lo sa e sa che è troppo tardi per riaddomesticare i palestinesi e le proprie masse con un ulteriore umiliazione travestita da accordo di pace. Forse sta rinascendo un sentimento di unità araba, forse hanno tirato troppo la corda”.
Jamal, il compagno di Gaza, aveva parlato di una nuova fase della lotta di liberazione e di una rivoluzione nazionale che avrebbe dovuto unire proletari e borghesi. Fu così che il mondo arabo si liberò dal dominio coloniale britannico e francese. Ora deve toccare a statunitensi e israeliani.