Sotto lo “scudo spaziale”

Ho deciso di non autorizzare lo spiegamento di un sistema nazionale di difesa anti-missile in questo momento, ha dichiarato il presidente Clinton il 1° settembre, perché abbiamo bisogno di più test contro bersagli più impegnativi prima di destinare responsabilmente le risorse della nostra nazione allo spiegamento di tale sistema.

Gli Stati Uniti non hanno dunque cancellato, ma solo procrastinato il progetto del sistema anti-missile, approvato in marzo a stragrande maggioranza prima dal Senato e quindi dal Congresso. Esso passa nelle mani della prossima amministrazione, le cui intenzioni sono state preannunciate dai due candidati alla presidenza: il repubblicano Bush si è espresso decisamente a favore del sistema anti-missile, mentre il democratico Al Gore, in apparenza più prudente, ha detto che si atterrà alle valutazioni del Pentagono (già dichiaratosi a favore del progetto indipendentemente dalla riuscita dei primi test). Ciò che si sta discutendo a Washington non è se realizzare o no un sistema anti-missile, ma come realizzarlo.

Sulla decisione di Clinton di passare il testimone al prossimo presidente ha influito non solo il fallimento dell’ultimo test quando, l’8 luglio, un missile anti-missile lanciato dalle Isole Marshall nel Pacifico ha mancato di circa 100 metri il bersaglio (una falsa testata nucleare portata nello spazio da un missile lanciato da una base californiana distante circa 7.000 km.). Clinton non ha potuto decidere perché sono in ballo più progetti, presentati dalle maggiori industrie aerospaziali che si disputano, tramite le rispettive lobbies, contratti per un valore iniziale di 60 miliardi di dollari.

Sono infatti in fase di sperimentazione, oltre al sistema nazionale di difesa anti-missile, diversi sistemi detti “di teatro”, progettati per essere impiegati in teatri bellici regionali come il Golfo persico o i Balcani. Tali sistemi – Theater High-Altitude Area Defense (Thaad), Patriot Advanced Capability-3, Navy Theater wide and Navy Area Defense e altri – si basano su intercettori che, lanciati da navi o rampe mobili, dovrebbero essere in grado di distruggere missili di corto e medio raggio nella fase mediana della loro traiettoria o in quella terminale. Lo scorso giugno, nel poligono di White Sands nel New Mexico, un missile Thaad è riuscito a colpire un missile a medio raggio nell’alta atmosfera. A detta degli esperti, tali sistemi potrebbero essere potenziati per coprire aree più vaste sino all’intero territorio statunitense.

Si aggiungono a questi altri progetti basati su tecnologie laser. L’Airborne Laser, sviluppato dall’aeronautica, consiste in un’arma che, installata su un Boeing 747 modificato, dovrebbe essere in grado di distruggere con un raggio laser i missili avversari nella fase di lancio. Il sistema, del costo iniziale di 1,6 miliardi di dollari, dovrebbe essere sperimentato nel 2003 e divenire operativo nel 2009 su almeno sette aerei. Sempre secondo gli esperti, esso potrebbe essere usato anche come componente del sistema anti-missile a protezione del territorio statunitense. Si sta allo stesso tempo lavorando a un programma (del costo iniziale di 3 miliardi di dollari) che prevede di mettere in orbita nello spazio un’arma laser anti-missile, il cui primo test dovrebbe avvenire nel 2013.

L’intento di tali programmi è chiaro: se gli Stati Uniti riusciranno a realizzare un sistema (o più sistemi combinati) in grado di intercettare almeno in parte i missili avversari, essi accresceranno non solo le proprie capacità difensive ma il proprio potenziale offensivo. Lo “scudo spaziale” permetterebbe loro, infatti, di usare per primi la spada nucleare, ossia di lanciare un “first strike” (primo colpo) missilistico, fidando sulla capacità dello “scudo” di neutralizzare o attenuare gli effetti di uno scoordinato colpo di rappresaglia. E’ per questo che il Trattato Abm, il trattato sui missili anti-balistici stipulato nel 1972 da Stati Uniti e Unione Sovietica, proibisce lo spiegamento di tale sistema.

Washington continua a premere sul governo russo, con strumenti non solo politici ma economici, perché accetti un emendamento del Trattato Abm tale da permettere agli Stati Uniti di costruire lo “scudo spaziale”. Ciò ha arrestato l’applicazione dello Start II, il trattato concluso nel 1993 dai presidenti Bush e Yeltsin, che ridurrebbe il numero delle testate nucleari strategiche (con gittata superiore a 5.500 km) a 3.000-3.500 per parte. Nonostante sia stato ratificato dal parlamento russo lo scorso aprile, il trattato è ancora bloccato dal senato statunitense, che ne condiziona la ratifica all’emendamento del Trattato Abm.

