Vera e profonda è la crisi dei Ds, vissuta con grande angoscia dal suo gruppo dirigente che sente incombere dopo gli insuccessi elettorali alle europee e alle regionali e il naufragio del referendum sul maggioritario, nuove e più pesanti sconfitte che, tutte insieme, possono provocare una disfatta di proporzioni gigantesche.
I Ds stanno vivendo dunque una crisi – il termine è abusato ma stavolta occorre necessariamente farvi ricorso – che prima di essere politica e strategica è d’identità. Il partito sta correndo il pericolo di implodere e pur se questo dramma collettivo riguarda prevalentemente la sinistra di governo deve suscitare grande preoccupazione anche per chi milita nella sinistra antagonista, perché non è scontato, non è automatico che dalla crisi dei Ds si avvantaggino le forze anticapitaliste, in particolare il Prc. Illudersi del contrario è un modo schematico di rapportarsi alla loro crisi, si commetterebbe un errore strategico esiziale per le sorti del Paese e del suo sistema democratico.
L’ottantanove è molto distante, il decennio trascorso in termini politici è un’intera fase. Con i referendum del 21 maggio si volta, bruscamente, pagina. Appare oggi fuori luogo dibattere sulla valutazione di considerare il sistema elettorale maggioritario un valore politico in sé, il fine ultimo di un agire teso a realizzare una democrazia matura e compiuta. Questo approccio alla politica ha determinato deserti culturali e tanta confusione ideologica – il termine è forte ma non improprio -, appunto una crisi di identità di gran parte della sinistra con il rischio, di fronte ad una incalzante offensiva neoliberista, di una sua dissoluzione simile, per alcuni aspetti, a quella del PSI e della CGIL con l’avvento del fascismo, del suo farsi Stato dopo aver superato il drammatico passaggio del delitto Matteotti.
Con il 21 maggio si è bruscamente interrotto uno sterile approccio alla politica. Ciò è positivo e conferma – se mai occorresse dimostrarlo – che non eravamo alla fine della storia con il crollo del Muro di Berlino, anzi che la storia continua. Cosicché tutto ciò che era stato pazientemente rimosso e aggirato, nel corso di un decennio, dal gruppo dirigente dei Ds, è tornato prepotentemente a galla: i grandi temi politici e ideali della sinistra italiana, la necessità di misurarsi con la sua storia, tutt’altro che ininfluente, con la sua cultura, tutt’altro che marginale. Di interrogarsi, insomma, sui processi reali nell’era dell’imperialismo maturo caratterizzato dalla globalizzazione dell’economia.
Sono quindi politicamente lontani i tempi – anche se sono durati fino all’altro ieri – in cui si giustificavano tutte le scelte, anche quelle più discutibili, con l’assunto che la sinistra riformista (moderata) fosse centrale per la formazione di coalizioni di centro- sinistra in grado di governare il processo di modernizzazione (sarebbe corretto aggiungere capitalistico) del Paese. E si portava come prova tangibile dell’assunto il fatto che, per la prima volta nella storia d’Italia, un esponente Ds-Pds-Pci, D’Alema, fosse alla guida del governo. Su questo assunto i Ds avevano svolto un congresso, quello del Lingotto con lo slogan I care; un congresso in cui si era celebrata la nascita di un nuovo partito, dopo il partito nuovo pidiessino. Un partito che rifiutava ogni richiamo all’ex o al post comunista, che guardava oltre l’orizzonte della socialdemocrazia europea per caratterizzarsi sempre più come un partito della sinistra liberale, per americanizzare se stesso e il sistema politico italiano.
Questo partito nuovo celebrato meno di un anno fa a Torino, ha dovuto scontrarsi con la dura realtà, con i processi politici concreti che non aveva né previsto né preso in considerazione. È andato così impreparato incontro a una serie di drammatiche sconfitte – come il vecchio Psi degli anni venti (i ricorsi alla storia rendono più comprensibili gli accadimenti anche se si rischia qualche schematismo) – e oggi appare un pugile suonato, un gigante dai piedi di argilla.
