Sul “socialismo realizzato”

E’ trascorso oltre un decennio dalla “caduta” dell’Urss e dei paesi del socialismo realizzato. Dieci anni, in sé, non sono né un tempo breve né un tempo lungo: è solo la storia, infatti, le sue accelerazioni, a definire la vastità di un arco temporale. Di quest’ultimo decennio non siamo ancora in grado di decodificare il moto carsico e profondo, dunque non siamo ancora in grado dire se sia stato un tempo breve o lungo.
Due fatti incontrovertibili – solo apparentemente lontani tra loro – sono stati però già registrati: primo, la vera e propria trasformazione politica ed economica del mondo dopo la scomparsa dell’Urss e del socialismo realizzato (egemonia politica, economica, culturale, militare dell’imperialismo a livello planetario; arretramento di straordinarie dimensioni dell’intero fronte comunista, rivoluzionario, antimperialista; involuzione liberista delle forze socialdemocratiche e dell’Internazionale Socialista); secondo, l’incapacità di fase, per le forze comuniste, di “elaborare il lutto” e razionalizzare la scomparsa dell’Urss e del “campo”; si è passati, infatti, da una irrazionale ipotesi – sostenuta dalle tendenze culturalmente massimaliste del movimento comunista – secondo la quale “il crollo” di quelle esperienze “degenerate” avrebbe “finalmente” permesso un nuovo e più “puro” processo rivoluzionario internazionale, ad ipotesi, di cui, in Italia, un esponente – conscio od inconscio – è stato Armando Cossutta, secondo le quali il venir meno del “campo” significava, per un lungo periodo storico, il venir meno delle condizioni per la costruzione di nuove organizzazioni comuniste autonome, in Italia, in Europa, in tanta parte del mondo.
Siamo stati e siamo ancora essenzialmente di fronte, dopo “il crollo”, ad una incapacità di decodificarne i motivi e le conseguenze, un’incapacità teorica di elaborazione che è segno della debolezza attuale del movimento comunista, un’incapacità chiaramente figlia della stessa sconfitta di fase.

L’esigenza di una analisi scientifica

C’è invece un bisogno, urgente e assoluto, di ripensare, analizzare – scevri da nostalgie e armati della miglior scienza possibile – la gloriosa e contraddittoria esperienza del movimento comunista, delle sue forme sociali concretamente realizzatesi. Una necessità, quella dei comunisti (che in fondo, rappresentano “l’altra parte del mondo”) di rivisitare la propria storia, tanto più forte quanto più è alta la consapevolezza che da lì occorra ripartire sia per enucleare e rinnegare gli errori, che per riassumere, per un nuovo processo rivoluzionario, i “punti alti” delle esperienze socialiste storicamente determinatesi. Un tentativo generale e ineludibile di analisi che – va detto – non appare ancora, in Italia e nell’intero quadro internazionale, sufficientemente sviluppatosi, con il rischio conseguente di approcci alla grande questione del socialismo realizzato – alle sue vittorie, ai suoi errori, alle sue degenerazioni e al suo crollo – di natura o affrettatamente “liquidazionista” o ciecamente apologetica o – peggio ancora – snobisticamente indifferente (non li immaginiamo, i marxisti da salotto borghese, segnati dalla cravatta all’animo da quell’eurocentrismo pervasivo che non permette loro di “sentire” – prima ancora che conoscere – gli altri mondi al di là dell’Europa? Non li immaginiamo scuotere irridenti la testa e ratificare la necessità di gettare nella spazzatura il socialismo realizzato, poiché davvero lontano dal comunismo che loro hanno in testa, un comunismo alla Toni Negri, bello, privo del sangue e della merda della storia, un “comunismo subito” che passa attraverso gli “espropri proletari” ai danni dei grandi supermercati delle metropoli capitalistiche?) .
Crediamo invece fortemente che la storicamente non lunga ma densa esperienza delle prime forme di socialismo realizzato rappresenti un tesoro di inestimabile valore per impreziosire, sia sul piano della prassi che della ricerca teorica, il già ricco patrimonio del movimento comunista mondiale.
Da quel tesoro possiamo recuperare ogni possibile gemma come gettare via per sempre ogni pietra falsa, riassumere lo splendore delle conquiste rivoluzionarie e rigettare per sempre ogni deviazione antidemocratica e antisocialista.
La stessa vasta, variegata, spesso fortemente contraddittoria gamma dei giudizi di natura politica, teorica e storica proveniente dall’intero arco delle forze comuniste e anticapitaliste mondiali, dall’intero arco delle tendenze di ispirazione marxista sul socialismo realizzato, indica l’esigenza di proseguire il dibattito – e soprattutto la ricerca scientifica – attraverso forme e modalità più strutturate e organiche, che nulla lascino all’improvvisazione, alle necessità tattiche di ciascun partito e di ciascuna tendenza, puntando invece ad una lettura teorica alta e collettivamente determinata.
Una lettura collettiva del socialismo realizzato che doveva essere innanzitutto promossa, in Italia, da Rifondazione Comunista (ed il fatto che ciò non sia avvenuto ha creato le condizioni, nell’intera area marxista italiana, sia per letture individualistiche, rozze e superficiali di quelle esperienze, che per battaglie di pura tendenza) e che poteva maturare a livello internazionale da un impegno collettivo dell’insieme del movimento comunista (ad esempio attraverso un forum internazionale delle forze comuniste e anticapitaliste che avrebbe potuto anche a lungo proseguire i propri lavori i quali, infine, avrebbero potuto offrirsi come contributo importante per la stessa ridefinizione di un’identità comunista, anticapitalista e rivoluzionaria internazionale).

