È apparsa recentemente (nella rivista Soviet, 3 aprile 1972) la prima traduzione italiana di un articolo di Karl Korsch su La filosofia di Lenin (articolo del 1938, n.d.r.). Si tratta di una recensione-discussione del libro di Anton Pannekoek, Lenin als Philosoph (…). Come è noto, Pannekoek era stato, insieme a Herman Gorter e Henriette Roland-Holst, uno dei più battaglieri e intelligenti “ultrasinistri” olandesi.
Soprattutto (anche se non esclusivamente) in polemica con loro Lenin aveva scritto L’estremismo malattia infantile del comunismo (…). I motivi immediati del dissenso erano stati il rifiuto di agire politicamente all’interno dei sindacati e l’astensionismo parlamentare. Ma al fondo della controversia c’era un interrogativo ben più importante e grave: la via bolscevica alla rivoluzione aveva una sua validità anche per i paesi dell’Occidente europeo, o era invece soltanto una via russa, adeguata a un paese semi-asiatico, di debole sviluppo industriale? Esisteva anche in Occidente, sia pure in termini notevolmente diversi (e lo studio di queste diversità e analogie occupò gran parte del pensiero di Gramsci), un problema di politica di alleanze, oppure la classe operaia occidentale aveva ormai di fronte a sé un avversario assolutamente compatto e non disgregabile? Pannekoek e Gorter erano per la seconda alternativa. Ne risultava una prospettiva politica, insieme, esaltante e disperata: esaltante perché la rivoluzione sarebbe stata compiuta dalla classe operaia per attuare il socialismo, senza fasi democratiche intermedie e senza deleghe che le masse avrebbero dovuto lasciare ai capi; disperata perché negli ultrasinistri c’era un’acuta e, in fondo, pessimistica consapevolezza non solo dell’isolamento della classe operaia (“la classe operaia è sola”: questa frase ricorre più volte nella replica di Gorter all’Estremismo di Lenin), ma della sua socialdemocratizzazione, contro la quale essi non proponevano che un’opera di indottrinamento e di denuncia dall’esterno.
A venti anni di distanza da quei fatti, la critica di Pannekoek a Lenin filosofo (cioè a Materialismo ed empiriocriticismo, pubblicato nel 1909 ma tradotto e diffuso in Occidente solo nel ’27) ricalca fedelmente la critica che egli aveva mosso a Lenin stratega rivoluzionario.
Materialismo ed empiriocriticismo non è, secondo Pannekoek, un libro di filosofia marxista, ma di filosofia borghese-radicale, proprio come la rivoluzione bolscevica non era stata che una rivoluzione “giacobina”. Il proletariato occidentale non aveva sostanzialmente nulla da imparare né dalla teoria né dalla pratica leninista. Nello stalinismo, nelle vicende della Terza Internazionale dopo Lenin, Pannekoek non vedeva una degenerazione, ma una coerente prosecuzione del leninismo interpretato come radicalismo borghese.
Korsch proveniva da esperienze politiche analoghe a quelle di Pannekoek. Era anche lui uno dei grandi sconfitti del “marxismo occidentale” rivoluzionario. Del proprio antileninismo egli aveva preso coscienza con qualche anno di ritardo rispetto a Pannekoek e Gorter; ma, una volta presane coscienza, era diventato ancor più aspramente antileninista (…). L’articolo del 1938 ci mostra perciò un Korsch che, pur consentendo fondamentalmente col libro di Pannekoek, lo trova ancora troppo poco critico nei riguardi di Lenin filosofo (…).
L’anno in cui l’articolo fu scritto è il medesimo in cui uscì l’edizione inglese del Karl Marx, l’opera della maturità di Korsch (…). Tra gli studiosi italiani di Korsch, Giuseppe Bedeschi ha particolarmente battuto l’accento sul distacco che separerebbe il giovanile Marxismo e filosofia, ancora fortemente imbevuto di attivismo idealistico e di avversione per le scienze della natura (fino a far gravare perfino sul Capitale un’ombra di incipiente involuzione “scientista” e socialdemocratica!) dal Karl Marx , nel quale l’antimaterialismo sarebbe superato (…). Giuseppe Vacca ha invece sostenuto la sostanziale continuità del pensiero di Korsch, dandone però un giudizio globalmente positivo (…). Ora, l’articolo su La filosofia di Lenin, col suo antimaterialismo esasperato (non solo antileninismo), ci riporta bruscamente, nonostante la data, al Korsch di Marxismo e filosofia o, più ancora, dell’Antikautski (1919) e dell’Anticritica (1930) che egli premise alla seconda edizione della sua opera giovanile.
