La ristrutturazione delle aziende di proprietà statale (APS) nella Cina Popolare viene per lo più presentata in Occidente, come in Sudafrica, come un’imponente iniziativa di privatizzazione ed una ritirata dal socia-lismo. Anzi, viene assunta come “prova” del “fallimento” del socialismo non solo nell’ex – URSS, “ma anche in Cina”. Nel quadro attuale delle controversie circa la ristrutturazione delle aziende statali sudafricane, anche da parte dei nostri più stretti alleati, ci sentiamo spesso dire che la privatizzazione in Cina sarebbe “molto più ampia di quanto non venga ipotizzato qui in Sudafrica”.
In questo contesto, e nell’ambito degli scambi in corso tra comunisti sudafricani e comunisti cinesi, il Pcsa ha inviato una delegazione nella Cina Popolare, con l’obiettivo specifico di studiare la ristrutturazione delle APS in quel Paese.
La delegazione del Pcsa ha potuto trascorrere molto tempo con vari dirigenti ed esperti, senza limitazione alcuna nel formulare quesiti, né nell’esprimere preoccupazioni e perplessità. La delegazione ha pure visitato la provincia di Liaoning, centro dell’ industria pesante, ed in particolare la grande acciaieria di Anshan, parlando con la direzione di quest’ultima, nonché con i rappresentati aziendali del Partito. A Shangai, abbiamo potuto visitare un quartiere operaio suburbano nel nuovo centro industriale di Pudong, ove abbiamo discusso con le strutture di base del Partito, per renderci conto dell’impatto della ristrutturazione delle APS, e delle riforme economiche in genere, sulla vita dei lavoratori e delle loro famiglie.
Obiettivi strategici del PCC e del governo cinese nella riforma delle aziende statali
In ogni caso, i compagni cinesi – del PCC, del governo, delle direzioni aziendali – ci hanno categoricamente assicurato che le riforme delle APS sono elemento costitutivo dell’edificazione, ammodernamento e consolidamento del socialismo in Cina. Intendono il socialismo come economia mista, con predominio della proprietà pubblica. Accanto a quest’ultima (che comprende la proprietà statale, sociale/collettiva e cooperativa) vi sono aziende che combinano pubblico e privato (in genere APS con aziende estere), e la proprietà privata (nazionale ed estera); comun-que, va sottolineato che il settore predominante resta quello pubblico (in particolare le APS).
Il punto focale, che cioè la ristrutturazione delle APS mira a rafforzare, invece che indebolire, il settore pubblico, non è emerso solo dai nostri incontri con i compagni cinesi, ma viene argomentato e sottolineato dalle pubblicazioni ufficiali, tra cui le principali risoluzioni programmatiche del PCC. Il testo più recente ed ampio in merito è la “Delibera del PCC sulle grandi questioni relative a riforma e sviluppo delle APS”, del 4° Plenum (sessione plenaria) del CC, settembre 1999, che comprende le seguenti dichiarazioni strategiche:
“Nella nuova situazione, in cui si sviluppano simultaneamente la proprietà pubblica, come forma di proprietà predominante, ed altre forme di proprietà economica, l’economia statizzata, ulteriormente rafforzata nel suo complesso, continua ad espletare una funzione primaria nell’economia nazionale, ed è stata sempre la fonte principale di reddito economico, così da fornire un appoggio decisivo alla riforma ed all’edificazione del Paese “(p.1)
“Se si vuole incrementare la potenza economica, la capacità difensiva e la coesione nazionale della Cina, bisogna promuovere costantemente lo sviluppo ed il rafforzamento dell’economia statizzata. L’economia di proprietà pubblica, compresa quella statale, costituisce la base economica del sistema socialista cinese. E’ una forza fondamentale, che lo Stato impiega per dirigere, promuovere e regolare lo sviluppo socioeconomico, ed un’essenziale garanzia per realizzare gli interessi fondamentali e la prosperità comune della popolazione” (p.2).
“Le APS sono una colonna dell’economia nazionale cinese. La Cina deve sempre basarsi sul ruolo decisivo delle APS, e realizzarne appieno le potenzialità, per sviluppare le forze produttive della società socialista ed attuare industrializzazione e modernizzazione del Paese”(ibid.).
Dichiarazioni, queste, caratteristiche dell’approccio del PCC e del governo al processo di riforma delle APS,ed ispirate ad una rassicurante fiducia nel settore socialista statizzato. Certo, le dichiarazioni strategiche sono importanti, ma la realtà empirica può risultare assai diversa. Su di ciò ritornere
mo più sotto, ma ora va delineata un po’ più particolareggiatamente l’evoluzione della politica economica del PCC, e la posizione che assumono le APS in questo programma tuttora in fieri.