I retaggi ideologici

Allo stato delle cose, in effetti, i giudizi e le analisi relativi al crollo del “socialismo realizzato” sono ancora tra essi così distanti da suggerire l’ipotesi che non derivino tanto da griglie di lettura scientifiche, ma da “retaggi” ideologici particolari, da scuole di pensiero comuniste e anticapitaliste che riversano nell’analisi ancora tutte sé stesse, impedendo con ciò una lettura libera, alta, scevra da tatticismi più o meno inconsapevoli o da atteggiamenti solamente volti alla reiterazione “di sé”, della propria “scuola” particolare. Da questo punto di vista il “liquidazionismo” assoluto con il quale si giudica tutta l’esperienza del “socialismo realizzato” (“nulla di socialista vi era in quei paesi”), atteggiamento proveniente da alcune parti, se non certo maggioritarie nemmeno irrilevanti, del movimento anticapitalista mondiale, appare chiaramente una delle varianti di un tema complessivo insoluto, che ha come altre e speculari varianti l’apologia sostanzialmente acritica del “socialismo realizzato” (che giunge – imputando solamente Gorbaciov del “crollo” – a riassumere come chiave di lettura generale la categoria del tradimento); la “centralità” storica della “degenerazione burocratica”, idealisticamente assunta quale base “materiale” della perversione del sistema; l’identificazione del demone della corruzione nel “capitalismo di Stato”, quale cuore di ogni involuzione produttiva e democratica delI’Urss (e conseguentemente dei paesi dell’Est europeo); la nozione di accerchiamento, quale unica esaustiva e tranquillizzante chiave di lettura delle contraddizioni interne del socialismo realizzato. L’attestarsi non dialettico di ogni scuola e tendenza sul proprio “fronte” interpretativo tiene oggettivamente “bloccata” la ricerca, e sempre più, dunque, appare necessario lo sviluppo di un ampio e libero dibattito collettivo nazionale e internazionale, che da una parte – senza “lacci e lacciuoli” politicistici, ma su di una base intellettualmente libera e alta – potrebbe davvero aprire la fase dello studio, e d’altra parte arare il terreno per l’obiettivo di una maggior vicinanza – ideale, politica, operativa – delle forze comuniste e anticapitaliste del mondo.
La liberazione dal “tatticismo” nell’interpretare la storia delle prime forme di “socialismo realizzato” – obi ettivo conseguibile attraverso quel libero dibattito collettivo nazionale e internazionale che evochiamo ed auspichiamo – rappresenterebbe un traguardo molto più importante di ciò che si pensi, o non si pensi. La strumentalizzazione, la lettura “ad usum Delphini”, la torsione verso sé, l’utilizzo di una particolare lettura del “socialismo realizzato” – nelle sue varie fasi storiche – al fine di “corroborare” una propria scuola comunista e anticapitalista o una linea politica generale di partito, hanno sempre svolto una funzione determinante.

