Sul Pci e la sua storia: non solo “amarcord”

L’analisi della fase politica, sociale ed economica è legata nel dibattito congressuale di Rifondazione Comunista anche all’esigenza di tracciare un bilancio della storia del Pci lungo tutto il secolo del 900. La lettura del presente sembra non poter prescindere da una riflessione sul passato. Quale che siano le linee portanti della politica nello scenario attuale, esse devono stare in un determinato rapporto (continuità/discontinuità) con i concetti strategici della presenza storica dei comunisti in Italia.
La forma-partito, il tema dell’organizzazione, il rapporto con la società e i movimenti: sono questi i momenti della storia del Pci sui quali abbiamo tracciato un ragionamento con Alessandro Curzi, direttore del quotidiano Liberazione.

La storia dei comunisti italiani è una delle questioni in gioco nel dibattito congressuale del partito. Si potrebbe obiettare – in fondo – che si tratti solo di un problema di “album di famiglia”, di nostalgie personali ….

Io credo che non sia soltanto un problema di memoria, di amarcord, che appartiene solo a chi di noi ha tanti anni e ricordi personali. A mio parere, la riflessione sulla storia del Pci è di grandissima attualità per la sinistra di oggi, che per certi aspetti è chiamata – naturalmente qui bisogna stare attenti, si rischia di essere tacciati di conservatorismo – ad ogni modo a esplorare situazioni del tutto nuove. Così come accadde per i comunisti nel 1921. Il ’21 è stato un momento di necessità nel nostro Paese, oltre che nel mondo intero: il disfacimento dello Stato liberldemocratico, il fallimento dell’esperienza socialdemocratica italiana – che aveva avuto il suo colpo decisivo nella posizione presa di fronte alla prima guerra mondiale, riassunta nella formula “né aderire né sabotare”, che per certi aspetti rendeva ancora più vuota e drammatica la sinistra. Non c’era lo scontro chiaro e netto che c’era negli altri paesi dove i dirigenti socialdemocratici avevano aderito alla guerra ed erano visibilmente una forza che, agli occhi dell’altra parte della sinistra, aveva tradito il movimento operaio. Mentre in questi paesi la contrapposizione era molto netta, in Italia la situazione si presentava più complessa. Il Partito socialista aveva mantenuto al suo interno tutte le posizioni e le varie anime, ricorrendo alla formula del “né aderire né sabotare”.
Quindi i comunisti si trovano di fronte al compito di costruire una nuova forza politica che sapesse rispondere e reagire alla crisi del tempo, e colmare il vuoto di pensiero, di analisi, di riflessione di quella fase. Con la guerra il capitalismo aveva mostrato il volto nuovo dell’imperialismo, si era infranto il mito del progresso ininterrotto ed era venuto alla luce il rapporto tra economia del profitto, conflitto tra Stati e militarismo. La sinistra doveva trovare una nuova collocazione. A precipitare la crisi interviene poi l’attacco fascista. Il Pci nasce un anno prima della marcia su Roma, in piena disgregazione delle strutture dello Stato liberale e nell’imperversare dello squadrismo. Non è il caso ora di ripercorrere un tema che è stato ampiamente approfondito e studiato, il passaggio dal primo gruppo dirigente di Bordiga al gruppo torinese dell’Ordine Nuovo. La fase iniziale potrebbe essere letta come una reazione di autodifesa all’attacco fascita, una chiusura. Ma nell’elaborazione del gruppo torinese c’era una sinistra che si interrogava da posizioni non massimaliste sul compito di come costruire un nuovo Stato. Anzi, quell’elaborazione presenta ancora oggi molti tratti di interesse, di attualità, che andrebbero nuovamente indagati. Mi riferisco al passaggio fondamentale delle Tesi del Congresso di Lione del ’26. Qui nasce la storia vera del Pci, con il tentativo di elaborare un pensiero, una politica all’altezza dei problemi, il principale dei quali è il fallimento della rivoluzione in Occidente e la nascita, al suo posto, del fascismo in un paese dalle caratteristiche nazionali come l’Italia – un paese debole, con una classe dirigente incapace sia di darsi un’anima saldamente conservatrice, sia un indirizzo progressista vero.
Oggi, lo dico con una venatura autocritica, non abbiamo le forze per riprendere e approfondire l’elaborazione gramsciana. Non intendo solo un atto di doverosa memoria, ma l’esigenza di approfondire il pensiero ordinovista per rintracciare categorie e strumenti utili a muoverci nella fase attuale.

Non pensi che le categorie gramsciane potrebbero fornire la chiave per interpretare e leggere l’egemonia dell’attuale governo di destra?
Oggi ci troviamo di fronte a un vero e proprio blocco sociale che, se da una parte esprime gli interessi capitalistici e li realizza con politiche liberiste, dall’altra produce consenso agendo sulla mentalità, azzerando la memoria antifascista, procedendo a operazioni revisioniste e annullando le differenze.
C’è stato, si potrebbe dire, un cedimento culturale che ha permesso l’egemonia della destra.