La ristrutturazione delle aziende statali nel contesto della modernizzazione del sistema socialista cinese
Nel primo triennio successivo al 1949, venne adottata un’economia “alla cinese”, che comprendeva un settore pubblico affiancato da una proprietà diversificata æ essenzialmente un’economia di mercato,con le APS che rappresentavano un 20% dell’economia.
Nel 1953 la Cina adottò il modello sovietico di un’economia pianificata, con monopolio statale della proprietà. Ciò venne attuato a tappe forzate,æ tanto che nel 1956 tutta l’economia era socializzata, con un 60% del PIL proveniente dalle APS ed il 40% dai collettivi. Quanto al prodotto industriale lordo, le quote erano 80 e 20% rispettivamente.Alla fine degli anni ’70, la crescita dell’economia socialista si rivelava insufficiente, e la pro
duttività molto bassa.Alla fine del 1978, il 3° plenum dell’XI CC deliberava di passare alla riforma.
Il processo di riforma delle APS,benché proseguito ininterrottamente dal 1978 in poi, si è articolato in fasi distinte, anzi, la ristrutturazione ha acquisito rilevanza centrale solo a partire dal 1991. L’approccio cinese è stato largamente empirico/pragmatico. Le fasi principali sono le seguenti:
– 1979 -1982: “A causa di molteplici ostacoli ideologici, ritenevamo che pianificazione e proprietà pubblica fossero indispensabili ad una società socialista, ed eravamo riluttanti ad infrangere tali principi fondamentali” (compagno Yang1). Dapprincipio, la direttiva era “rivitalizzare le APS”. In sostanza, si giudicava che il governo centrale esercitasse sulle APS un controllo troppo rigoroso; perciò, nella fase iniziale delle riforme, i principali provvedimenti consistettero in:
– decentramento dell’amministrazione, conferendo maggiori responsabilità alle aziende stesse;
– maggior redistribuzione di profitti alle aziende ed ai lavoratori, come incentivo alla produttività;
– quest’ultimo provvedimento venne ulteriormente modificato nel senso di consentire alle aziende di trattenere parte dei profitti (quote negoziate dalle aziende); ciò diede luogo ad alcune storture, tra cui una concorrenza interaziendale squilibrata ed ineguale;
– Nel 1983 si adottò una nuova politica. In considerazione di un bilancio nazionale molto costrittivo, il governo centrale stipulò di dover ricevere il 55% dei profitti delle APS. Tuttavia, questa quota nazionale del 55% restava insufficiente, e venne infatti aumentata, con serie difficoltà per le APS.
– Nel 1987 si effettuò un ennesimo aggiustamento, a partire da un tentativo di estrapolazione dalla situazione nelle campagne, ove le vecchie comuni erano state sostituite da un sistema di contratti basati sui nuclei familiari. Così le aziende sottoscrivevano contratti col governo e si accordavano sui livelli di contribuzione in caso di realizzazione di profitti, in caso contrario, il governo si assumeva per contratto la responsabilità, specialmente della sussistenza dei lavoratori. Ma in pratica si dovette constatare che un tale sistema, quali che ne fossero i risultati nel settore agricolo, era inapplicabile a quello industriale.
Nel 1990 era evidente che i ripetuti tentativi di promuovere sviluppo e produttività nelle principali APS mediante redistribuzione dei profitti non davano risultati pratici. Mentre all’inizio degli anni ’80 un 20% delle APS lavoravano in perdita, la percentuale era salita al 30% nell’arco di un decennio.
Nelle parole del compagno Yang, “nel 1991, ricapitolando l’esperienza del passato, trovammo che la causa principale delle perdite nelle APS non era tanto l’inadeguata distribuzione dei profitti, quanto la strutturazione irrazionale delle stesse”. Quindi, venne data priorità alla ristrutturazione, ed in connessione a ciò, nel 1992 venne adottato il concetto di “economia socialista di mercato”, e l’anno successivo il CC asseriva che la ristrutturazione delle APS costituiva parte essenziale della riforma complessiva dell’economia, nel senso appunto di un’ economia socialista di mercato.
– Ora la ristrutturazione delle APS si modellava sempre più sulle “aziende moderne” dei Paesi sviluppati, con particolare attenzione a:
– Tecniche scientifiche di gestione;
– Struttura delle APS, con maggior demarcazione tra le funzioni amministrative, da un lato, e la direzione strategica, dall’altro.
