Sui comunisti e la loro storia

Gli avvenimenti che, in gran parte del mondo, hanno accompagnato la crisi e poi, nell’arco dell’ultimo quindicennio, il declino di grandi partiti comunisti e di Stati socialisti hanno scosso dalle fondamenta l’idea di sé che i comunisti erano venuti consolidando nel corso di un secolo e mezzo di storia. Anche per questo dirsi comunisti oggi impone di ripensare dalle radici la propria identità culturale e politica.
Il rapporto con il proprio passato è infatti un aspetto cruciale dell’identità, che ne è in qualche modo determinata. Cruciale questo rapporto è, in particolare, nei momenti critici, quando l’identità è minacciata da eventi che ne mettono a repentaglio la saldezza, o è sfidata dal mutamento dei contesti nei quali si è venuta sviluppando.
Il rapporto con la nostra storia ci occupa e travaglia. Non vi è dunque da stupirsi né da dolersi che anche tra le file del nostro partito questo rapporto sia oggetto di un dibattito serrato e a tratti, inevitabilmente, aspro.
Non vi è da dolersene e nemmeno da averne timore. Questa discussione non può che farci crescere, purché sia condotta, da parte di chiunque vi partecipi, con lealtà e nel rispetto delle diverse posizioni. Non si tratta di rinunciare alle proprie idee, che nell’interesse stesso della discussione vanno, al contrario, espresse nella forma più netta e chiara. Né si tratta di pretendere da altri analoghe rinunce. Ciò che occorre è – questo sì – non deformare le altrui argomentazioni e sforzarsi, possibilmente, di coglierne gli aspetti più condivisibili.

Nel breve spazio di un articolo non è possibile riassumere nemmeno per sommi capi il problema del rapporto che i comunisti – singoli militanti e organizzazioni politiche – possono oggi intrattenere (o costruire) con la storia del movimento operaio. Per la sua complessità, ampiezza e drammaticità, questa storia impone attenzione e chiede un serio lavoro di ripensamento. Le domande che pone (a cominciare da quelle connesse alle cause della sconfitta storica del “socialismo reale” e alle pagine più oscure che ne hanno macchiato la vicenda) non possono essere liquidate in poche battute.
Non c’è bisogno di operazioni furbesche, perché i primi interlocutori in questa riflessione non sono i nostri avversari, siamo noi stessi. A questo lavoro dobbiamo accingerci con la serena coscienza che definire una relazione più consapevole con la storia del movimento operaio e comunista è condizione imprescindibile per rinsaldare il senso delle nostre scelte e per ritrovare quella via verso una società migliore che a tratti ci è parso, in questi anni, di avere smarrito.
Ma appunto: da dove cominciare in questo lavoro? Vediamo di fissare qui, intanto, poche coordinate metodologiche che possano servire da elementare criterio di riferimento.