Il governo Berlusconi, il successo “berlusconiano” va molto al di là. Giustamente, pochi giorni fa, proprio sul Liberazione, il compagno Sabbattini ha detto una cosa molto interessante. Non ci troviamo di fronte a una normale alternanza in un paese democratico in cui centrodestra, centrosinistra e sinistra si succedono regolarmente. Sarebbe un errore ricorrere a questo schema di lettura. Qui abbiamo invece uno sfondamento culturale, la crisi dei valori fondanti della Repubblica nata dalla Resistenza e la regressione delle condizioni di vita di interi strati sociali. L’incontro di questi giorni tra Blair e Berlusconi non è solo un incontro diplomatico. Il “blairismo” e il “berlusconismo” trovano un punto di contatto, esattamente come accadeva negli anni Venti: di fronte alla questione del lavoro non ci sono differenze tra socialdemocrazia e destra, la politica economica non cambia.
Il laburismo inglese ha fatto il grande salto ma non riesce a trovare interlocutori in questa nuova collocazione – né nella Francia, né nella Germania –, se non appunto in un paese come l’Italia governato da Berlusconi.

Un altro elemento centrale della storia del Pci è la teoria e la pratica dell’organizzazione, della forma-partito, sulla quale oggi esiste un dibattito non marginale. Questa tradizione, in Italia, nasce con Togliatti, dopo la fine del fascismo e la lotta di Resistenza. Fino ad allora i comunisti avevano agito in una condizione di clandestinità. Ed è proprio sul partito di Togliatti che più automaticamente scatta il giudizio di una forza politica più votata alle istituzioni, che ha imbrigliato le spinte sociali dal basso in una dialettica parlamentare, nella mediazione. Eppure quel partito era stato in grado anche di promuovere mobilitazioni, lotte sociali, scioperi operai, occupazione delle terre nel Meridione…

Questa è un certa critica “da sinistra” complementare alla critica che le forze di destra rivolgono al Pci di essere stato un partito d’apparato. Questa tesi ha provocato dei cedimenti anche a sinistra, ottenendo alcune concessioni. È un giudizio, tuttavia, assolutamente non vero. Il Pci è stato una straordinaria costruzione che ha superato lo schema leninista. È ridicolo oggi affermare la necessità del superamento della forma-partito leninista, che è qualcosa di diverso da quella che il Pci ha storicamente realizzato.
Quella leninista è un partito ristretto, con quadri e militanti accuratamente formati per agire in determinate circostanze, il Pci, invece, nella pratica come nell’elaborazione, era un modello orientato al partito di massa che competeva con la tradizione socialdemocratica sul terreno dell’organizzazione e del radicamento popolare, senza venire meno, al tempo stesso, alle radici e alla propria identità di sinistra. Un partito non socialdemocratico, e però non più leninista nella forma e nell’organizzazione. È stato un tentativo straordinario; la rapidità con cui la società e la politica italiana sono mutate negli ultimi decenni, non ha reso possibile una riflessione approfondita su quella costruzione – e in questo intravedo anche una responsabilità degli intellettuali. Manca una vera storia del Pci, una storia che non sia limitata ai dettagli o alla ricerca dei documenti degli archivi, ma che riguardi il significato di quella elaborazione! È ancora in gran parte da compiere una ricerca sull’originalità di questo partito che non fu, come da più parati si è sostenuto, una copiatura o un semplice anello di trasmissione delle direttive della terza internazionale e di Stalin. A mio parere, il progetto del “partito nuovo” di Togliatti è una elaborazione che va oltre il leninismo. Su questo consiglierei di leggere i primi editoriali di Rinascita del 1944 sulla “Demo-
crazia progressiva “, ad esempio.
La “svolta di Salerno” e la costruzione del partito nuovo sono la traduzione nella pratica delle riflessioni di Gramsci. Pur tra incertezze e, se si vuole, tra doppiezze e preoccupazioni nel mantenere il legame con l’URSS, si costruisce ad ogni modo un nuovo soggetto politico, comunista e di massa, un grande partito del lavoro che alla base non ha la socialdemocrazia ma l’elaborazione gramsciana. Quando Togliatti lancia la parola d’ordine “una cellula di partito per ogni campanile” ha in mente un partito diverso, non più di quadri, d’avanguardia, ma radicato e presente dappertutto.

