1. Globalizzazione: cosa c’è di nuovo in questa nozione vecchia quanto il capitalismo?
Tale e tanta appare l’insistenza con la quale l’enorme armamentario della propaganda avversaria ci vuole convincere che nessuno può sottrarsi alla globalizzazione, che qualche dubbio non sembra infondato. Battono e ribattono sulla globalizzazione con la stessa pervicacia con la quale nel corso degli ultimi dieci anni hanno predicato il “nuovo”, la “nuova” economia, il “nuovo” che avanza, il “nuovo” modo di produrre, il “nuovo” modo di lavorare. Nessuno ha mai parlato del nuovo ed insopportabile modo di vivere, ma questo avremmo dovuto essere noi a dirlo.
Che cosa intendono per globalizzazioe, mondializzazione e termini equivalenti? Intendono dire (e soprattutto farci credere) che si tratta di una svolta del capitalismo mondiale, (quello che una volta eravamo abituati a definire imperialismo), svolta non soltanto in senso dimensionale, spaziale, ma anche e soprattutto in senso politico ed economico, e che di conseguenza tutti gli strumenti teorici e politici con i quali lo si è misurato, definito, sostenuto o combattuto devono essere considerati, da subito, superati, inutili, da buttare.
Da tempo siamo abituati ai giochi di parole, che dalle pagine dei periodici enigmistici sono passati a pieno titolo non soltanto nel linguaggio comune ma anche in quello politico, in attesa di entrare pure in quello “scientifico”. Quasi senza accorgercene, anche noi siamo passati dalle equivalenze agli addolcimenti ed alle cosmesi lessicali.
L’imperialismo, il socialismo, l’internazionalismo, il partito di classe, la politica di alleanze, la guerra, tutti questi concetti vengono annacquati, privati del loro significato originario e riciclati come segue: il neoliberismo, il pensiero unico, l’antagonismo, il movimentismo, il superamento del capitalismo, la prima guerra della globalizzazione (la “prima” dopo che cosa? la scoperta dell’America?), la guerra civile mondiale, la guerra fra due fondamentalismi. Queste sono le espressioni nuove funzionali al depistaggio dalla storia reale del comunismo novecentesco identificato in una sola persona, quella di Giuseppe Stalin. È fatale quindi che siano i nuovi soggetti e non più la classe operaia – e neppure la sua non scientifica dilatazione in classi lavoratrici – ad essere assunti come forze motrici del cambiamento.
Questa rimozione di parole e di espressioni è pericolosa perché non rimane in superficie ma ti entra dentro, la interiorizzi e ti segna la coscienza.
Allora la globalizzazione è qualche cosa di diverso dalla fase attuale del capitalismo? Fanno di tutto per farlo credere. Il capitalismo è cambiato? Ha cambiato gli obiettivi? Noi sosteniamo che il capitalismo non ha mai cambiato i suoi obiettivi: ha cambiato una volta ed una volta soltanto la politica economica semplicemente perché vi fu costretto. E da chi ? Dai comunisti.
Il sistema capitalista è per sua natura “dilatatorio” tende cioè, ad occupare tutto lo spazio possibile. E dalle sue lontane origini, dalla sua formazione, prima lenta e poi sempre più accelerata, sino alla prima guerra mondiale, il sistema capitalista – che a suo tempo aveva travolto nel fuoco della Rivoluzione francese il precedente assetto sociale, il feudalesimo – non ebbe rivali, non ebbe impedimenti, non conobbe argini, limitazioni, si instaurò ovunque ritenesse utile farlo e si rafforzò laddove era già forte. Conobbe soltanto conflitti interni, cioè fra Paesi capitalisti, i quali, assolutamente d’accordo fra di loro nel depredare, sfruttare, massacrare, qualche vota litigavano per la spartizione del bottino (quello che gli intellettuali del capitale chiamano “suddivisione dei mercati”.
