Quando gli assalti dei quattro cavalieri dell’apocalisse imperialista – Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio e Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – non raggiungono lo scopo della colonizzazione (lasciamo da parte il “neo”, che si tratta dello stesso processo di espansione e conquista praticato dalle imprese, tipo Società delle Indie, all’inizio dell’era coloniale, con gli stessi corollari religiosi e militari), intervengono i bracci militari dell’agglomerato capitalista sovranazionale. Apripista etico-psicologici non sono più tanto i commandos della centralità cristiana europea, seppure non manchino neppure costoro, quanto i corifei dei Diritti Umani (sempre cristiano-occidentali, oggi con il baricentro in USA piuttosto che in Europa), spesso inscindibilmente legati, salvo una schiera di “utili idioti”, alle stesse centrali dell’aggressione economico-militare. L’abbiamo potuto constatare con chiarezza nel caso dell’aggressione armata alla Jugoslavia, oggettivamente sostenuta dai buonisti e furbacchioni del pacifismo alla “Né con la Nato, né con Milosevic”, equivalente ad un “Né con il panzer, né con la bicicletta”, atteggiamento a volte in buona fede, ma sempre dimentico dell’imprescindibile valutazione della contraddizione principale imperialismo-popoli che, oggi come non mai, caratterizza l’accelerazione della storia (altro che la sua fine).
George Soros, protagonista della finanziarizzazione dell’economia globalizzata e bucaniere delle operazioni speculative sui cambi e sui trasferimenti, è l’uomo punta di questa commedia degli equivoci. Il titolare del più grande fondo d’investimenti del mondo, il Quantum Fund, ovviamente residente, come tutti i banditi finanziari, ufficialmente o non mafiosi e narcotrafficanti, in un paradiso fiscale (Antille olandesi), si atteggia a filantropo e viene presentato come tale dalla stampa italiana, Repubblica in testa, mentre stigmatizza eccessi selvaggi del libero mercato che la sua cosca sistematicamente pratica. Da un lato allestisce centri studi, università, college, seminari, corsi, perlopiù per manager del libero mercato globalizzato, dall’altro viene sguinzagliato dagli enti finanziari imperialistici per sistemare renitenti o riluttanti. Nel ’92 in Italia, con il più micidiale attacco alla lira mai portato a questo paese, finalizzato a far crollare la nostra moneta e, insieme, il prezzo dei pezzi IRI che allora venivano messi sul mercato. Nel ’98, tra gli altri, in Malesia, l’unica tigre asiatica che aveva risolto di respingere le ricette FMI. Per queste operazioni, il finanziatore dei secessionisti narcotrafficanti albanesi e di un’opposizione famelica di capitalismo a Belgrado (solo un esempio: Radio B-92) è sotto processo in numerosi paesi, compresa l’Italia.
Perlopiù, però, bombe, avvelenamenti collettivi da guerre biologiche e nucleari di bassa intensità (Iraq e Balcani) e Soroa restano di riserva. Basta la complicità delle corrotte oligarchie, venute alla ribalta nei paesi in via di sviluppo che non hanno conquistato la liberazione nazionale con una rivoluzione di popolo e che sono docili strumenti delle sovranazionali e dei loro organismi istituzionali in cambio di armamenti, addestramenti e soldi che ne garantiscano il potere e la partecipazione agli utili del depauperamento dei rispettivi popoli. Così tra le repubblichette dei Caraibi, lungo le coste latino-americane e, soprattutto, nel Sud-Est asiatico: Pachistan, India, Birmania, Tailandia, Indonesia, Filippine, Corea.
Qui, lungo tutto la costa, non più mangrovie e attività economiche tradizionali finalizzate al sostentamento e alla difesa identitaria delle comunità locali, ma monoculture della gomma e della palma d’olio e mega-allevamenti di gamberetti. Le monoculture, imposte dalle sovranazionali in combutta con grossi imprenditori nazionali all’epoca della catastrofica “rivoluzione verde” (primo assalto neocoloniale alle agricolture nazionali, quello della desertificazione chimica, seguita oggi da quello transgenico), hanno espropriato i contadini degli apprezzamenti di terra sottratti nei decenni precedenti al latifondo feudale di marajà e notabili, e hanno provocato il disboscamenti della foresta tropicale (i disboscamenti nel Sud-Est asiatico rappresentano il 70% di tutti i tagli di foreste nel mondo) e la devastazione ecologica e sociale del territorio.