Liquidazionismo e filosovietismo di maniera

Non è inverosimile oggi pensare, ad esempio, quanto un “filosovietismo” di maniera sia stato funzionale alla lenta – e, poiché profondamente carsica, facile da tenere celata – involuzione socialdemocratica del Pci. Tutto un sistema di pensiero – grossolanamente attribuibile ad un orientamento “amendoliano”, fortemente segnato da elementi socialdemocratici avanzati – poteva irradiarsi all’interno del Pci, tra la classe operaia e tra le vastissime aree sociali simpatizzanti, innanzitutto attraverso un acritico ribadire un legame di ferro con l’Urss, un legame che “garantendo” a priori la stessa identità comunista del Pci, poteva poi lasciar libero il Partito di praticare sul campo, nel Paese, politiche fondamentalmente inserite nel sistema dominante ed evocanti il formarsi di una natura e di una strategia essenzialmente socialdemocratiche.
Una tendenza all’utilizzo strumentale del “socialismo realizzato”, al fine di corroborare le proprie politiche interne, che sarebbe riapparsa, in modo apparentemente contrario ma fondamentalmente speculare, nel Pci dei primi anni ‘80, nel Partito della “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”. Il passaggio dal legame di ferro con l’Urss – utilizzato come copertura ideologica all’involuzione socialdemocratica – alla “ratifica” della “fine della spinta propulsiva” segue, a ben vedere, il medesimo progetto politico, che poco ha a che fare con un’analisi materialistica e marxista dello stesso “socialismo realizzato”.
Recuperando infatti la lezione della socialdemocrazia tedesca di fine ‘800, che attraverso la “ratifica” della fine della spinta propulsiva della Comune di Parigi aveva aperto il proprio processo di netta involuzione in senso moderato e socialdemocratico “moderno”, il Pci dei primi anni ‘80 utilizza il cavallo di Troia della “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre “al fine – oggettivamente – di accelerare la propria involuzione in senso socialdemocratico e, in fasi successive, “radical” e “liberal”. Bene sarebbe, oggi, che nessun tipo di lettura oggettivamente strumentale sul “socialismo realizzato” – e sull’intera storia del movimento comunista – prevalesse, nel tentativo di segnare di sé la nuova identità delle forze comuniste, del Partito della Rifondazione comunista in Italia. Bene sarebbe che non prevalesse una lettura “liquidazionista” di quelle esperienze, tendente a segnare di sé un partito senza memoria storica né cultura materialistica; come bene sarebbe che non si riesumasse dal vecchio Pci la tendenza fondamentalmente positivistica a coprire una natura ed una politica di segno socialdemocratico con simpatie ideologiche di rinnovato e tardo “filo-sovietismo” di maniera, atteggiamento ricostruibile attraverso liriche, ma vuote, mozioni di affetto verso la Rivoluzione d’ottobre, verso la vittoria sul nazifascismo da parte dell’Urss e le stesse conquiste del “socialismo realizzato”, liriche mozioni d’affetto che ancora una volta potrebbero legarsi a nuove, e ben celate, torsioni socialdemocratiche, tendenti a subordinare l’autonomia politica, culturale e organizzativa comunista ai famigerati rapporti di forza, a quella quinta colonna del potere reale che così spesso s’è dimostrato essere il “realismo politico”, alla vasta egemonia della sinistra moderata. Restano comunque sul corpo della Storia giganteschi segni ineliminabili, la cui strumentalizzazione è scientificamente impossibile, attestanti il fatto che la più grande rivoluzione che i popoli del pianeta abbiano mai concepito e praticato – la Rivoluzione d’ottobre, la Rivoluzione di Lenin, il sommovimento storico che ha ratificato una volta per tutte, con la sua vittoria, il carattere non “naturale” dell’economia capitalistica – sia tuttora viva e presente senza nessun rischio di esaurire la propria forza propulsiva.
I segni sono nella stessa Storia e nel presente: nella vita dell’intero popolo russo oppresso dallo zar e dal feudalismo e portato in pochi e tumultuosi decenni ad essere tra i più grandi ed evoluti della Terra; i segni sono ancora vivi nella storia di immensi popoli di tutto il pianeta liberatisi dal colonialismo e dal tallone di ferro dell’imperialismo sulla scia della Rivoluzione d’ottobre e con l’aiuto concreto delll’Unione Sovietica; i segni – aurei – sono nella vittoria dell’Urss sul nazifascismo, che ha cambiato il volto della stessa storia dell’umanità; sono nelle grandi rivoluzioni -cinese, cubana, vietnamita – che hanno piegato l’imperialismo; sono nella stessa paura che ebbe il capitalismo dei successi sociali del socialismo, paura che costrinse gli stessi paesi dominanti dal capitale a dotarsi di uno “Stato sociale” (il Welfare) volto a contenere l’immenso prestigio che verso i popoli di tutto il mondo andava conquistando il “socialismo realizzato” (e non è certo un caso se il “welfare” concesso ai popoli sotto il dominio capitalistico nella fase alta del socialismo, sia stato oggi – dopo il crollo dell’Urss – “ripreso indietro” e destrutturato).
I segni della grandezza e dell’attualità della Rivoluzione d’ottobre risiedono nello stesso grande ruolo che oggi, di nuovo, ricoprono le forze comuniste e anticapitaliste nel mondo, memori di quella “rottura” rivoluzionaria e segnate dalla concezione del “cambiamento possibile” che è la grande lezione dell’ottobre, di Lenin e del Partito comunista quale agente primario della trasformazione, quale soggetto culturalmente autonomo sia da un divenire storico dettato dal potere capitalistico che dagli angusti orizzonti di volta in volta prestabiliti dalla sinistra moderata.
Gli stessi errori, le mancanze, i limiti, i deficit del “socialismo realizzato” non possono essere assunti – come fanno le forze liberiste, reazionarie, imperialiste ed alcune frange estremiste o “radicali” della stessa sinistra anticapitalista – per cancellare in toto ogni valore di quelle esperienze, ma – sottoposti a severa verifica – debbono entrare a far parte della memoria e del patrimonio dell’odierno movimento comunista e anticapitalista, al semplice ma essenziale fine non di ripeterli, ma di arricchire positivamente la prassi rivoluzionaria.