2. Quando e perché il movimento operaio è avanzato, quando e perché è arrivata la sconfitta
Tutto andò splendidamente per il capitalismo e di conseguenza non ebbe mai alcun bisogno di cambiare la propria politica. Fino al primo dopoguerra, fino alla Rivoluzione d’Ottobre, fino al sorgere del primo Stato socialista, fino alla nascita ed al rafforzamento dei partiti comunisti nel mondo, segnatamente in Europa e nell’Estremo Oriente. La prima risposta del capitalismo di fronte al nuovo scenario mondiale fu la promozione del fascismo ove possibile per stendere un “cordone sanitario” attorno all’Urss, ma contemporaneamente, ed in modo molto marcato a far data dagli anni Trenta, con una politica che rappresentasse in qualche modo l’accettazione da parte del capitalismo di quello che successivamente sarebbe stato chiamato “stato sociale”: riconoscimento dei sindacati, contratti collettivi di lavoro, assicurazioni sociali, sistema di assistenza malattia, pensioni di anzianità e di vecchiaia. Gli stessi regimi fascisti in Italia ed in Germania espressero – è il caso di ricordare che fu soltanto demagogia ? – un certo livello di politica assistenziale. Questa tendenza venne fortemente sostenuta nel secondo dopoguerra, quando l’Urss, che era stata capace di annientare l’aggressore tedesco quasi da sola – non si vuole mai ricordare che il giorno dello sbarco alleato in Normandia (6 giugno 1944) gli alleati furono affrontati da una ventina di divisioni tedesche, mentre contro l’Armata Rossa il comando tedesco schierava 180 divisioni e non spostò neppure un soldato dall’Est all’Ovest – l’Urss, si diceva, veniva a rappresentare, assieme al nuovo schieramento di Stati socialisti, la promessa, e la premessa, di un mondo migliore per tutti.
Per la storia ed anche per l’economia (che sono sempre le due facce della stessa medaglia), il cambiamento della politica economica del capitalismo ha un nome, quello di John Maynard Keynes. Sino agli anni Trenta, di fronte alle crisi, la risposta delle classi dominanti ispirate alle dottrine dei neo-classici era una sola: occorreva abbassare i salari perché i produttori potessero abbassare i prezzi delle merci e quindi favorire il consumo. Keynes disse che tutto ciò – nella situazione data – era una follia : bisognava al contrario aumentare i salari, diminuire la disoccupazione promuovendo grandi opere pubbliche, fare in modo che i lavoratori avessero abbastanza soldi per poter acquistare le merci prodotte (la grande crisi del ’29 fu appunto una crisi indotta dalla sovraproduzione e dal contemporaneo sottoconsumo). E fu per il capitalismo anche una grande scoperta storica: i lavoratori non erano soltanto forza lavoro da sfruttare ma potevano e dovevano trasformarsi anche in uno sterminato esercito di ubbidienti consumatori.
Questo cambiamento indusse successivamente alcuni studiosi, anche di sinistra, a sostenere che c’erano due capitalismi, uno cattivo ed uno buono. Era un tremendo abbaglio: il capitalismo “buono” era semplicemente quello più forte che, in quanto tale, sapeva adattarsi alle circostanze ed agire di conseguenza.
Questa situazione è andata avanti per circa settant’anni, con i governi affidati negli Stati Uniti preferibilmente ai democratici ed in Europa preferibilmente ai socialdemocratici o ai rappresentanti del cattolicesimo ‘sociale’, non senza impazienze, tentativi di ribaltamento e fughe all’indietro, ma sostanzialmente con una buona tenuta. Quando questa situazione, questi decenni durante i quali il capitalismo era, soprattutto in Europa, più in difesa che in attacco, sono terminati ? Quando è crollata l‘Unione sovietica. Non ci possono essere dubbi in proposito. E con essa è crollato il sistema dell’Europa orientale, e con loro hanno cominciato a disgregarsi sino all’autoaffondamento i maggiori partiti comunisti del continente.
Nella nuova situazione il capitalismo internazionale è tornato prontamente alla sua vecchia e mai dimenticata politica economica, quella che si manifesta in un mondo nel quale comanda indisturbato, senza avversari, senza controaltari, senza rivali. Il capitalismo ripresenta la sua vecchia faccia, quella tesa unicamente alla ricerca del massimo profitto comunque e dovunque, costi quel che costi (per le vittime), valga qual che valga (per gli azionisti). E quindi sindacati da sottomettere totalmente alla legge del profitto, garanzie da ridurre ai minimi termini, previdenza sociale da portare vicino allo zero, sistema sanitario da privatizzare, pensioni da ridurre all’osso.