– Ma prima del 1997, questi nuovi approcci stentavano ad applicarsi. Questa conformazione sul modello delle aziende occidentali incontrava una considerevole opposizione ideologica. La situazione veniva complicata dagli “esuberi”, con necessità di ridurre gli organici, e dall’elevato indebitamento.
Il XV Congresso del PCC introdusse ulteriori modifiche, specie relativamente alla proprietà:
Nelle aziende non strategiche, il governo avrebbe potuto rinunziare al controllo, cedendo il posto a svariate forme di proprietà;
Nelle aziende maggiori, o situate in settori strategici, si sarebbe mantenuta la proprietà statale, pur proseguendo la ristrutturazione per “ammodernarle”.
– Nel settembre 1999, il 4° plenum del XV CC apportò altre modifiche, che consentivano la dismissione della proprietà statale anche di grandi APS. Comunque il governo avrebbe controllato quattro categorie di APS:
– Aziende legate alla sicurezza nazionale, specie le industrie di armamenti;
– Monopoli naturali (p.es. zecca, tabacchi);
– Aziende operanti nelle infrastrutture æ acqua, elettricità, gas, ferrovie, ospedali, scuole, ecc.
– Industrie “essenziali”: metallurgiche, carbonifere, ad alta tecnologia o con nuove tecnologie.
– In queste quattro categorie, la proprietà è spesso statale al 100%, ma in qualche caso lo è solo per la maggioranza; p.es., i privati detengono un 20-30% dell’ Azienda Petrolifera Cinese e delle Acciaierie di Baogang.
E tuttavia,il comp. Yang ha precisato che, in Cina, l’abbandono di una quota di proprietà statale differisce dall’impostazione privatizzatrice occidentale, poichè “ in Cina molte aziende sono di proprietà collettiva o cooperativa; così, p.es., nella ristrutturazione delle aziende di medie dimensioni, si privilegia la proprietà collettiva di dirigenti e lavoratori insieme, con azioni non trasferibili”.
Secondo le stime di Yang, 1/3 del PIL proviene dalle APS, un 40% dalle aziende collettivizzate, ed un 30% circa da aziende di proprietà straniera o privata. A suo dire, benché la quota delle APS possa ancora ridursi, come quella del settore collettivizzato, dovrebbero comunque restare nell’insieme al di sopra del 60% del PIL, sempre con un 30% proveniente dal settore privato. Tale ristrutturazione “non si farà certo in un solo giorno”, ma richiederà un decennio.
Il caso del Gruppo Metallurgico di Anshan
Per illustrare meglio le tendenze sopra delineate, può essere opportuno prendere in considerazione un’azienda particolare: l’ Azienda Metallurgica di Anshan (AMA), fondata nel 1919 e rilanciata nel 1949, una delle indu
strie modello nel periodo dell’economia pianificata. Storicamente, l’AMA ha apportato un cospicuo contributo all’economia socialista in quella fase storica, e tra l’altro è servita come centro di addestramento per gli stabili
menti metallurgici di tutto il Paese. Ma gli organici erano sproporzionatamente elevati, le attività produttive disperse su di un’ampia gamma di settori talvolta senz’alcun rapporto reciproco, e in passato la quasi totalità dei profitti andava allo Stato. Donde l’incapacità di attuare adeguati investimenti.I macchinari venivano scarsamente rinnovati, ed erano franca-mente sorpassati, risalendo agli anni ’50 e ’60. L’ AMA non era in grado di soddisfare le nuove esigenze del mercato. Malgrado la sua imponente presenza nell’economia socialista, era gravemente indebitata ed affetta da crescente obsolescenza tecnica. Prima del 9° piano quinquennale, quello di Anshan era un grande complesso che comprendeva non solo tutta una rete di attività produttive e commerciali (dalle minerarie alle cementiere, elettroniche e di sviluppo della proprietà), ma pure ospedali, scuole ed asili, tutti gestiti dall’azienda. Come era caratteristica di quella fase d’economia “pianificata”, la vita sociale dei lavoratori e delle loro famiglie era organizzata attorno al posto di produzione sotto la piena responsabilità aziendale.