La prima idea è che la storia va riconsiderata nel suo intero, perché costituisce una totalità. Certo, nello studiarla si possono privilegiare ambiti determinati, epoche, aree geografiche, problematiche particolari. Delimitare in partenza il campo di ricerca è inevitabile. Quel che non si può fare – se si intende capire, cioè fare una operazione di verità e non di propaganda – è separare astrattamente il buono dal cattivo per raccontarsi una storia in cui rimangono solo luci nelle quali è consolante scorgere le proprie radici, mentre le ombre sono rimosse, attribuite alla follia o al puro arbitrio individuale.
Tutto va assunto e di tutto si deve cercare di farsi una ragione. Ciò non significa, ovviamente, che tutto vada giustificato. Il punto è che la storia degli uomini non è il capriccio del caso e non è un gioco. Ci sono di mezzo la loro volontà, i loro bisogni, le loro decisioni, e di tutto ciò va tenuto conto anche quando ci si trova a sfogliare pagine pesanti come il piombo.
Nel fare i conti con un secolo e mezzo di storia del movimento operaio e comunista vanno evitate semplificazioni e va evitata la supponenza di chi separa rigidamente la ragione dal torto ritrovandosi sempre dalla parte dei giusti. Ciò richiede studio tenace. Occorre apprendere le cause concrete degli avvenimenti della nostra storia: non per precipitarsi a giustificare o a condannare, ma in primo luogo per capire. Occorre rileggere le diverse teo-rie sullo sfondo dei processi storici che ne hanno sollecitato l’elaborazione: non per assumerne o rigettarne dogmaticamente le indicazioni, ma per comprenderne davvero il senso e coglierne l’eventuale attualità.
Certo non è questa la via più gratificante né la più comoda per chi cerca solo di salvaguardare la propria purezza. Più facile è dividere, scindere, separare, atteggiarsi, nei confronti del passato, a giudice e – prima ancora che a giudice – a sommo regista. Più facile è aprire e chiudere il flusso degli eventi a proprio piacimento e scorporare la storia intellettuale del movimento operaio dalla sua storia politica, perché le idee sono – almeno così appaiono – più pulite e meno cruente delle azioni, specie quando queste coinvolgono conflitti. Più facile è, soprattutto, estrarre dalla storia passata pochi momenti alti e sommergere il resto nell’oblìo.
Ma così ci si illude di sbarazzarsi della propria storia. I conti, in questo modo, restano tutti aperti e prima o poi tornano a pesare. Spesso non ci si divide sulle interpretazioni del passato, ma prima ancora di metterle a confronto: tra chi, appunto, questo passato considera, nella sua totalità, come storia propria, e intende comprenderne il senso complessivo per elaborarne gli insegnamenti, e chi invece pensa di potere chiudere la partita scegliendo fior da fiore, come in un supermercato: quasi che gli eventi, le idee, le soggettività possano conservare la propria verità una volta strappati ai contesti sul cui sfondo presero concretamente forma.
Nel merito, si impone un bilancio serio, tale proprio in virtù delle sue contraddizioni. Ma quando si fa questo discorso c’è sempre qualcuno che si sente in diritto di salire in cattedra per sfoderare tradizionali accuse: continuismo, riduzionismo, giustificazionismo. Cominciamo da qui.

Abbiamo sempre detto – e ribadiamo – che occorre guardare in faccia senza reticenze anche i momenti più bui dell’esperienza storica del movimento comunista: l’assenza di democrazia diffusa, le esasperazioni dirigistiche, le deformazioni burocratiche denunciate già da Lenin, gli stessi crimini che hanno macchiato la storia del “socialismo reale”. A chi ci incalza evocando le violenze commesse nel nome del comunismo, non rispondiamo riducendone la portata né semplicemente additando le immani devastazioni e gli stermi-ni prodotti dal capitalismo. Siamo consapevoli del peso del nostro passato e accettiamo di assumercene la responsabilità. È questo un atteggiamento riduzionistico? È «giustificazionismo “storico”»?
D’altra parte non ci sembra granché, sul piano della riflessione storica, l’operazione di chi liquida la vicenda dell’Urss e degli altri paesi dell’est europeo come un gigantesco “fallimento”. Questa categoria veltroniana ci sembra doppiamente inadeguata. In primo luogo per ciò che ha sottolineato Eric Hobsbawm, il quale – dopo aver definito “grandiosi” alcuni risultati conseguiti dall’Unione sovietica sul terreno della modernizzazione economica, sociale e politica – ha osservato che “non conosciamo ancora quale sarà l’effetto di lunga durata di quei regimi” sul piano, per l’appunto, dei progressi civili, culturali e politici compiuti in settant’anni di storia. In secondo luogo, la sbrigativa definizione di “fallimento” appare inadeguata di fronte alla sostanza dei risultati conseguiti, sui quali è quanto meno difficile avanzare seri dubbi.
È un fatto indiscutibile che le rivoluzioni operaie e contadine hanno liberato dalla servitù sconfinate masse di popolo, hanno dato vigore al processo di decolonizzazione nel terzo mondo e hanno sostenuto nel corso del Novecento le lotte del movimento operaio in tutto l’Occidente, imponendo al capitalismo di “civilizzarsi” attraverso lo sviluppo del welfare e il riconoscimento dei diritti sociali. Né va dimenticato – fra tanta retorica atlantista – che senza l’apporto dell’Armata rossa difficilmente la seconda guerra mondiale si sarebbe conclusa con la sconfitta del nazifascismo.
“Fallimento”? Se così fosse, la fine dell’Urss e degli altri paesi dell’est non avrebbe coinciso con il generale arretramento del movimento operaio in Occidente e con la gigantesca controrivoluzione che il mondo conosce da un decennio a questa parte e che ha precipitato nella guerra intere regioni del pianeta. Quanti a sinistra, nel 1991, hanno brindato alla fine del “socialismo reale” hanno di che meditare. Il fatto è che non c’è bisogno di ignorare errori e tragedie per rifiutare bilanci tanto sommari, così come non occorre sottoscrivere giudizi tanto superficiali per dimostrare di prendere sul serio gli insegnamenti della storia, a cominciare dalle sconfitte subìte.