Si è chiusa una fase: vinti e vincitori a sinistra
Dopo il voto del 21 maggio tutti a sinistra concordano che si è conclusa una fase, ma non per questo se né fa derivare la stessa analisi e si indicano le stesse intenzioni e prospettive. Per una ragione evidente: il ciclo che si è chiuso comporta che ci siano, anche a sinistra, vinti e vincitori; c’è chi ha perso perché è stata sconfitta la sua strategia di mitizzare come valore politico intrinseco il maggioritario e c’è chi ha vinto perché si è opposto tenacemente a questo disegno, resistendo anche quando altri si allineavano, come Verdi e PdCI, alla volontà dei referendari di americanizzare la politica. Proprio perché la sinistra non ha svolto unitariamente una battaglia contro il maggioritario non vi è oggi un ripensamento comune sul da farsi. Vi è un’esigenza oggettiva che nessuno misconosce, ma non ci sono ancora le condizioni soggettive per coinvolgerla, nel suo insieme, ad una riflessione che rimuova le cause che hanno pesantemente appannato le sue ragioni fondative.
Il dibattito procede su binari paralleli con il risultato che alla fine sarà tutta la sinistra a perdere, a subire probabilmente una dura sconfitta da parte del centro-destra, anche se ci saranno perdite e incassi differenziati.
In assenza di una prospettiva da tutti condivisa il confronto, quasi sempre, gira a vuoto. È un pestar nell’acqua e nonostante non manchi da parte di molti la buona volontà e l’impegno non si registrano fatti politici nuovi. La sensazione che se ne ricava è che predomina la rassegnazione alla sconfitta, di essere insomma nella difficile condizione di dover subire l’iniziativa molto determinata del centro-destra.
Diviene così luogo comune l’idea che l’impotenza della sinistra sia causata dalla sua vocazione a dividersi, a smembrarsi in continuazione in tante formazioni. Da qui il passo per fughe in avanti e astrazioni è breve. Non si ragiona di politica e di processi, ma attorno a proposte di natura organizzative o legate al sistema elettorale. Perciò, invece di confrontarsi sulla sostanza delle cose, di affrontare le questioni di fondo, si discute di forme organizzative, come se per unire tutta la sinistra o almeno per esemplificarla in due distinte formazioni, quella di governo e quella di opposizione, fosse sufficiente predisporre un partito contenitore. Non ci si accorge, ragionando in questo modo, di commettere lo stesso errore di impostazione dei referendari che si illudevano di poter costruire, tramite il collante del maggioritario, un partito unico della sinistra (o addirittura del centro-sinistra) avendo nella testa il modello inglese, ma prescindendo dal “sistema Italia”. Ma come il maggioritario non può essere considerato un valore politico in sé, anche l’idea di unificare organizzativamente la sinistra o parte di essa (cosa diversa è invece la necessità di ricercare convergenze programmatiche e intese su progetti di trasformazione) non determina in sé un valore politico, non è una condizione sufficiente per dare più forza appunto a tutta la sinistra.
Una baraonda di proposte organizzative
Si continua così a condurre una discussione astrusa non entrando nel merito delle questioni; non si punta, tenendo conto dei processi reali, a dare concretezza all’iniziativa politica, a riproporre lotte efficaci di massa.
Tutte le proposte avanzate in questi mesi hanno questo difetto di astrazione, financo a scambiare il rapporto tra il mezzo, cioè la forma di aggregazione, con il fine, cioè quale linea per quale strategia.
Si assiste ad una baraonda di proposte che hanno suscitato una vivace discussione, prese di posizioni sulla stampa e addirittura un confronto negli organismi di partito, senza che alla fine nulla sia sostanzialmente mutato. Come quella di Pintor di una nuova formazione della sinistra anticapitalistica che comprenda e superi il Prc, ovviamente non condivisa dal partito interessato, ma neppure dall’Associazione di Tortorella; come quella di Diliberto di una confederazione tra Ds, PdCI, Verdi (i quali però hanno fatto sapere che sono per il “Polo Ecologista”) e Prc, lasciando la porta aperta ai socialisti, naturalmente bocciata dalla totalità dei partiti che avrebbero dovuto farne parte; come quella di Veltroni di una federazione della sinistra riformista che abbracci i democratici e i socialisti fino al PdCI, ovviamente Prc escluso; come quella di Boselli che avanza a sua volta a Veltroni la proposta di sciogliere i Ds per dar vita insieme allo Sdi ad un’aggregazione socialdemocratica; o quella infine di Tortorella che vorrebbe rifondare la sinistra con un progetto che interloquisca con ogni sua componente, ma in questo modo, proprio perché non si indicano soluzioni concrete per una ricomposizione di natura strategica, appare evidente tutta la velleità del progetto stesso.