L’Urss

Si tratta innanzitutto di separare l’analisi dell’Urss dall’analisi di gran parte dei paesi “socialisti” dell’Est, “aree” di uno sviluppo socialista – è ormai tempo di affermarlo con franchezza e coraggio – anche drammaticamente viziato dall’esportazione forzosa e autoritaria del modello staliniano dopo la seconda guerra mondiale (e questa stessa questione, l’esportazione manu militari o attraverso imposizioni “esterne” della rivoluzione senza il consenso del popolo, senza maturazione delle coscienze, è già di per sé una grande lezione, un’esperienza da non ripetere).
È I’Urss – dunque – la sua storia, il terreno privilegiato dell’analisi, dello studio, della ricerca. Chi – rifuggendo giustamente da una lettura del “crollo” che organizzi tutta l’analisi attorno all’estrema esperienza gorbacioviana (che pure porta colpe soggettive da tragedia greca), riesumando come categoria centrale quella del “tradimento” – volesse poi avanzare un’interpretazione della sconfitta attraverso una lettura “globale” ed univoca della storia dell’Urss (“globale” mancanza dello sviluppo e della democrazia socialista) compirebbe, a nostro avviso, un errore fondamentale.
È la periodizzazione, lo studio attento delle differenti fasi dello sviluppo (in primo luogo economico) – infatti – la chiave più giusta per la lettura della storia del paese dei soviet. È la definizione della natura delle diverse fasi che potrà dotarci di strumenti di decodificazione per un bilancio generale del “corso” sovietico.
Se mettiamo infatti a fuoco quattro fasi diverse del corso sovietico (il primo decennio post-rivoluzionario; la fase che va dal 1928 al 1941; la fase che va dal dopoguerra sino alla fine degli anni ‘60, la fase che va dagli anni ‘70 sino al I987), possiamo ragionevolmente giungere a “ratificare” fasi diverse che non inducono ad interpretare “in blocco” tutto il corso sovietico.
Nella prima fase, segnata dalla guerra civile, dal comunismo di guerra e dalla Nep, la produzione industriale e agricola raggiunge a grandi linee i livelli del 1913. La grande fase sovietica sarà quella tra il 1928 ed il 1941, che consentirà all’Urss quell’epico processo di industrializzazione solo attraverso il quale sarà possibile all’Armata Rossa sconfiggere uno dei più forti eserciti della storia, quell’esercito nazista quale prodotto del grande sviluppo capitalistico tedesco. La terza fase – ’45-60 – vede anch’essa non solo una rapida ricostruzione postbellica, ma un’accelerazione dello sviluppo che registra tassi di incremento del reddito nazionale superiori al 10% all’anno sino al ‘55, e del 9,2% nel quinquennio ’56-‘60. La quarta fase – 1970 – 1987 – è quella caratterizzata non solo dal tendenziale venir meno dello sviluppo economico-industriale, ma anche dal cristallizzarsi del fenomeno della stagnazione degli anni ‘80 (fenomeni, se pur di grandi dimensioni – si guardi bene –, non segnati da tanta tragica gravità da rendere inevitabile il crollo sovietico, come ormai da tanta parte si vuol far credere, togliendo ogni responsabilità alla perestrojka gorbacioviana, in verità incapace di mettere su binari nuovi la transizione sovietica).
La messa a fuoco dei quattro periodi può disporci ad un’analisi del corso sovietico che non s’arrenda alla banale assunzione della concezione del “corto circuito” – concezione spesso rozzamente estesa, senza soluzione di continuità, dal 1917 al 1987 – tra “mancanza di democrazia” e “mancato sviluppo”.
Decodificati i dati centrali emergenti dalle “fasi” (e tolto il primo decennio postrivoluzionario in cui per ovvie ragioni il tasso di sviluppo non è giudicabile) rimangono, all’osso, le seguenti questioni: impressionante sviluppo tra il ‘28 e il ‘41; grande ripresa postbellica tra il ’45 ed i primi anni ‘60; fase calante tra il ‘70 e gli anni ‘80.
Quali sono le dinamiche che caratterizzano la seconda e la terza fase? Che cosa interviene a determinare la parabola discendente della quarta ed ultima fase? Per quali meccanismi, e in quale fase, si gettano le basi materiali per l’affermazione di un potere “chiuso”, autoreferenziale, senza più rapporti con la società civile, causa non ultima dello stesso crollo sovietico?
È probabilmente nella risposta a queste domande il “rebus” sovietico da risolvere. A tal fine occorrerebbero davvero quei “forum” nazionali e internazionali di forze comuniste e anticapitaliste che rievocavamo sopra.