Se così stanno le cose, e siamo certi che stiano così pur consapevoli dei limiti della inevitabile generalizzazione che un articolo comporta, domandiamoci che cosa ci sia di effettivamente nuovo nella globalizzazione. Si tratta del puro e semplice ritorno del capitalismo sul ponte di comando, solo ed indisturbato al timone del mondo. Se proprio lor signori lo vogliono, scriviamo pure “globalizzazione”, pur che si continui a leggere “imperialismo”.
3. Le domande sulla storia dell’Urss attendono risposte razionali, non invettive
E quale è la risposta di un partito comunista, per esempio di Rifondazione? La domanda è di quelle che non si possono rimandare a tempi migliori, accontentandoci per il momento del cabotaggio quotidiano o settimanale. Il congresso del nostro partito sarà convocato entro la primavera del 2002. Quello sarà il momento decisivo, il momento del non ritorno: o Rifondazione deciderà di tenere aperta la strada, di indicare seriamente un obiettivo, o una serie di obiettivi successivi, di precisare una linea teorica sulla quale condurre la lotta politica, di disegnare una strategia ed una tattica (e la seconda non deve contraddire la prima); insomma o Rifondazione dirà che cosa è e che cosa vuole e come lo vuole e con chi lo vuole e contro chi lo vuole, oppure il futuro è già cominciato ed è un futuro che a noi non piace per niente.
In questa prospettiva alcuni segnali sono già preoccupanti, come il largo spazio concesso nel partito a concezioni che privilegiano il “movimento” a svantaggio del partito, mentre i due “momenti” non sono necessariamente alternativi concezioni queste sostenute anche in molti interventi in occasione del Comitato politico nazionale di settembre e, quel che è peggio, raccolte dal documento conclusivo. Vi si legge la volontà della definitiva archiviazione di tutta l’esperienza comunista del secolo XX, quella dell’Urss prima di tutto e, a seguire, tutto il resto, non esclusa la Cina passata e presente, della quale si dice, e si scrive su Liberazione, tutto il male possibile, compresa la sensazionale ed indimenticabile notizia della reintroduzione in Cina della schiavitù.
4. Livorno, gennaio 2001: uno spettro si aggira in Rifondazione
Un primo assaggio del “clima” che sta montando nel partito lo abbiamo avuto nel gennaio scorso, in occasiona del discorso tenuto dal segretario del partito a Livorno in occasione dell’ottantesimo anniversario della fondazione del Pci. “Ragionando” – sono sue parole – “sull’esperienza dell’Unione sovietica” trova che il cuore di quella esperienza è stato lo stalinismo e che le code di quella esperienza (cioè dello stalinismo) vivono ancora dentro di noi e “ci impediscono la ricerca e l’attualizzazione di una idea comunista”
Bisogna dare atto al segretario Fausto Bertinotti di sincerità e di lealtà, in quanto non poteva essere più esplicito. Ed allora il partito della Rifondazione sarà chiamato a scegliere se ci si deve sbarazzare del comunismo lungo un secolo come di una zavorra, con la sicurezza di ritrovarci in una frazione di Bologna chiamata la Bolognina, oppure se, al contrario, possiamo porci in continuità con una linea che, a partire da Karl Marx e Frederich Engels e passando per Vladimir Lenin Rosa Luxemburg, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti (ma anche Giuseppe Stalin e Mao Tze-tung) arriva fino ai giorni nostri.
Siamo abbastanza grandicelli e vaccinati, e dunque in grado di sottrarci alla tentazione di ridurre la storia del movimento comunista ad un’unica serie positiva di lotte nobili ed eroiche, senza macchia e senza paura, senza errori e senza sangue. Siamo in grado di accogliere e di farci carico assieme alle rose anche delle spine – e che spine – che le accompagnano e perciò anche dei lati oscuri, delle tragedie e delle degenerazioni che pure appartengono a questa storia.