A partire dal 1995 si è avviata la ristrutturazione, con l’obiettivo di instaurare ciò che la direzione e le strutture aziendali del PCC chiamano “sistema aziendale moderno”, che comprendeva una più netta definizione dei rapporti tra casa madre e filiali, ed una maggior concentrazione sulle attività primarie dell’Ente. L’ AMA è stata quindi divisa in due entità legali, la Nuova Azienda (s.r.l.) Metallurgica di Anshan, e le Nuove Acciaierie (s.r.l.), queste ultime quotate sulle borse di Hong Kong e Shenzen; queste due nuove entità, se abbiamo ben compreso, sono in sostanza entità giuridiche intese ad aumentare il capitale, investimenti governativi compresi. Così, per far fronte al debito, alcune banche di Stato hanno formato un’azienda finanziaria che detiene il 30% delle azioni delle Nuove Acciaierie (s.r.l.). Ma il compagno Yang e la sua delegazione hanno sottolineato che l’azienda rimane di proprietà statale al 100%.
La ristrutturazione ha inciso pesantemente sugli organici. Ai primi del 1995, erano 192000 in tutto il gruppo, di cui oltre 75000 addetti alle principali attività metallurgiche: miniere (11), fonderie e processi chimici afferenti. Altre 120.000 unità operavano in attività sussidiarie, quali materiali incombustibili, elettronica, trasporti, edilizia, ecc. Negli scorsi 5-6 anni, l’organico nelle attività primarie è stato ridotto da 75000 a 43000, e nel prossimo quinquennio si mira a ridurlo a 20000 unità.
Quanto alle precedenti consociate, sono state ristrutturate in 27 aziende distinte, responsabili per i propri profitti e debiti; i loro rapporti col resto del G Nuove Acciaierie (s.r.l.), basati su criteri puramente mercantili, benché la loro costituzione sia stata oggetto di investimenti pianificati, in parte per garantirne la vitalità e la capacità di assorbire una quota degli esuberi dell’azienda metallurgica centrale.
Il compagno Yang ha precisato che la riduzione degli organici è sempre stata accuratamente programmata, in modo da garantire che i lavoratori in esubero non si trovassero “gettati nel vuoto”. Su 28000 esuberi (quelli cioè
che non se ne sarebbero comunque andati per anzianità e così via), circa 15000 sono stati riassunti negli stabilimenti sussidiari o in aziende di nuova costituzione. Altri 5000 stanno attualmente seguendo corsi di formazione retribuiti presso un apposito Centro di collocamento gestito dall’Azienda.Coloro che non possono venir ricollocati per “passaggio diretto” da tale Centro possono restare ancora per un biennio, dopo di che vanno in pensione.La Provincia di Liaoning, ove si trova Anshan, è stata appunto designata come provincia pilota per la messa in opera di un sistema previdenziale rinnovato. I servizi pubblici provinciali æ trasporti, abitazioni, scuole, sanità æ sono già relativamente avanzati, ma la Repubblica popolare Cinese sta progressivamente spostando le risorse per il sistema previdenziale dalle aziende alla società (in parte per affron-tare la nuova realtà delle aziende private o joint ventures, in parte per concentrare maggiormente l’attività delle APS sulla produzione).
La sistematica disinformazione sulle riforme in Cina
– Più sopra, abbiamo cercato di lumeggiare i principali obiettivi strategici delle riforme economiche cinesi, specie in rapporto alla ristrutturazione delle APS. Ci sembra emergerne un’impostazione socialista ben definita, il che pone l’interrogativo di come mai sia così diffusa e quasi data per scontata l’idea che la direzione cinese abbia deliberatamente imboccata “la strada del capitalismo”. In parte, ciò si deve a distorsioni fatte ad arte (o al confusionismo dell’ignoranza) che a noi sono ben familiari.
– Mercato non è uguale a capitalismo æ Buonda parte della disinformazione circa il processo di riforma cinese poggia sull’identificazione semplicistica del “mercato” col “capitalismo”. Poiché i cinesi sostengono apertamente rapporti mercantili, si dice, essi stanno evidentemente
adottando il capitalismo. Ma, come da tempo hanno riconosciuto gli stessi documenti strategici e tattici del PCSA, forme di mercato preesistevano allo sviluppo storico del capitalismo, e possono (devono) sussistere in regime socialista. Una componente essenziale del processo di riforma di Deng, dopo il 1978, è appunto l’introduzione di un maggior gioco “regolatorio” di rapporti mercantili, come elemento di rivivificazione ed ammodernamento del socialismo cinese. Deng, nelle sue opere, invoca appunto il concetto di “regolamentazione” per suggerire che, mentre nel capitalismo è il mercato che dev’essere regolamentato, nel socialismo esso stesso può svolgere, almeno parzialmente, una funzione regolatrice. Questa funzione il mercato la espleta nell’interazione tra diversi enti di proprietà pubblica in Cina, nonché tra il settore socialista e quello non socialista, e tra l’economia cinese nel suo insieme ed il resto del mondo. I compagni cinesi respingono decisamente ogni equiparazione di mercato e capitalismo. “Dobbiamo comprendere teoricamente che la differenza tra capitalismo e socialismo non è quella di un’economia di mercato contrapposta ad un’economia pianificata. Il socialismo viene regolato dalle forze del mercato, ed il capitalismo dalla pianificazione. Pensate forse che il capitalismo disponga di libertà illimitata, senz’alcun controllo?… Non bisogna credere che se abbiamo un po’ d’economia mercantile dovremo prendere la via del capitalismo: ciò è semplicemente falso (Deng, Opere Scelte III, p. 351).