Occorre invece una discussione vera per uscire dalle attuali difficoltà, ma con molta probabilità i tempi di questo confronto non necessariamente corrisponderanno, purtroppo, ai tempi della preparazione delle elezioni politiche. Anzi, l’impressione è che il percorso dei prossimi mesi sia, in buona parte, una strada già tracciata e la sconfitta della sinistra segnata perciò con mesi di anticipo.
Questo pessimismo è dettato dalla constatazione che sia difficile trovare un’intesa tra la sinistra di governo e quella di opposizione, ma anche dalla considerazione che differenze strategiche permangono sia nell’ambito della prima che nella seconda. Tutto ciò complica ancora di più la situazione.
Sinistra moderata e sinistra antagonista
Intanto è più corretta la distinzione tra sinistra moderata e sinistra antagonista o critica perché vi sono componenti della sinistra collocate nel governo che sarebbe sbagliato definire moderate. Ad esempio, la sinistra Ds, i Verdi e il PdCI. Non c’è ombra di dubbio che queste componenti siano subalterne alla sinistra moderata, incapaci pertanto di condurre un’autonoma iniziativa. In particolare, molto dura deve essere la polemica con il PdCI che con la scissione dal Prc voleva mettere in discussione il progetto di costruzione di un partito comunista di massa; come alla sinistra Ds deve essere continuamente rammentata la natura spesso politicistica delle sue posizioni e l’inclinazione ad un’attività tesa soprattutto ad alimentare, più che un’opposizione alle scelte moderate del suo partito, un ceto politico, senz’altro su posizioni più avanzate, ma pur sempre ceto politico.
Grande è inoltre la responsabilità di queste componenti nella fase finale del governo Prodi. Avrebbero potuto svolgere un ruolo propositivo e attivo per favorire una svolta riformatrice del centro-sinistra. Invece si sono rese corresponsabili della rottura di quella esperienza di governo fino ad avvallare e sostenere operazione trasformistiche che hanno spostato l’asse strategico del centro-sinistra verso il centro con l’ingresso nella maggioranza e nell’esecutivo di Cossiga e Mastella. Come non vanno rimosse le loro posizioni contraddittorie, sostanzialmente di accettazione della guerra della Nato in Serbia, resa possibile anche tramite il sostegno politico e militare del governo D’Alema. Ma sarebbe errato, nonostante queste loro enormi responsabilità, definirle parti integranti della sinistra moderata.
Il processo della costruzione della sinistra sindacale nella CGIL lo conferma. Per la prima volta pezzi della sinistra di governo e pezzi della sinistra di opposizione tentano di avviare un percorso comune. La critica, ad esempio, al metodo della concertazione è condivisa dall’insieme della sinistra antagonista, anche di quella collocata al governo. Caso mai il limite di questo processo è che esso si muove troppo per vie interne e non realizza momenti significativi di discontinuità con la costruzione di movimenti e lotte di opposizione al governo Amato. Ma questo è un problema che non riguarda solo la sinistra Ds e il PdCI, ma anche Rifondazione comunista e il gruppo attorno alla rivista “Il Manifesto”.
Il fallimento della strategia della democrazia dell’alternanza
In presenza dunque di innumerevoli distinzioni e differenziazioni l’unità della sinistra si costruisce solo con una proposta programmatica e politica che abbia un respiro strategico.
Il principale snodo di questo confronto passa, ovviamente, nei Ds. Il futuro della sinistra italiana non può prescindere da come evolverà la discussione nel maggior partito della sinistra moderata. Finché si insisterà però, da parte della componente liberaldemocratica, di voler costringere l’intera sinistra a indossare una camicia di forza con l’assunto che vi è un legame indissolubile tra bipolarismo e nascita del PDs-Ds il confronto resterà compresso, con il risultato che perdurerà la contrapposizione tra due modi incompatibili di intendere il ruolo della sinistra, anche di quella moderata e riformista.