Ma ci domandiamo che senso abbia condividere il luogo comune che tutta l’esperienza del movimento comunista e la sua sconfitta siano collocabili sotto l’etichetta dello stalinismo. Questa tesi personalizza e riconduce ad un solo individuo (con tanti saluti al marxismo) una storia che viceversa appartiene a centinaia di milioni di uomini e donne legati da un filo conduttore comune che si è dipanato attraverso il mondo per otto decenni.
Il termine stalinismo ed il suo opposto, antistalinismo, riappare con sempre maggior frequenza nel nostro lessico interno. Liberarsi dallo stalinismo (e dagli stalinisti) sembra essere diventata una ossessione isterica per alcuni dirigenti di Rifondazione, una specie di tic mentale, e se il dibattito congressuale dovesse avvitarsi sull’uso terroristico di questa nozione, l’esito non potrà essere che disastroso. Al momento non possiamo che prendere atto che esiste nel partito il proposito di buttare in lavatrice le “macchie” staliniste del più grande movimento rivoluzionario del secolo e di chiudere, una volta per tutte, senza neanche averla mai seriamente iniziata, la discussione nel partito sul comunismo novecentesco ed il socialismo realizzato.
Si tratta con ogni evidenza di una linea che tende a dare per scontata una prossima, ed ufficiale, liquidazione di tutta l’enorme esperienza accumulata dai comunisti in quasi un secolo. Così, né più né meno.
5. Il Pci di Gramsci e Togliatti: corpo estraneo al socialismo reale o figlio legittimo dell’Ottobre?
Ed infine cerchiamo di capire come è stata paracadutata nel partito della Rifondazione comunista la “nuovissima e di palpitante attualità” questione dello stalinismo. Per gli argomenti e le sensibilità che tocca, per le reazioni che provoca, priva come è di un approccio storico di largo respiro, rischia non di galvanizzare ma di balcanizzare la già precaria situazione interna di un partito ancora troppo debole e frammentato. Il meglio, o il meno peggio, di questa tarda offensiva antistalinista, assolutamente inutile, si può cogliere negli sforzi di Pietro Ingrao e di Rossana Rossanda, sforzi tesi a sottrarre dal banco degli accusati di questo abborracciato tribunale speciale il partito comunista italiano e i suoi fondatori, soprattutto Antonio Gramsci, in quanto sarebbero stati cosa diversa ed estranea alla “natura assassina” della Casa madre ed a tutte le altre esperienze del socialismo del secolo.
Per favore, compagni, non prendiamoci in giro. Il Pci è diventato una grande forza politica in anni difficili, durissimi, perché ha saputo intrecciare le sue peculiari differenze nazionali (come hanno saputo fare anche tanti altri, ma non tutti, partiti della Terza Internazionale, come il partito cinese e quello vietnamita) con le esigenze di un movimento a dimensione mondiale e del quale è stato parte integrante e perfettamente consapevole. Fuori da quella dimensione non ci sarebbe stato alcun Pci. Quando quella dimensione è crollata, il Pci, pur con tutti i suoi acrobatici tentativi di apparire diverso, è stato il primo partito ad essere travolto.
Ma in quale mondo stiamo vivendo? In che Paese siamo? C’è da domandarselo se si tiene conto che l’antistalinismo sarà proprio l’argomento di fondo con il quale si darà battaglia – già oggi ma soprattutto domani – contro tutti coloro che in Rifondazione non hanno alcuna intenzione di abbandonare il pensiero marxista, le indicazioni di Lenin e di Gramsci, la teoria del partito. Un movimento, per giusto e generoso che sia (e quello del quale siamo in presenza in Italia e nel mondo lo è) non può avanzare né tanto meno vincere sulla base delle sole manifestazioni per grandiose che siano, se è privo di un partito rivoluzionario. Se questo era vero ieri, e lo era, lo è anche oggi e lo sarà domani.