– La liberalizzazione non s’identifica con la privatizzazione: anche questa è un’equiparazione corrente, e connessa alla precedente. A partire dal 1978, il processo di riforma di Deng ha comportato l’apertura di cospicui settori dell’economia cinese alle unità familiari/sociali/cooperative ed all’iniziativa privata, ma tutto ciò in buona parte implica, invece dell’alienazione o vendita delle proprietà pubbliche, la creazione di nuove opportunità per il settore non statizzato. E’ stata dedicata molta attenzione all’applicazione equilibrata della liberalizzazione, al fine di conseguire un’ armonica interazione tra proprietà statali e non, nel quadro complessivo del sistema socialista.
La Cina non sta perseguendo una liquidazione del socialismo, alla Boris Elzin. Un’altra asserzione assai frequente, ma destituita di fondamento, è quella che le riforme cinesi starebbero seguendo un orientamento com-plessivo ispirato alle “riforme” elziniane in Russia.In realtà,la direzione del PCC si guarda bene dall’imitarle. Anzitutto, le riforme economiche cinesi risalgono al 1978, e non sono una mera reazione agli eventi del 1990 -1991. Cosa più importante, come in precedenza accennato, i loro rapporti con i mercati capitalistici globali mirano alla modernizzazione ed al consolidamento dello stesso settore socialista, invece che al suo smantellamento, laddove nel caso russo si è proceduto ad una svendita generalizzata, se non una pura e semplice rapina, della proprietà pubblica. Le “riforme” di Elzin, di natura capitalistica, hanno avuto gli esiti seguenti:
– La Russia è stata portata sull’orlo del crollo economico, processo che si è più recentemente cercato di frenare, nel periodo post elziniano, rallentando le “riforme”;
– Ai vertici dell’economia si è insediata una mistura di capitalisti mafiosi emergenti russi e di multinazionali estere, donde
– una cospicua limitazione della sovranità nazionale.
– I monopoli statali sono stati semplicemente convertiti in privati, ed essi, “liberati” dalla disciplina del piano statale, fanno prezzi monopolistici, col risultato di
– un considerevole degrado delle interconnessioni nell’ambito dell’economia nazionale, fino al regresso a rapporti primitivi di “baratto” tra le grandi aziende (e ciò mostra quale sia nei fatti la pretesa superiorità del mercato capitalistico);
Abbastanza ironicamente, l’immiserimento di massa complessivo, e la crisi di disoccupazione, risultanti dalle condizioni di cui sopra, hanno privato di ogni effettivo mercato di massa le aziende private piccole e medie.
In Cina, invece, il persistente predominio del settore pubblico ha consentito un mercato di massa, per esempio per le piccole e medie aziende private operanti nel settore dei servizi. Quindi, la liberalizzazione a favore delle imprese private piccole e medie, e la persistenza di un settore pubblico preponderante, hanno interagito con vantaggio reciproco.
Sempre l’esistenza di un settore pubblico predominante ha consentito ai cinesi di attuare provvedimenti anticiclici per compensare le fasi di depressione capitalistiche. Nel 1998,in risposta alla “crisi asiatica”, che aveva gravemente colpito i mercati principali delle esportazioni cinesi, la Repubblica Popolare Cinese ha sostanziosamente (nell’ordine del 20%) aumentato i salari nel settore pubblico. Questi provvedimenti di “stimolo socialista alla domanda” hanno concorso a sostenere lo sviluppo globale dell’economia cinese, ivi compreso il suo emergente settore privato.
E’ vero che i nostri interlocutori cinesi hanno prontamente sottolineato il carattere temporaneo di questi provvedimenti di stimolo, affermando che la loro strategia di sviluppo non s’impernia su di un paradigma keynesiano di stimolo alla domanda.