È senz’altro vero che lo scioglimento del Pci e la nascita del Pds avviene sulla base della proposta strategica di Occhetto di sbloccare il sistema politico italiano attraverso la democrazia dell’alternanza. E che per realizzare questo progetto occorreva abbandonare il sistema proporzionale per adottare quello maggioritario. Deve essere altresì riconosciuta ad Occhetto che questa sua proposta strategica, sostanzialmente condivisa da Veltroni, ha avuto una reale presa egemonica e ha riscosso consensi e simpatie. Ma è pretestuoso e fuorviante insistere, dopo la batosta del 21 maggio, con l’idea che l’unico modo possibile di affermare per la sinistra riformista un ruolo di governo sia il sistema bipolare e che al di fuori di questo modello, quindi con il proporzionale, si rischia di fare solo testimonianza o tutt’al più di svolgere un ruolo subalterno.
La storia delle socialdemocrazie europee e dello stesso Pci non ci dice questo. Si costruiscono alleanze sulla base dei programmi. L’unità della sinistra si ricerca in questo modo se non si vuole fare astrazione. Del resto in Francia, dove è in vigore il maggioritario, l’unità delle sinistre non si è realizzata attraverso il sistema elettorale, bensì si è faticosamente costruita con convergenze su obiettivi come quello del lavoro e della riqualificazione e sviluppo dello stato sociale.
Proporre, come fa Veltroni, una federazione, dai democratici al PdCI, significa perseverare in modo diabolico in una scelta perdente. Veltroni è costretto a compiere un passo indietro, ad arretrare, in quanto i rapporti di forza scaturiti dal voto di maggio non sono a lui favorevoli. Ma dalla sua posizione traspare la volontà di riproporre, nel medio periodo, in un clima politico magari diverso, il modello del partito democratico. Il suo è quindi un espediente tattico teso a considerare la bocciatura popolare del maggioritario come una fastidiosa parentesi. Ciò si spiega solo con la convinzione molto radicata in Veltroni della necessità di riposizionare in modo irreversibile il partito nel solco liberaldemocratico. Il suo ragionamento non è molto distante dall’immagine della carovana evocata da Occhetto: un partito che fa della scelta di non essere un partito di massa la sua ragione d’essere. Un’aggregazione che si compone e si scompone – è questo il senso della carovana, c’è chi vi entra e c’è chi vi esce – a seconda delle esigenze tattiche del momento, in nome della democrazia dell’alternanza.
Occorre invece prendere atto del fallimento di questa strategia.
Liberaldemocratici e socialdemocratici
Il paradosso è che mentre Berlusconi ha scelto la strada di dare impulso al processo di costruzione di un robusto partito di massa, dopo la fase di movimento di Forza Italia, il maggior partito della sinistra moderata ha fatto esattamente la scelta opposta, lasciando al centro-destra la difesa del sistema dei partiti come valore fondante di una moderna democrazia. Ancora una volta un tema della sinistra (basta ricordare a proposito le straordinarie pagine di Togliatti sul sistema dei partiti di massa come parte integrante del sistema democratico sancito dalla Costituzione Repubblicana) è regalato al centro-destra e diviene un momento centrale dell’iniziativa del blocco moderato per raccogliere consensi ed intercettare una parte significativa del voto popolare.
Dunque, Forza Italia è tutt’altro che un partito di carta. È un partito di massa, profondamente radicato nella società, ideologicamente molto coeso. Ha ragione De Giovanni nello scrivere, su “L’Unità”, che gli azzurri non sono un semplice assemblaggio di moderati e la riproposizione di un pezzo consistente del vecchio sistema di potere democristiano. Forza Italia è qualcosa di più complesso. Attorno ad essa si sono saldate le due anime storiche dell’ideologia borghese italiana: il moderatismo e il sovversivismo. Un’operazione che, prima d’ora, era riuscita solo al fascismo, anche se questa volta è realizzata su un “terreno democratico”. Da queste riflessioni occorre trarne tutte le conseguenze. Il partito di Berlusconi sa praticare, proprio per queste sue peculiarità, molto bene la lotta di classe a differenza di una sinistra senza spina dorsale, che non ha gli strumenti per condurre una lotta politica efficace.
Il guasto più profondo prodotto a sinistra dalle concezioni liberaldemocratiche è la confusione politica ed ideologica financo a disarmare un po’ tutta la sinistra. Per questa via non solo si è tentato di emarginare la sinistra antagonista, che ha condotto una dura lotta di resistenza, ma anche di mettere in mora la stessa sinistra moderata di ispirazione socialdemocratica.