6. Lo schema di Fukuyama incombe sul giudizio critico del movimento comunista novecentesco
Quale è l’argomento “principe” con il quale si cerca e si cercherà di “far fuori” tutti i leninisti non pentiti di Rifondazione? L’abbiamo detto e lo ripetiamo, è l’antistalinismo. Si vuole e si vorrà far credere che è l’ombra di Giuseppe Stalin che ostacola il cammino. Rispolverando tutto il ciarpame raccolto negli arsenali anticomunisti, ci rovesceranno addosso tutte le accuse che la propaganda dell’avversario ha impiegato contro di noi (contro tutti i comunisti) nell’ultimo secolo, e scusate se è poco. Prepariamoci al peggio. Senza neppure troppa gradualità, in Rifondazione si tenta di convincere il partito che Giuseppe Stalin è stato soprattutto il capo di un plotone di esecuzione. Come capacità di sintesi non c’è male. Le lotte clandestine, la Siberia, la preparazione dell’Ottobre a fianco di Lenin, la parte avuta nella vittoria nella guerra civile, l’eredità di Lenin (e ci ricorderanno anche il famoso testamento, che non era un testamento ma soltanto la valutazione del tutto legittima ed anche fondata di una notevole rudezza di carattere in Stalin), il superamento della carestia, la decisione di respingere l’assedio del mondo borghese, il lancio dei piani quinquennali, la scelta del socialismo in un Paese solo (e la formula non era di Stalin ma di Bucharin), la trasformazione di un immenso Paese arretrato in una grande potenza mondiale, il tentativo di impedire che gli alleati occidentali spingessero la Germania nazista contro l’Urss già nel 1939, la straordinaria lotta del popolo sovietico in risposta all’attacco nazista, la resistenza, la vittoria di Stalingrado, la travolgente controffensiva che condusse l’Armata Rossa dal Volga a Berlino fino ad issare la bandiera rossa sulle rovine del Reichtag, tutto questo e moltissimo altro ancora, non conta.
Questo, e moltissimo altro, è stato fatto dal popolo sovietico sotto la direzione di Giuseppe Stalin, il quale, invece, per molti comunisti pentiti dentro e fuori Rifondazione è stato principalmente – lo ripetiamo – il capo di un plotone di esecuzione. E quindi damnatio memoriae sul suo nome, come i Romani facevano nei confronti di un imperatore cattivo, ma che fino al giorno prima avevano deificato.
Ci sono e ci sono stati centinaia di scrittori, filosofi, giornalisti ed uomini politici fra i nostri avversari, i quali, per quanto riguarda il giudizio su Stalin, appaiono al confronto di alcuni iscritti a Rifondazione, degli autentici filocomunisti. Ma è accettabile, anche sul piano di una discussione da bar, chiudere l’argomento Stalin con una superficialità del genere? Sarebbe come se uno storico, incaricato di definire la vita e le opere di Karl Marx, scrivesse che si è trattato di “un Ebreo che, mentre scriveva a Londra un libro intitolato Il Capitale ed avendo in casa la moglie malata, metteva incinta la serva” . O un altro che a proposito di Caio Giulio Cesare se la cavasse ricordando che “ si tratta di un giovane patrizio romano che si lasciava sodomizzare da un re orientale”. È fare storia questo? No. È fare politica? Sì, è fare la politica dei nostri avversari di ieri, di oggi e di sempre.
7. L’Urss degli anni Trenta si prepara allo scontro militare con l’imperialismo mondiale
La figura di Giuseppe Stalin ha cominciato ad essere accomunata ai massimi gradi delle gerarchie infernali ad iniziare dai primi anni Trenta da parte di tutte le espressioni dell’anticomunismo borghese ,ma anche da parte, con toni diversi, dei rappresentanti delle numerose famiglie della sinistra internazionale non comunista, anche se sarebbe più esatto definirla “sinistra anticomunista”.
La campagna antistaliniana ebbe un violento sussulto ai tempi del patto di non aggressione Molotov-von Ribbentrop. Tutti fecero finta di non sapere che da anni la diplomazia sovietica cercava in ogni modo di legare Inghilterra e Francia in un patto antinazista, e che da anni Inghilterra e Francia giocavano a perdere tempo puntando sul tavolo opposto, quello cioè di spingere la Germania contro l’Urss.