E’ comunque importante constatare che le misure “stabilizzatrici”, anche di fronte a crisi globali, non devono obbligatoriamente assumere carattere di “austerità”. Quando, nel nostro Paese, ci si dice che abbiamo superato la turbolenza globale meglio di altre economie in via di sviluppo grazie appunto a misure di “austerità”, si dimentica non a caso l’esempio della Cina, la più grande economia in via di sviluppo a livello mondiale;
æil che non significa peraltro che in Sudafrica disponessimo delle stesse opportunità e degli stessi meccanismi di stimolo alla domanda.
Il caso cinese ci impone di ripensare le interconnessioni tra capitalismo e socialismo
Quanto sopra implica – come il PCSA va dicendo da anni – che il rapporto tra socialismo e capitalismo è assai più complesso e dinamico di quanto presumessimo. Il socialismo non può fiorire, e neanche sopravvivere, isolato dietro una cortina di ferro (o di bambù) ænon può svilupparsi dinamicamente se posto in quarantena “in un solo Paese” o in un unico “blocco”. Il socialismo cinese, e certo ogni socialismo effettuale in qualsiasi altro Paese, non può isolarsi dal sistema capitalistico mondiale, ma non può nemmeno semplicemente aprirsi ad esso, consegnandosi, volente o nolente, alle transnazionali, alla Eltsin. Il socialismo è un sistema di lunga lena, transitorio e misto. La società socialista deve combinare forme economiche socialiste e capitalistiche,ma con la preponderanza delle prime, che devono guidare e dirigere il capitale privato, ma anche con esso interagire.
Come si è visto, un predominante settore socialista ha consentito all’economia cinese, ed al suo stesso settore privato, di temperare le crisi capitalistiche globali del 1998 e del 2001. Anzi, vi sono chiari indizi che la durata relativamente breve della crisi “asiatica” sia stata in buona misura connessa allo sviluppo continuato dell’economia cinese, perfino nel bel mezzo della crisi medesima; così, alcuni compagni cinesi hanno osservato, non senza ironia, che alcuni dei maggiori capitalisti asiatici avevano ammesso che, senza i loro investimenti in Cina, sarebbero andati in rovina nel 1998. Forse il sistema capitalistico mondiale abbisogna del motore del socialismo per uscire dalle proprie crisi strutturali ?
Tra parentesi, queste osservazioni si riconnettono significativamente alla parola d’ordine del PCSA: “Il socialismo è il futuro, costruiamolo fin da ora”. Anche tra i nostri alleati, si è cercato di far passare questo slogan, nel migliore dei casi, per un’espressione di confusionismo, e nel peggiore, per una manifestazione di avventurismo estremistico. Ma se comprendiamo la natura transitoria e mista del socialismo, e l’interconnessione tra forme socialiste e capitaliste, allora il compito di costruire premesse, forze, elementi di socialismo nel Sudafrica odierno può venir inteso come compito essenziale per la stessa rivoluzione democratica nazionale, pur nel quadro di un sistema capitalistico tuttora predominante.
Certo, dobbiamo guardarci dall’estrapolare dalla realtà cinese “schemi orientativi”. In Cina, la ristrutturazione delle APS ha avuto luogo in una situazione in cui solo 23 anni fa il 100% dell’economia era di proprietà pubblica. Nella nostra situazione invece, abbiamo ereditatato un considerevole settore di APS, ma nell’ambito di un’economia prevalentemente capitalistica. La Repubblica Popolare Cinese ha pure molti vantaggi che a noi mancano æ un trentennio di notevole stabilità sociale, una crescita economica di oltre il 200% a partire dalle riforme del 1978, ed un enorme mercato, pari a un quinto della popolazione mondiale.
– Tenendo presente tutto questo, e la scala affatto diversa delle due società in questione, possiamo comunque prendere in considerazione alcuni preziosi insegnamenti pratici:
– Un processo aperto, pragmatico e sottoposto a continua verifica. Dal 1978 i cinesi hanno coscientemente evitato l’impostazione “tutto in una volta”; hanno ricercato soluzioni originali, pur imparando da altri esperimenti socialisti nonché dai Pesi capitalistici. Contrariamente all’esplosione di privatizzazioni alla Eltsin, sempre oggetto di polemica in Cina, hanno affrontato ristrutturazioni e riforme in genere con cautela, apprendendo dalla loro stessa esperienza, sperimentando una riforma in una particolare città, provincia o settore. In parte ciò si inquadra nel prag-matismo post 1978, che imponeva di “cercare le pietre su cui camminare per attraversare il fiume” (Deng) e di “imparare dai fatti”.