Le quattro fasi

Noi, in questa introduzione allo “speciale”, non possiamo accennare che qualche rozzo tentativo di risposta.
Va innanzitutto riaffermato come alla base dei grandi sviluppi della seconda e della terza fase vi sia proprio quel “metodo” tanto inviso – a parole – dai cultori del liberismo: la pianificazione economica, “il piano”, che già von Hayek negli anni ‘30 vedeva assolutamente impossibilitato a sorreggere ogni tipo di produzione razionale, “se appena venga abbandonato il criterio di un prezzo monetario liberamente stabilito”. Il problema è: quale piano e quale pianificazione.
Quello degli anni ‘30, della fase che va dal ‘28 al ‘41 (fase in cui con ogni probabilità risiedono le ragioni strutturali della costituzione del potere autoritario e antidemocratico sovietico), è caratterizzato da un esasperato disegno di crescita estensiva che necessitava di una “mobilitazione generale permanente”, di una gestione severa del potere centrale, di un controllo altrettanto severo sulla forza-lavoro e su di un utilizzo mitico della Rivoluzione al fine di sostenere per tempi lunghi un “lavoro d’assalto” esteso a livello di massa.
In questo contesto generale, nell’esigenza di superare la fase dell’arretratezza feudale ereditata dallo zarismo, nell’obiettivo assoluto della produzione, veniva interiorizzata dalle stesse masse l’esigenza dell’accantonamento della costruzione della democrazia socialista, a favore della costruzione di un potere centrale che senza intoppi “democraticistici” e con polso ferreo guidasse la ricostruzione e lo sviluppo.
Il tipo di produzione – pesante, volta alle materie prime, alle fonti di energia, alle attrezzature di ogni tipo – era una proiezione diretta della stessa natura generale estensiva del piano, che sacrificava la produzione dei beni di consumo di massa così come – su di un altro versante – sacrificava, “per lo sviluppo rivoluzionario”, la democrazia socialista.
La terza fase economica – ‘45–60 – è caratterizzata dalla fine del “lavoro d’assalto”, della “mobilitazione permanente” e dell’esasperazione dello sviluppo estensivo. Si cerca uno “sviluppo economico” di tipo intensivo e dotato di maggior equilibrio, all’interno del quale si autorizza (dai primi anni ‘60 in poi) una maggiore autonomia delle imprese mettendo loro a disposizione una quota maggiore di profitti. L’incentivo al lavoro non è più cercato attraverso la continua sollecitazione della “pulsione” rivoluzionaria, né attraverso il prolungamento del ferreo controllo da parte del potere (che pure non offre segni di sostanziale trasformazione democratica).
Il dibattito che si apre in Urss e nei paesi dell’Est sulla legge del valore nel socialismo, sul calcolo economico e sui rapporti mercantili e monetari, oltre ad introdurre alcuni elementi dinamici a sostegno dei tassi di sviluppo, sollecita anche in alcuni paesi del Comecon chiare derive a destra.
Questa terza fase, segnata (soprattutto nel suo momento finale) dal passaggio dallo sviluppo estensivo degli anni ‘30 – basato sugli irripetibili fenomeni dello stakanovismo e l’emulazione di massa – allo sviluppo intensivo e alla incentivazione materiale, si caratterizza però essenzialmente per una perdita di dinamismo e di efficacia, rispetto al modello produttivo degli anni ‘30. La causa essenziale risiede probabilmente, all’interno di un nuovo quadro ove si tenta di far agire alcuni elementi dell’economia di mercato, in un ancora squilibrato rapporto tra piano e mercato, dove il piano, senza essere più quello totalizzante degli anni ‘30, toglie ancora gran parte del respiro al – peraltro appena accennato – “mercato socialista”.
Tutta la quarta fase, dal ‘70 al 1987, è caratterizzata dal ritorno ad un “piano senza mercato” ma anche senza la pulsione autoritaria e mitica degli anni ‘30; da un allentamento enorme del controllo sulla forza-lavoro (ancora, senza che ciò sbocchi in forme di democrazia socialista, ed anzi in sostituzione ad essa), da una caduta decisiva di investimenti e da un’ insufficiente innovazione della produzione industriale, da uno spostamento massiccio di ricchezza alla produzione bellica (per far fronte all’accresciuta aggressività dell’imperialismo Usa) e da un grande “compromesso sociale” tra lavoratori e potere che “ratifica lo scambio tra una minore produttività da parte dei lavoratori (base del profondo degrado dei servizi e della qualità delle merci) ed una minore pervasività sociale da parte del potere.
In grandissime linee sono le basi della lunga stagnazione brezneviana (che comunque, sino agli anni ‘80 mantiene ancora relativamente alto, anche se non sufficiente, il tasso di sviluppo, dato che smentisce – ancora una volta – l’inevitabilità del crollo sovietico nella fase gorbacioviana).