Quando il gioco divenne troppo scoperto, Stalin sbattè la porta. L’anticomunismo internazionale non perdette l’occasione per “leggere” il patto di non aggressione Molotov-von Ribbentrop quale prova lampante ed incontrovertibile della “natura” del comunismo sovietico e di quella del suo massimo esponente.
Negli anni della seconda guerra mondiale la campagna antistaliniana perse di virulenza nei Paesi alleati, in particolare negli Stati Uniti ed in Inghilterra, ma i suoi temi, i suoi argomenti e le sue immagini passarono pari pari in mano ai propagandisti di Hitler e di Mussolini, da Goebbels a Farinacci, da Eichmann a Buffarini-Guidi: l’antistalinismo accetta ed arruola tutti.
Lo scoppio della guerra fredda ha una data precisa. Il 15 marzo 1946 l’ex primo ministro inglese, Winston Churchill, parlando a Fulton negli Stati Uniti inventò l’espressione “cortina di ferro”, affermando che un sipario d’acciaio si era abbattuto sull’Europa: di qui la civiltà, la libertà e la democrazia, di là la barbarie, l’oppressione, la schiavitù (ed oggi Bush non afferma nulla di diverso, sia pure in un altro contesto). Come senso della misura e come articolazione del giudizio non c’era male. Ma questa divisione del mondo, questa “specializzazione” politica, divenne da allora legge fondamentale, l’abc, il sillabario sul quale tutti dovevano imparare a leggere (e a votare, laddove possibile) in tutto il mondo libero, vale a dire in tutto il mondo anticomunista.
8. Il morbo dell’antistalinismo si diffonde e diventa letale per molti partiti comunisti
Giuseppe Stalin muore nel marzo del 1953. Tre anni dopo si celebra a Mosca il XX congresso del Pcus. Con Nikita Kruscev si apre una storia nuovissima e per certi versi ancor più sconcertante, che Togliatti cercò, invano, di mantenere entro l’alveo razionale e della riflessione storica. E forse è proprio dal rapporto Kruscev che comincia, insieme alla isterica scomunica di Stalin, la fase del declino che ha portato al collasso quasi contemporaneo dell’Urss e del Pci. E sì che il Pci aveva preso le debite distanze, aveva recitato tutte le prescritte giaculatorie antistaliniane, aveva fatto lo strappo, si era dichiarato moderno ed europeo, aveva denunciato errori ed orrori, aveva accettato la Nato, l’Unione europea e quant’altro all’avversario passava in mente di chiedere, aveva fatto tutta l’autocritica possibile compresa la pubblica autoflagellazione, negli ultimi anni aveva fatto in modo persino di perdere qualche milione di voti. Non era sufficiente ? No, non lo era. Bisognava cambiare nome, colore, bandiera, via tutto. Il Pci si proclamò nuovo, democratico, quasi liberale. Il risultato è stato che il Pci si è disgregato, autoaffondandosi e reincarnandosi in una formazione politica che anche dieci anni dopo risulta di impossibile definizione.
Qualche decina di migliaia di compagni, di quelli che sono allergici al pentimento ed hanno la perfetta coscienza di essere sempre stati, Stalin o non Stalin, dalla parte giusta, decidono di rifondare in Italia un partito comunista, e da allora cercano, in mezzo a mille difficoltà, molte delle quali autoprocurate, di rialzare una bandiera, di riprendere la lotta, di indicare una strada, di continuare a pensare e a lottare da comunisti in un modo nel quale, assente Stalin e l’Unione sovietica, le prospettive di libertà e di democrazia invece di essersi immensamente allargate – come ci era stato autorevolmente assicurato – si sono straordinariamente ristrette. Chissà perché.
9. Dieci anni dopo la caduta dell’Urss il deludente bilancio della sinistra, vittima della Hiroscima ideologica chiamata antistalinismo
E adesso, a dieci anni dalla rifondazione, ci ritroviamo in un Paese che manda in Parlamento una maggioranza di destra che comprende anche i fascisti, che affida le proprie sorti ad un pescecane come Berlusconi, con la prospettiva di una dipendenza dagli Usa che neppure il più nefando dei democristiani avrebbe accettato, con la minaccia della liquidazione di quello che è rimasto dello Stato sociale, con una scuola pubblica che potrebbe dissanguarsi a favore della scuola privata.