Oltre a questa struttura capillare e diffusa, a questa anima popolare, quel Partito costruisce anche un rapporto con gli intellettuali…

Il rapporto con gli intellettuali è stato qualcosa di diverso da certe pratiche di utilitarismo oggi diffuse.
È qualcosa di molto serio, penso ad esempio alla discussione e alla partecipazione di tutti gli intellettuali in occasione della crisi che si aprì tra Vittorini e Togliatti. Il modo di rapportarsi del partito con gli intellettuali è diverso da quanto accadeva in Unione Sovietica – e non solo perché in Italia il Pci non fosse al potere. In Francia, ad esempio, dove pure i comunisti non erano al potere, quel rapporto era regolato dalla pratica dell’espulsione, al punto che fra i comunisti francesi c’era chi prendeva a modello il partito italiano come istanza di rinnovamento. Qui c’è persino un motivo di vanto patriottico! È una storia tutta da scoprire, mi dispiace che per motivi di battaglia politica, immediata, su questi temi sia calato il silenzio o vengano eccessivamente semplificati. Nella valutazione di questa storia si può arrivare anche a conclusioni. Diverse, ma l’importante è evitare le semplificazioni e, con esse, gli errori politici. Dobbiamo analizzare e distinguere ciò che possiamo mantenere di quel patrimonio.

Un elemento di riflessione attuale potrebbe essere il rapporto nel Pci tra costruzione del partito – nei modi che hai prima ricordato – e capacità di collegarsi ai movimenti di massa (occupazione delle terre, lotte operaie, pacifismo).

Questo del rapporto tra costruzione del partito e presenza nei movimenti è un problema vitale anche per Rifondazione. Quando si afferma la necessità di stare nel movimento, si afferma qualcosa che va ben oltre la concezione di un partito piccolo e chiuso. Qui non vedo una contraddizione o l’annullamento della storia dei comunisti. Anzi! Cos’era questo grande movimento di massa che il Pci aveva cercato di favorire? I partigiani della pace, l’occupazione nelle terre… Ricordo un servizio che realizzai per L’Unità su un contadino ucciso in uno scontro durante le lotte in Puglia. Era accaduto in un piccolo paese in provincia di Brindisi, c’era la veglia funebre, il sacerdote, pensai che si trattasse di un comunista cattolico, in realtà aveva la tessera della DC che feci poi pubblicare su L’Unità . Pur essendo democristiano aveva aderito a questo grande movimento per la terra diventandone uno dei leader. Lo stesso fenomeno dei partigiani della pace ha delle caratteristiche per cui può essere paragonato al movimento attuale. Quello era un movimento composito, al cui interno si costituirono i giovani partigiani qualcosa di molto simile ai giovani attuali che contestano la globalizzazione capitalistica.
L’altro grande momento di mobilitazione fu il 1960, che segnò un’intensa partecipazione giovanile contro il governo Tambroni sostenuto da un’alleanza con il MSI. Fu un movimento antifascista che nacque all’esterno del Pci e su posizioni più avanzate, con al centro una generazione di giovani che riscoprivano il gusto della lotta e della partecipazione.
C’era un forte elemento di spontaneità – non dissimile da quello attuale – in questi momenti di mobilitazione come ad esempio nel movimento delle “magliette a strisce”. Anche nel ’68, per quanto il partito sia arrivato con un certo ritardo nel comprendere il movimento, non c’è da parte del Pci un atteggiamento di chiusura, come avviene invece negli apparati.
L’incontro tra Longo e i leader del movimento è una questione sulla quale vale la pena di riflettere. Oggi non siamo ancora arrivati a un ragionamento tra partito e gruppi spontanei.
È nel ’77 invece che si produce una separazione tra avanguardie giovanili e classe operaia, mentre nel ’60 e nel ’68 si produssero questi movimenti spontanei, reali, espressioni di esigenze profonde della società.
Il ’68 italiano ha un tratto originale, la saldatura tra contestazione studentesca e lotte operaie; nel ’69 ci fu un avanzamento generale della società sull’onda delle conquiste dei lavoratori e del sindacato di cui ancora oggi si vedono gli effetti. Anche i giornalisti conquistarono i propri diritti in quegli anni, con la nascita del movimento “Giornalisti Democratici”.
Anche in questo caso non si trattava assolutamente dell’esecuzione delle direttive impartite dall’alto del Pci; anzi, quel movimento nasceva inizialmente in contrasto, rendeva instabile la situazione all’interno de L’Unità, di Paese Sera. Poi divenne talmente impetuoso che i dirigenti del Pci compresero che era necessario starci dentro. Per un lunghissimo periodo vi è stata addirittura una contrapposizione.
Ricordo uno scontro con Pajetta, che lo reputava un movimento di intellettuali borghesi.
Cambiò idea quando riuscimmo a battere Piccoli, segretario della DC dell’epoca, sulla candidatura a presidente della Federazione della stampa.
Il Pci restò allibito, non si aspettava questa forza da parte di un movimento di intellettuali come quello dei “Giornalisti Democratici”. Oltretutto da lì uscirono persone che finirono per entrare nel Pci: Giuliano Zincone, Bernardo Valli, Giorgio Bocca (che trovò allora un punto di contatto con il Pci). Insomma, un’altra prova che il Pci non fu un partito chiuso, impegnato solo a eseguire le direttive staliniane. Non si capirebbe altrimenti come quel partito sia arrivato a superare la quota del trenta per cento.