Sviluppo economico e democrazia socialista

La sintetica analisi delle fasi sovietiche porta ad una prima ed essenziale riflessione: è nella prima fase, quella staliniana degli anni ‘30, che si registrano i più straordinari successi sul piano economico. Ma quei successi si basano su fattori (emulazione di massa, mobilitazione generale, “lavoro d’assalto”, assoluzione aprioristica del potere per ragioni rivoluzionarie condivise a livello di massa) irripetibili e non estensibili nel tempo. Inoltre il prezzo pagato a quegli stessi successi è quello della rinuncia alla democrazia socialista, che sulla base del tipo di sviluppo degli anni ‘30 non si sarebbe più potuta costituire secondo il modello leniniano dei soviet. Nella seconda fase, poi, il timidissimo accenno alla costruzione di un rapporto tra piano e mercato, all’introduzione di alcuni elementi minimi di “dinamizzazione” spuria dell’economia attraverso il “calcolo economico” ben presto abortisce, sia – con ogni probabilità – per quella residua forza d’inerzia ancora proveniente dal modello degli anni ‘30, che in qualche modo ancora sospingeva l’intero meccanismo produttivo e sconsigliava, nell’immediato, grandi e “avventurose” trasformazioni, sia per “l’irricevibilità” oggettiva di un sistema generale che avrebbe non senza apertura di grandi contraddizioni interne introdotto in sé gli elementi del “calcolo economico”. E oltre ciò per la fortissima resistenza ideologica ad ogni concezione di “mercato socialista” (a cui però non corrispondeva un’altrettanto forte pulsione alla ricerca teorica e pratica di un modello alternativo a quello “di comando” degli anni ‘30).
Tutto questo rimanda, in ultima analisi, alla questione centrale e non risolta della transizione socialista.
Ogni illusione basata su crolli improvvisi e generali del capitalismo è stata clamorosamente smentita dalla storia.
L’utopia del “comunismo subito” – all’interno dei reali rapporti di forza tra capitale e lavoro a livello mondiale – è rimasta, e ancor più rimane, utopia. L’esigenza della messa a fuoco di anche lunghi, e lunghissimi, processi di transizione socialista, è oggi più che mai centrale.
Come centrale, d’altra parte (nella consapevolezza che per un lungo tempo il movimento operaio mondiale non potrà più disporre di un “blocco socialista” all’altezza dell’immensa spinta espansionista che caratterizza l’odierno imperialismo) appare la questione della costruzione, se non di un “blocco socialista”, di un “contrappeso” nuovo ed efficace alla spietata, lucida e gigantesca “spoliazione” imperialista insita nei processi di mondializzazione dell’economia.
Da questo punto di vista di grandissimo interesse è l’analisi e la “proposta” di Samir Amin, uno dei pochi, oggi, a riflettere sull’esigenza della costituzione del “contrappeso” antimperialista, una “proposta”, quella di Samir Amin, che vede la costituzione del “contrappeso” attraverso alleanze economiche, politiche e militari di grandi paesi “affini” ( ad esempio Russia, Cina, India), alleanze in grado di liberare “le aree” continentali costituitesi dal giogo economico imperialista e promuovere importanti processi economici e sociali interni trasformatori.