– In Cina, il ruolo del Partito nelle APS è pianificato, formalizzato, strutturato, e va crescendo.Ad esempio, la delibera del 4° plenum del XV Congresso (sett. 1999) recitava:
“Il rafforzamento e miglioramento della direzione del Partito à garanzia fondamentale per accelerare riforma e sviluppo delle APS. In genere, per amministrarle bene, occorre sforzarsi di instaurare un sistema di direzione e sistemi organizzativi conformi alle leggi del mercato ed all’effettiva situazione cinese,consolidarne la direzione, dar spazio agli organismi di Partito come centro politico aziendale, ed attenersi al principio di fondarsi senza riserve sulla classe operaia” (pp.20-21).
– Ruolo dei lavoratori e dei loro organismi nelle APS æ La delibera del CC del settembre 1999 sulla riforma delle APS recita :
“Per il buon esito della riforma e dello sviluppo delle APS, bisogna sforzarsi di rispettare la condizione dei lavoratori quali padroni delle proprie aziende, dando spazio alla volonterosità, iniziativa, creatività di operai ed impiegati.
“Vanno presi provvedimenti decisi per proteggere interessi economici e garantire diritti democratici dei lavoratori. Va fatto di più per consolidare i rapporti di lavoro, porre in atto la parità di diritti ai sensi della legge, ed applicare correttamente i contratti.
“Va potenziato il ruolo dei sindacati e delle assemblee operaie nel processo direzionale democratico, nella gestione democratica, e nella supervisione democratica (p.22)
La delegazione del PCSA non ha avuto tempo sufficiente per verificare il grado effettivo di attuazione di questi indirizzi,ma il fatto stesso che siano stati adottati non è comunque privo di significato.
Problemi e difficoltà
Riuscirà l’avanzata socialista cinese? Tutti nostri interlocutori cinesi si rendono perfettamente conto delle numerose incertezze e difficoltà cui devono far fronte nella lotta per portare avanti ed approfondire il socialismo nel loro Paese.
– Hanno, certo legittimamente, scelto di interagire dinamicamente con il capitalismo; e sperano di poter pilotare il processo di crescita e sviluppo in corso utilizzando il settore socialista, il potere statale, il Partito, l’appoggio delle masse lavoratrici.Ma vi è naturalmente il rischio che il ricorso al capitalismo scateni processi materiali e dinamiche di classe tali da frustrare tale progetto.Tra i molti problemi, che essi stessi riconoscono:
– Il crescente divario tra città costiere sudorientali in rapida crescita e retroterra occidentale relativamente arretrato.Il processo di riforma cinese ha coscientemente assunto questo rischio di permettere una crescita incredibilmente rapida, ma a livello regionale, nelle città costiere sud orientali, nella speranza che dette regioni infine operino come motore e piattaforma di lancio per lo sviluppo dell’intero Paese. Vi è il rischio che si spalanchi un invalicabile abisso tra condizioni di primo e terzo mondo, con tutti gli scompensi e le incertezze a lungo termine che ne possono derivare. Tuttavia, proprio l’anno scorso, si sono annunciati grandi programmi di sviluppo di infrastrutture per le regioni occidentali. Resta da vedere se lo sviluppo socialista equilibrato che il PCC si prefigge troverà pratica attuazione.
– L’apertura ai mercati capitalistici, pur favorendo alcuni settori dell’economia cinese, potrebbe comprometterne altri. Con l’ingresso della Cina nel WTO, sono sorte preoccupazioni soprattutto per l’agricoltura. Come sopra accennato, le riforme hanno introdotto un sistema di contratti per unità familiari: la terra è di proprietà pubblica, ma viene coltivata, in base a contratti annui, dalle singole famiglie, che poi vendono le eccedenze. Queste riforme hanno messo fine ai gravi problemi di approvvigionamento alimentare conosciuti in precedenza, ed hanno apportato un elevato livello di stabilità e sicurezza sociale: ma rispetto ai parametri internazionali, i livelli produttivi sono molto bassi.