Come se non bastasse, la recente esplosione di un terrorismo che minaccia di assumere proporzioni planetarie autorizza la previsione, come minimo, della militarizzazione delle relazioni internazionali, con tutti i pericoli che ne derivano per i diritti democratici. Da una parte l’imperialismo e dall’altra la disperazione ed i fanatismi di masse disorientate – e la disperazione fa da moltiplicatore del fanatismo – aprono larghi spazi al possibile reclutamento di persone che accettano di iscrivere il loro nome nell’elenco degli aspiranti suicidi, prospettiva questa evidentemente non molto peggiore della vita che fanno e che vedono fare ai loro concittadini o correligionari. Con queste e con tante altre sciagure più o meno grandi che ci minacciano, siamo costretti a prendere atto che il prossimo congresso del partito della Rifondazione comunista affronterà i gravissimi pericoli che incombono sull’Italia, sull’Europa e sul mondo maledicendo Giuseppe Stalin, cancellandolo definitivamente dalla storia dei comunisti e del movimento operaio, dopo di che, si deve supporre, la destra fascista e l’imperialismo saranno più facilmente sconfitti.
Sembrerebbe una boutade ma non lo è, perché c’è una logica in tutto questo. L’antistalinismo è sempre stato l’anticamera dell’anticomunismo, un passaggio obbligato per andare dall’altra parte, come aveva previsto con stupefacente lungimiranza già nel 1956 il compagno Concetto Marchesi. Oggi un virologo potrebbe ricordare che, nello stesso modo, la sieropositività è quasi sempre l’anticamera dell’Aids conclamato.
Non si è mai accordata la dovuta attenzione (e la ragione è evidente) a questo nodo, a questo passaggio dall’antistalinismo all’anticomunismo, che è un percorso quasi automatico, a volte neppure consapevole, a volte vissuto come ricerca della via di uscita, come soluzione dei problemi, in realtà come fuga da se stessi.
Ed il quadro dei risultati, una volta fatta la professione di antistalinismo da parte di comunisti, è davanti agli occhi di tutti, ma bisognerebbe che quegli occhi volessero vedere. Già i predecessori di Occhetto e di D’Alema avevano recitato le loro malinconiche abiure, che non sono state sufficienti a salvare il partito ma addirittura ne hanno abbreviato la vita. Ai due compari suddetti non rimase che affrettare le pratiche per la messa in liquidazione.
Che sia un caso, invece, che i comunisti cinesi, vietnamiti, cubani, che non hanno mai accettato l’antistalinismo, pur criticando anche aspramente alcuni aspetti dell’agire politico di Stalin, siano ancora al potere ?
10. Stalinismo e socialismo reale: possiamo discuterne, studiare e imparare insieme senza reciproche scomuniche ?
Naturalmente chi legge queste pagine de l’Ernesto immagina che i tre compagni che firmano si definiscano stalinisti. Non è così. Pensiamo si tratti di una etichetta mistificatoria, che pur non ci offende in quanto conosciamo insulti molto peggiori. Noi siamo dei comunisti consapevoli che la storia vada studiata e capita, non rinnegata, non falsata, non manipolata, soprattutto non fuggita al grido di “noi non c’entriamo, la colpa è di Stalin”. Solo i codardi e gli stupidi fanno questo. Ma diremmo che c’è ancora di più. Noi siamo fra quelli che, in Rifondazione, hanno sempre insistito, invano, perché fosse condotta una rilettura anche molto critica, e se necessario anche impietosa, non soltanto del periodo staliniano ma di tutta l’esperienza sovietica. Compito difficile ed arduo che non potrà essere condotto se non si mobilitano decine e forse centinaia di studiosi e di ricercatori, italiani e non, per la preparazione dei documenti sui quali discutere, sulla esperienza sovietica e su quella del Pci. Compagni, se non facciamo chiarezza sulle cause della nostra storica sconfitta che cosa possiamo rifondare? Adesso ci è molto chiaro perché non si è mai voluto impostare alcuna ricerca in proposito. Perché si ritiene che non ci sia nulla da studiare, ma soltanto tutto da buttare. È più facile dare la colpa a Stalin che cercare di capire.