Piano, “mercato socialista”, transizione

Nei nuovi rapporti di forza internazionali, nella scia storica della sconfitta di fase, nella consapevolezza dell’arretratezza anche teorica del progetto comunista e rivoluzionario, per l’odierno movimento comunista internazionale, per gli stessi odierni paesi che si richiamano al socialismo è – dunque – la questione della trasformazione processuale, della transizione, la questione centrale.
Da questo punto di vista estremamente necessaria appare la riassunzione delle due lezioni fondamentali provenienti dalla seconda e dalla terza fase (così come le abbiamo descritte) del corso sovietico: da una parte rinunciare a priori – poiché storicamente improponibili, perché inestensibili nel tempo e perché basi materiali di regimi autoritari e antidemocratici – a modelli produttivi basati sulla mobilitazione generale e sul “lavoro d’assalto”, di tipo solamente estensivo e pregiudizialmente contrari a produzioni di merci volte al soddisfacimento delle esigenze popolari (e contrari dunque ad una forma non idealistica dell’organizzazione del consenso di massa). D’altra parte occorre rinunciare a modelli produttivi – per la transizione – in cui si finge solamente l’introduzione di elementi . di “calcolo economico”; in cui si evita il tentativo, per la paura della dissoluzione del sistema e per la paura di ricollocare il Partito comunista al centro dello scontro e del progetto, della dinamizzazione dell’economia attraverso la costituzione di forme di “mercato socialista”. Un’altra riproposizione che fingesse la ricerca di un “mercato socialista” – in questo passaggio storico – subordinandola alle regole d’acciaio di una nuova “economia di comando” (che è, ovviamente, cosa ben diversa dal piano), immergerebbe il modello produttivo in una nebbia organizzativa letale.
D’altra parte è stata proprio la rinuncia ad una nuova transizione che ha portato Gorbaciov alla scelta della via del “mercato totale”, con la conseguenza della dissoluzione del socialismo sovietico. 0 si trovano – nella fase storica data, nella quale le esperienze socialiste sono condannate a lunghi processi di transizione – forme alte di equilibrio tra piano e “mercato socialista”, o i modelli socialisti rimasti sul campo rischiano di votarsi all’asfissia economica, ad un’autarchia di tipo “albanese”, alla drammatica rinuncia alla competizione con l’economia capitalistica. A meno che non si creda di poter perseguire – qui ed ora – la strada di un “comunismo superiore”, fuori del tempo attuale e dei rapporti di forza reali (una fuga dalla realtà di tipo “neokruscioviano”). Il superamento totale del mercato; l’abolizione, all’interno delle merci e dei servizi, del valore di scambio; il comunismo stesso come estinzione delle classi e dello stato, non appaiono essere all’ordine del giorno nella storia, e appaiono essere obiettivi riproponibili solo attraverso lunghi cicli storici di lotta di classe a livello mondiale, solo attraverso i quali potrà prendere corpo l’obiettivo del cambiamento radicale dei rapporti di forza a livello planetario tra capitale e lavoro.
Nuovi cicli della lotta di classe internazionale per sostenere i quali decisiva appare la costruzione di corpose “presenze” antimperialiste (alla Samir Amin) e socialiste non altrimenti realizzabili che attraverso la focalizzazione e la costruzione concreta degli stessi processi di transizione socialista, processi che le forze comuniste al potere dovranno consapevolmente sostenere in contesti segnati da mercati “socialisti” – definibili come fasi dinamiche della transizione – entro i quali la lotta di classe innescata e dialetticamente guidata dai comunisti, sia concepita come motore stesso della transizione socialista.