Direi, quindi, che il problema della continuità o meno del pensiero di Korsch vada impostato in maniera diversa sia dalla tesi di Vacca, sia da Bedeschi. C’è un Korsch più discutibile, anzi, a mio parere, più francamente inaccettabile sul piano teorico, e tuttavia più vivo e autentico, che rimane fortemente “datato”, cioè legato a quella fase di radicalismo rivoluzionario (di matrice luxemburghiana, ma con un’esasperazione di motivi idealistici e volontaristici che in Rosa Luxemburg non si trovano, almeno in quella forma) che aveva consumato la propria esperienza nella Germania del dopoguerra ed era stata poi stroncata dal fallimento della rivoluzione in Occidente e dal dogmatismo staliniano assunto a ideologia ufficiale della Terza Internazionale. E c’è un Korsch solo in apparenza più “maturo”, ma in realtà più incolore, rappresentato dal Karl Mar. L’articolo del 1938 basterebbe a dimostrare che tra i due Korsch non c’è uno sviluppo cronologico (o almeno non questo soltanto), ma piuttosto una differenza di “genere letterario” e di pubblico al quale erano destinati i diversi scritti (…). Appartiene certamente a Korsch (…) la tesi, oggi nuovamente di moda, secondo cui non solo lo stalinismo sarebbe lo sviluppo obbligato del leninismo, ma il leninismo stesso a sua volta avrebbe radici e sostanza tipicamente kautskiane, e dietro la falsificazione del marxismo da parte di Kautscki ci sarebbero già grossi fraintendimenti imputabili a Engels. L’unico punto sul quale Korsch sembra aver avuto un effettivo ripensamento è l’estensione di questo processo retroattivo fino al Marx postquarantottesco. Ma la contrapposizione fondamentale che Korsch credette sempre di scorgere nel marxismo del Novecento, e sulla quale tornò sempre a ribattere, fu questa: da un lato, concordi anche senza averne consapevolezza, socialdemocrazia e leninismo, fino all’estrema, ma coerente, degenerazione staliniana; dall’altro un marxismo rivoluzionario e antidogmatico che aveva avuto la sua espressione teorica nelle opere di Korsch stesso e in Storia e coscienza di classe di Luhacs, e che bolscevichi post-leniniani e socialdemocratici erano stati concordi nel perseguitare.
È una contrapposizione del tutto spiegabile storicamente, se la si riconduce alla tragica sorte del marxismo occidentale rivoluzionario, che effettivamente ebbe a subire nello stesso tempo le scomuniche della socialdemocrazia e di un cosiddetto “leninismo” che, all’indomani stesso della morte di Lenin, si avviava rapidamente alla dogmatizzazione e alla subordinazione della strategia comunista mondiale agli interessi dello Stato russo. E tuttavia è una contrapposizione oggettivamente falsa, che non rende minimamente giustizia né a Lenin politico, né a Lenin filosofo (…). A coloro che accusano Lenin di ricadere nel materialismo volgare, di non mettere abbastanza in rilievo il “lato attivo” nel processo della conoscenza ecc., si è risposto già da più parti facendo notare come Lenin stesso dichiari apertamente questa voluta unilateralità del suo libro. Mentre Marx ed Engels avevano dovuto insistere soprattutto su ciò che distingueva il loro materialismo dal materialismo volgare, apolitico o reazionario, abbastanza largamente diffuso nella cultura borghese del loro tempo, la situazione era profondamente mutata ai primi del Novecento. Era ormai in pieno sviluppo un movimento neo-idealistico, largamente differenziato al proprio interno, ma tuttavia concorde nella pregiudiziale antimaterialistica; ed era anche in atto un tentativo di interpretazione idealistica del marxismo, che puntava su una lettura tendenziosa delle Tesi su Feuerbach (un testo altamente geniale e suggestivo, ma non privo di ambiguità, specialmente se avulso dall’ancora ignota Ideologia Tedesca per un verso, da tutta la successiva evoluzione del pensiero di Marx e di Engels per un altro) e presentava la filosofia di Marx come specie di attivismo volontaristico. Di qui la necessità, secondo Lenin, di insistere soprattutto sul materialismo: anche su quel tanto di materialismo che è innegabilmente comune al marxismo e al materialismo borghese.
Questa difesa dell’”unilateralità” del libro di Lenin è giusta. Rischia, però, di essere intesa in modo ancora troppo riduttivo. Quando per esempio Luciano Gruppi dice che “Materialismo ed empiriocriticismo può essere giustamente apprezzato solo se lo si colloca nel momento storico e di lotta politica in cui e per cui esso fu concepito”, e quando sostiene che Lenin, parlando di verità assoluta. “ha ipostatizzato platonicamente il concetto di verità ed è ricaduto nella metafisica”, concede di gran lunga troppo agli antileninisti (o a quei “leninisti” che sostengono che il vero Lenin è solo nella sua azione politica, la quale sarebbe felicemente immune dallo scolasticismo che aduggerebbe i suoi scritti filosofici). Certo, Materialismo ed empiriocriticismo risponde anche ad un’esigenza immediata di lotta interna al movimento operaio russo (…); ma il libro ha ancora e soprattutto un obiettivo polemico che ancora oggi è tutt’altro che superato, perché ancora oggi ci troviamo in pieno fiorire di connubi marxistico-neopositivisti, marxistico-pragmatisti, marxistico-strutturalisti, e ancor oggi il comune denominatore di tutti questi pasticci filosofici è l’antimaterialismo. Il “momento storico” che giustifica quel tanto di unilateralità che si può riscontrare nell’opera di Lenin è dunque un momento di lungo periodo, che ha già occupato quasi l’intero secolo ventesimo e non accenna ancora ad esaurirsi (…).
(a cura di Fosco Giannini)