– Pericoli di corruzione e perdita di direzione morale nello stesso PCC. Esso è stato partito dirigente fin dal 1949. Nella misura in cui sono sempre più numerosi i quadri dirigenti del Partito che operano a contatto dei capitalisti in seguito all’introduzione di incentivi di mercato,delle tecniche occidentali di direzione aziendale, delle joint ventures e della liberalizzazione, sorge ovviamente il rischio di abusi di potere (politico ed amministrativo) a fini di guadagno individuale. La delegazione del PCSA, dovunque si è recata, ha posto domande circa questi rischi, che i nostri interlocutori cinesi hanno senza riserve riconosciuto, citando numerosi e ben noti casi di corruzione ad alto livello. Da notare che, almeno in questi casi clamorosi,sono stati presi rapidi provvedimenti, irrogando gravi pene (in qualche caso addirittura la pena capitale).In un caso, un alto funzionario, accusato di concussione,è stato licenziato, rimandato a Pechino, e posto agli arresti domiciliari per tutta la durata dell’inchiesta. Il PCC sembra prendere molto sul serio la formazione ideologica . La Scuola Centrale di Partito, a Pechino, che abbiamo visitato, tiene lunghi corsi ideologici,che richiedono mesi di studio anche per i quadri di più alto livello. Alcune federazioni del PCC promuovono processi di valutazione ed autovalutazione periodici molto rigorosi. In un dipartimento del CC, ci è stato detto, tutti gli alti dirigenti dovevano redigere un’autovalutazione personale, esaminando il lavoro svolto nel corso degli ultimi anni e chiarendo i propri punti forti e deboli. Questi rapporti personali venivano quindi presentati alle rispettive sottocommissioni, affinché i quadri inferiori esaminassero le autovalutazioni dei propri dirigenti, con la possibilità di far rilievi rigorosamente anonimi. Poi, ai singoli quadri dirigenti venivano comunicate le valutazioni dei subalterni, perché facessero osservazioni in proposito. Questo processo di autovalutazione dei dirigenti, valutati a loro volta dai subalterni, con possibilità di correzione dell’autovalutazione iniziale, occupava un paio di mesi di lavoro, con vari cicli, avanti e indietro. Il risultato finale poteva essere , in qualche caso, la ricollocazione del personale direttivo.
– Un altro punto, nelle discussioni coi compagni del PCC, ha particolarmente colpito la nostra delegazione, cioè:
– L’interpretazione della globalizzazione. Su ciò i compagni cinesi sono stati molto coerenti: a loro avviso, l’ondata di globalizzazione in corso è iniziata nel 1990, dopo che l’ultimo grande flusso di espansione capitalistica/imperialistica era stato interrotto dalla Rivoluzione d’ Ottobre. Con il crollo del blocco sovietico, ci hanno detto i compagni cinesi, si sono aperti nuovi grandi spazi di espansione capitalistica, aspetto centrale dell’attuale fase di globalizzazione.
– Dal canto nostro, abbiamo presentato l’approccio alquanto diverso del PCSA alla fase attuale di globalizzazione, facendola risalire non al 1990, ma ai primi anni ’70 ed a una crisi della redditività nei centri avanzati dell’accumulazione capitalistica nel Nord del mondo. Abbiamo argomentato che l’espansione imperialistica era proseguita ben oltre il 1917, come mostrava il nostro stesso Paese e la relativa area. Ed abbiamo pure sottolineato come questi abbiano risentito l’impatto della nuova fase di espansione intensificata (a partire dal 1973).
– Non appaiono evidenti le conseguenze pratiche di queste analisi in parte divergenti.Su ciò si è convenuto di indagare ulteriormente. La nostra preoccupazione è che un’analisi della globalizzazione non fondata sulle contraddizioni sistemiche del capitalismo globale possa in definitiva darne una lettura eccessivamente benevola, nel senso di concepire la globalizzazione come espansione quantitativa e sviluppo qualitativo delle forze produttive (come è di fatto), senza però comprendere come questa evoluzione si accompagni a contraddizioni sistemiche, diversificate e di fondo.
A mo’ di conclusione
La delegazione del PCSA nella Repubblica popolare cinese (agosto 2001) si colloca nel processo in corso di sviluppo delle relazioni coi compagni del PCC. Ci siamo previamente documentati, sulla scorta delle precedenti delegazioni, con dibattiti e letture. Non pretendiamo minimamente di essere con ciò divenuti “esperti” della Cina. Siamo tuttavia fermamente convinti che i molti luoghi comuni che distorcono volgarmente la realtà cinese (anche a partire da una perdita di fiducia nel socialismo), e che meccanicamente ripetono insinuazioni sulla presunta totale privatizzazione in quel Paese; che deridono il nostro Partito perché si attarda in queste discussioni, mentre a Pechino si sarebbe imboccata la via del capitalismo, possono forse adattarsi a elementi demoralizzati, ignoranti e spoliticizzati, ma non trovano alcun riscontro in una valutazione obiettiva di ciò che realmente avviene nella Cina odierna.
Note
1 Si riferisce a Yang Qixan, presidente dell’Istituto di ricerca sulla ristrutturazione economica, uno degli esperti cinesi che ha incontrato la delegazione sudafricana.