Da questo punto di vista, sia sul piano politico che della prassi (contenere ed ergersi contro lo strapotere imperialista, contribuire al disegno di costruzione di aree “affini” alla Samir Amin), che dal punto di vista teorico (accrescere il patrimonio di esperienze “sul campo” del socialismo), di grande interesse appare il nuovo sviluppo cinese, che cercando un’altra strada da quella della resa alle ragioni del capitale imboccata da Gorbaciov, sembra per ora ( e senza che il progetto possa definirsi l’unico realizzabile in questa fase a livello planetario) tesaurizzare al meglio le stesse, grandi, lezioni provenienti dal “socialismo realizzato”, dai suoi sviluppi e dal suo crollo.
E anche lì, in Cina, grandi lezioni iniziano ad apparire e riapparire per il movimento comunista nel suo complesso: nella fase di gestione del “mercato socialista” e della fase primaria – e per certi versi “primitiva” – di una nuova transizione, centrale più che mai ritorna il ruolo del Partito comunista (in questo caso del Partito comunista cinese) chiamato a sollecitare forze “neo-capitalistiche” in seno alla stessa società socialista e nei contempo a rafforzare il quadro d’insieme socialista; chiamato ad evocare spinte produttive di natura liberista sul piano economico e nel contempo a rafforzare l’egemonia politica e culturale socialista, accettando il pericolo e la scommessa di una lotta – anche ideologica – con le stesse forze neoborghesi evocate; chiamato, anche, ad esercitare un ruolo di controllo e contenimento dell’inevitabile spinta politica egemonica delle nuove forze borghesi della Nep cinese, e nel contempo a costruire una necessaria – anche ai fini dello stesso sviluppo economico – democrazia socialista (senza la quale l’intero edificio del “mercato socialista” guidato dal Partito comunista assumerebbe aspetti fortemente contraddittori sul piano stesso dell’efficienza socialista, e aspetti grotteschi e controrivoluzionari sul piano della qualità della vita della classe operaia e del popolo cinese).
Un ruolo, dunque, quello del Partito Comunista cinese, di grandissima portata, come di universale portata sarebbe il ruolo da svolgere come “contrappeso” all’egemonia imperialista, di una Cina in grado di garantire il proprio impressionante sviluppo e competere con l’imperialismo sullo stesso terreno materiale dell’economia, salvaguardando al proprio interno le basi per la prospettiva socialista e costruendo già nel presente un nuovo tessuto democratico socialista. Senza, naturalmente, che l’auspicabile ruolo di “contrappeso” antimperialista del Partito comunista cinese, e la stessa, inedita, tumultuosa e contraddittoria transizione esperita dalla Cina, debbano trasformarsi nei nuovi fari, nei nuovi modelli per l’intero movimento comunista e anticapitalista mondiale. Poiché se qualcuno così credesse, nulla avrebbe compreso della grande lezione che, tra le altre, è venuta dall’esperienza e dal crollo del “socialismo realizzato”: l’inesportabilità dei modelli socialisti e dei processi rivoluzionari, l’impossibilità della costruzione di un socialismo universale in una fase storica che vede un mondo – al di là della stessa mitizzazione della mondializzazione capitalistica – diviso ancora in cento mondi diversi.