E veniamo, finalmente, alla questione del presunto “continuismo”.
Come si diceva, appare a molti comodo, oggi, individuare i padri nobili e i momenti alti della propria storia e contrapporli al resto. In un bell’articolo, apparso di recente su il manifesto, Remo Ceserani ha osservato che va molto di moda “tagliare a fette il grande salame della storia ed etichettarne le parti da esporre nel supermercato della cultura mercificata”. È un gioco di prestigio semplice e fruttuoso, utile per costruirsi nobili ascendenze come facevano un tempo i ricchi borghesi smaniosi di nobilitarsi.
Il tutto viene poi giustificato ricorrendo alla molto accattivante categoria della “discontinuità”.
Buono è Marx, cattivo – anzi pura “crosta” – il marxismo novecentesco (anche se con qualche imbarazzo si cercherà di salvare Gramsci, amputandogli, per depurarlo, qualche arto). Buono l’Ottobre, non buona – “fallimentare” – l’esperienza politica che ne derivò. E via contrapponendo. Innoviamo! Decidiamo senza troppe remore cos’è buono e bello, stabiliamo a nostro piacimento le cesure epocali e sbarazziamoci di tutto il resto: non siamo forse rivoluzionari?
Peccato che dell’Ottobre Lenin sia stato protagonista e che non si intenda nulla della storia della rivoluzione senza tenerne conto; peccato che tutta la ricerca di Gramsci si muova nel solco del leninismo e che non si capisca niente dei Quaderni del carcere ignorando questo antecedente; peccato che lo stesso Marx ci sembrerebbe oggi arcaico e in parte indecifrabile senza la mediazione delle “croste”; peccato che proprio grazie alle “croste” ci sia stato stato un secolo di lotte, siano nati partiti e movimenti, sino a quel ’68-69 a cui si guarda con proclamato rispetto. Peccato.
Viene in mente, con malinconia, proprio una pagina dei Quaderni che citiamo in chiusura. Scrive Gramsci che i mutamenti politici e sociali possono essere più o meno profondi e li distingue definendo gli uni (quelli che cambiano la storia) “organici”, gli altri (sostanzialmente irrilevanti) “di “congiuntura” o occasionali”. Quindi, fatta questa premessa, osserva:

“Il nesso dialettico tra i due ordini di movimento e quindi di ricerca difficilmente viene stabilito esattamente e se l’errore è grave nella storiografia, ancor più grave diventa nell’arte politica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire: i proprii desideri e le proprie passioni deteriori e immediate sono la causa dell’errore, in quanto essi sostituiscono l’analisi obbiettiva e imparziale e ciò avviene non come “mezzo” consapevole per stimolare l’azione ma come autoinganno.
La biscia, anche in questo caso, morde il ciarlatano ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.”

Non usa certo mezze misure, Gramsci: fortuna che non è una “crosta” e che quindi, citandolo, non si incapperà nell’accusa di “continuismo”.