Stati Uniti e Russia continuano così a disporre di circa 6.000 testate nucleari operative, cioè pronte al lancio, per parte (6.750 gli Usa, 5.426 la Russia, secondo i dati della Federazione degli scienziati americani), più almeno altre 33.000 complessive conservate nei depositi. Per tipo di armamenti sono nettamente in vantaggio gli Usa. La maggior parte delle loro testate è dislocata sui sottomarini nucleari (3.456) e sui bombardieri strategici (1.300) ed è quindi meno vulnerabile e più flessibile. La maggior parte delle testate nucleari russe (3.590) è invece dislocata su missili balistici con base a terra ed è quindi più vulnerabile e meno flessibile. Si aggiunge a ciò il fatto che gli Stati Uniti hanno continuato ad ammodernare i loro armamenti nucleari, distanziando sempre più la Russia.

Contemporaneamente, dopo che è stato firmato lo Start II, il Pentagono ha aumentato la propria target list – la lista degli obiettivi su cui sono puntate le armi nucleari strategiche statunitensi – da 2.500 nel 1995 a 3.000 nel 2000. Come documenta il Center for Defense Information di Washington, 2.260 di questi obiettivi (definiti “vitali”) si trovano in Russia: sono 1.100 installazioni militari nucleari e 500 convenzionali, 160 centri di direzione e 500 impianti industriali. Nella target list è stata reinserita dopo vent’anni, nel 1999, anche la Cina.

Ricevuto l’ordine, bastano 2 minuti per lanciare i missili intercontinentali con base a terra (Minuteman III e Peace keeper) e 15 minuti per lanciare i missili Trident imbarcati sui sottomarini. Lo stesso può fare la Russia. Ciò significa che in ogni momento possono essere lanciati migliaia di missili, le cui testate nucleari possono raggiungere gli obiettivi nel giro di mezzora.

Il progetto statunitense di realizzare un sistema nazionale di difesa anti-missile, integrato da sistemi “di teatro”, ha in tal modo avuto l’effetto di bloccare la riduzione degli armamenti nucleari statunitensi e russi, incoraggiando anche gli altri paesi nucleari a conservare e potenziare i propri arsenali. Si calcola che circa 13.500 delle 35.000 armi nucleari – possedute, oltre che da Stati Uniti e Russia, da Francia, Cina, Gran Bretagna, Israele, India e Pakistan – siano operative, ossia pronte ad essere lanciate da diversi vettori: sottomarini, bombardieri e missili balistici con base a terra. Nonostante la fine della guerra fredda, non è dunque scomparsa la minaccia nucleare: 35.000 armi nucleari – con una potenza complessiva equivalente a centinaia di migliaia di bombe del tipo di quella che nel 1945 distrusse Hiroshima – sono in grado di cancellare l’intera specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra.

Ma gli scopi che gli Stati Uniti perseguono con il progetto dello “scudo spaziale” non sono solo militari. Il progetto si inserisce infatti in un programma di più vasto respiro, attraverso cui gli Stati Uniti (come afferma il rapporto dello Us Space Command, Vision for 2020) intendono acquisire al più presto “la capacità di dominare lo spazio”. Ciò significa, specifica il rapporto, avere “la capacità di assicurarsi l’accesso allo spazio, così da potervi operare liberamente, e allo stesso tempo la capacità di interdire ad altri il suo uso”.

Vi sono attualmente in orbita nello spazio – rilevano gli strateghi del Pentagono – circa 550 satelliti di una trentina di paesi, di cui metà statunitensi. Questi ultimi sono, per la metà, satelliti commerciali. La spesa mondiale per l’uso commerciale dello spazio sta crescendo del 20 per cento annuo: saranno lanciati in orbita, nei prossimi cinque anni, altri 1000-1500 satelliti per un valore complessivo di 500 miliardi di dollari. Tutto ciò fa prevedere che il fatturato delle attività spaziali, dopo aver superato nel 2000 i 120 miliardi di dollari (con un aumento del 57 per cento rispetto al 1996), continuerà a crescere. La rete di telecomunicazioni satellitari svolge infatti un ruolo di crescente importanza nel processo di globalizzazione economica.

La “capacità di dominare lo spazio”, di cui parla lo Us Space Command, riguarda dunque la sfera non solo militare ma anche civile. Lo conferma il fatto che, tra i programmi statunitensi per il “controllo dello spazio”, vi è quello di poter “danneggiare o distruggere satelliti di altri, sia nazionali che commerciali” (Airforce, February 2000) se si sospetta che essi possano essere usati per raccogliere informazioni contro la sicurezza statunitense.

Il “controllo dello spazio”, per il quale il governo statunitense sta spendendo attualmente oltre 30 miliardi di dollari annui, viene dunque visto a Washin gton come mezzo per dominare non solo sul piano militare ma su quello complessivo, in primo luogo nei settori dell’economia e dell’informazione.