In congiunzione con l’oceanica offensiva delle sovranazionali della pesca, anche queste alleate a grossi imprenditori locali, subordinati ma in funzione di controllo proconsolare sulle comunità costiere, il fenomeno ha provocato la spaventosa urbanizzazione che sta causando catastrofi sociali in tutto l’arco dall’Oceano Indiano a quello Pacifico, con le bidonville dei disperati che si allargano intorno a metropoli come Bangkok, Bombay, Manila. Ho percorso mesi fa un lungo tratto delle due coste della Tailandia, quella che da sul Golfo della Birmania e quella che, guardando verso l’Indocina, da sull’Oceano Pacifico. Le mangrovie, qui come in tutta la regione difesa fondamentale contro l’intrusione dei tifoni, sono quasi tutte scomparse. Il loro pregiatissimo legname si può anche scorgere nelle boutique d’artigianato di lusso, nel Duty-free dell’aeroporto di Bangkok. Le sovranazionali del legname e i loro sensali locali ci hanno fatto fortune, le comunità costiere ne sono state distrutte: il complesso ecosistema mangrovie-bagnasciuga, oltre a frenare la devastazione dei cicloni monsonici, forniva con pesci, crostacei, alghe il nutrimento di base di tutta l’area, gestito in maniera razionale ed ecologica in equilibrio tra risorse e necessità. Ora, provate ad affacciarvi sul Golfo di Satun, Tailandia sud-orientale, un tempo paradiso di convivenza e di mutuo benessere tra quanto offriva la natura e quanto richiedevano i villaggi: una distesa lunare di allevamenti di gamberi, quei gamberi che, sotto forma di “cocktail di gamberetti”, una volta erano una squisitezza riservata alle occasioni di lusso, ora, congelato e desaporizzato, te lo tirano dietro in ogni bettola. Questi allevamenti stanno tra litorale ed entroterra, richiedono immissioni costanti di acqua salata e movimentazioni meccaniche per ossigenare i pesci. Il sale penetra nel terreno, si espande attraverso le falde (che rende inutilizzabili ai fini di potabilità e irrigazione), desertifica per chilometri quadrati all’intorno. I crostacei allevati in questo modo stanno male come tutte le vittime dei nazisti allevamenti intensivi, di bovini, ovini, suini o avicoli che siano. Di conseguenza grande uso di antibiotici per tenere in vita gli animaletti e ulteriore intossicazione del suolo. dopo tre-quattro anni il terreno è morto, totalmente sterile, inutilizzabile per generazioni. Ma l’impresa, sovranazionale o nazionale che sia,, si sposta: altri allevamenti nascono appena dove ricomincia un territorio utilizzabile. In questo modo, dall’America Latina al Sud-Est asiatico, sono stati desertificati decine di migliaia di chilometri di costa, con l’aggiunta dell’arrivo in zona delle flotte oceaniche satellitari di USA, Giappone e altri paesi avanzati che, anche con la violenza (speronamenti, sparatorie), oltreché con la complicità delle autorità marittime locali, hanno espulso le piccole canoe da pesca dei villaggi costieri dall’ultima delle proprie attività di sussistenza. A questi dovremmo rimettere un debito contratto dagli oligarchi sulla pelle di milioni di impoveriti abbandonati al nulla. Per pagare il debito di paesi industrializzati nei loro confronti, toccherebbe a questi ultimi pagare miliardi di dollari in bonifica, rinaturalizzazione, risarcimenti.
Non succederà. Potrebbero, invece, arrivare bombe, uranio da sfoltimento demografico, ed embarghi genocidi. Già, perché da qualche anno si è sviluppata tra le comunità in collaborazione con ONG nazionali e di paesi vicini, un forte movimento di resistenza che ha contestato i devastatori ed espropriatori con una serie di offensive legali, spesso approdate a buoni risultati (terreni negati alle imprese, terreni restituiti ai contadini, limitazioni ambientaliste alle operazioni), ma anche di scontri violenti tra pescatori e invasori multinazionali e di occupazioni di monoculture. In Tailandia il governo ha dovuto porre rigorosi limiti alla pesca industriale straniera e in India la Corte Suprema ha sancito la fine degli espropri dei terreni a vantaggio dei coltivatori di gamberetti (anche se spesso funzionari e magistrati corrotti chiudono un occhio sotto le pressioni delle compagnie). L’insieme di questo movimento organizzato, che in India si è tinto di connotati religiosi buddisti o indù, mentre nel Sud della Tailandia, già scossa da una guerriglia comunista dimenticata dai media, ma attiva da decenni, assume i caratteri di una contestazione della buddizzazione forzata incoraggiata dalle oligarchie del potere, si è espresso con grande forza e visibilità a Seattle. Le tensioni nel Sud-Est asiatico sono destinate sempre più ad alimentarsi anche di questa nuova lotta contro il pensiero unico.