E poi, compagni, perché questa libidine – a mezzo secolo dalla morte di Stalin – di rimettersi in ginocchio e di ridomandare perdono dei suoi e nostri misfatti veri o presunti, quando nel frattempo l’avversario ha fatto scorrere fiumi di sangue in tutto il mondo per difendere ed allargare il proprio dominio? L’avversario quando ci chiederà scusa ?
Ancora una volta, molto discretamente, molto umilmente, chiediamo di ritornare a studiare la storia. Qualcuno ha mai sentito di un intellettuale cattolico (l’esempio è di metodo, non di merito) che, sfavorevolmente colpito, leggendo la storia della Chiesa, dalle vicende di Alessandro VI, papa Borgia, abbia scritto al papa una lettera così concepita : “Santo padre, ho appreso con raccapriccio della vita e delle opere di Alessandro VI e mi meraviglio che santa madre chiesa non abbia mai detto nulla in proposito. Questo silenzio non è tollerabile. Esigo una dichiarazione in proposito, anche se molto tardiva, nella quale si riconosca che papa Borgia è stato un ribaldo, nepotista, simoniaco, ladro, bugiardo, puttaniere ed anche colpevole di incesto nei confronti della figlia Lucrezia. Se santa madre chiesa non farà professione di antiborgismo non ci sarà futuro per il mondo cattolico”. Ed il paragone non suoni blasfemo, dovendosi ritenere il romano pontefice l’equivalente del segretario generale dell’internazionale cattolica.
A qualcuno il paragone non sembra proponibile ? Facciamone un altro. Si è mai sentito di un cadetto di West Point che minacci di dare le dimissioni dall’esercito degli Stati Uniti se il presidente non dichiarerà i governi statunitensi del secolo XIX colpevoli di genocidio nei confronti delle Nazioni indiane? E si è trattato di milioni di Indigeni massacrati indiscriminatamente. Se anche questo esempio non fosse sufficiente, varrebbe la pena di ricordare la storiella del peggior sordo, che è quello che non vuole sentire.
Conosciamo comunque la risposta, se risposta ci sarà. Noi, i comunisti, non siamo come gli altri, non possiamo comportarci come i nostri avversari si sono sempre comportati, noi siamo diversi. Sì, compagni, noi siamo diversi, ma la storia non lo sa. La storia non è quello che ci hanno fatto credere. La storia ignora totalmente la verità, così come è insensibile alla giustizia, così come è indifferente alla morale, così come ignora le intenzioni, quello che ci si propone di essere o di diventare. La storia è sempre e soltanto il risultato di un rapporto di forze. Vince sempre il più forte.
Quando il più forte ha vinto, è lui che decide quello che bisogna ricordare e quello che occorre dimenticare, quello che bisogna cancellare come mai esistito e quello che occorre inventare come se lo fosse stato, che stabilisce, motu proprio, dove è la verità, dove sta la giustizia, ciò che è morale e ciò che non le è.
La nostra morale deve essere una sola: bisogna sconfiggere l’avversario. Soltanto dopo potremo dimostrare che siamo diversi.
Credere che lo si debba o lo si possa dimostrare prima, rimane la più pericolosa delle illusioni. Lo aveva capito benissimo il nostro grande Bertolt Brecht che trasfigurava in poesia il suo preciso pensiero politico.
Ecco come.
Voi che sarete emersi dai gorghi / dove fummo travolti / pensate / quando parlate delle nostre debolezze / anche ai tempi bui / cui voi siete scampati. (…)
Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si potè essere gentili. / Ma voi, quando sarà venuta l’ora / che all’uomo un aiuto sia l’uomo, / pensate a noi con indulgenza.
Bertolt Brecht, da “A coloro che verranno” Poesie e canzoni, Einaudi, pag. 215