Questo sarà nei prossimi mesi il nodo cruciale del confronto nei Ds: o la componente socialdemocratica riuscirà a prevalere su quella liberaldemocratica, dopo un decennio di compromessi al ribasso o i Ds saranno destinati ad un inesorabile declino, con rischi di implosione, con tutte le conseguenze negative che ne deriverebbero sul sistema politico italiano.
Di fronte alla sfida della globalizzazione la sinistra moderata italiana, dominata dalle culture liberaldemocratiche, come priorità è stata in grado di proporre solo la riforma elettorale in senso maggioritario. Ciò ha comportato una cesura brusca con la storia secolare del movimento operaio. Non è vero che tutta questa storia sia stata travolta con la caduta dell’URSS e del socialismo reale. I fatti hanno dimostrato che il socialismo resta un’idea aggregativa di forze, anche diverse, in Europa. La Francia ci dice che socialisti e comunisti possono governare insieme, non in nome della stabilità ma per condurre una possibile azione di trasformazione. Si può abdicare al compito storico di superare il capitalismo, ma non per questo rinunciare alle proprie radici di partito dei lavoratori. Nella scelta di un partito democratico, sul modello americano, tutta questa storia viene elusa. Si perde così ogni contatto con la propria area sociale di riferimento, con il risultato di essere degli ex e dei post, non in senso cronologico, ma proprio come identità.
Sarebbe interessante capire quale ruolo vuole svolgere D’Alema in questo confronto che non è esemplificabile tra maggioranza e sinistra congressuale come certa stampa ha scritto; d’altronde la sinistra più che aver fatto una scelta netta di collocazione nell’alveo del socialismo e della famiglia socialista europea è influenzata dalla cultura ingraiana o da esponenti comunisti come Tortorella e Chiarante. I veri protagonisti del confronto con i liberaldemocratici sono altri: Salvi e Cofferati in primo luogo.
Sinistra radicale e sinistra comunista unite nell’obiettivo di costruire una politica per l’alternativa
Occorre a questo punto della trattazione operare un’altra distinzione. La sinistra antagonista è a sua volta articolata tra una sinistra, che per comodità, sarà chiamata di alternativa o radicale e quella comunista. Nella prima confluiscono l’insieme delle culture antagoniste non comuniste. La distinzione non è un sottile distinguo teorico, ma molto pratico. L’antagonismo di per sé non è un tratto distintivo dei soli partiti comunisti. Si può infatti essere antagonisti ma non comunisti. È storicamente dimostrato che l’antagonismo in quanto tale non realizza un’azione volta al superamento del sistema capitalistico, azione che è una prerogativa invece dell’antagonismo rivoluzionario dei comunisti, della loro capacità di mettere in relazione dialettica il momento sovrastrutturale, il soggetto rivoluzionario, con il momento strutturale, cioè il conflitto di classe. Ma questo non vuol dire che l’una e l’altra sinistra non possano collaborare; anzi proprio perché entrambe antagoniste, sia pur con una diversa priorità della centralità dei conflitti e delle contraddizioni della società capitalistica – i comunisti, come si sa, pongono come contraddizione fondamentale del capitalismo quella tra capitale-lavoro – sono molto attigue, anche se sul piano culturale e ideologico sono profondamente diverse.
Possono per questa ragione trovare un’intesa non congiunturale sui compiti dell’insieme della sinistra antagonista. E nella fase politica nuova emersa, uno dei compiti principali della sinistra antagonista è di favorire lo sviluppo di un dibattito vero nei Ds, che oggi è appena abbozzato. Di favorire, in ultima analisi, una ricollocazione socialdemocratica di quel partito, anche se ciò dovesse determinare la fuoriuscita da esso delle componenti liberaldemocratiche più agguerrite.
Ma la sinistra antagonista è divisa e oscilla tra due strategie.
La proposta di Pintor di una federazione della sinistra alternativa che superi il Prc conduce, semmai possa essere dal Prc stesso condivisa, alla costituzione, di fatto, di un terzo polo. Su questo punto è ragionevole la critica di Tortorella che considera questa proposta inopportuna per rimettere in comunicazione pezzi diversi della sinistra. Al contrario, ne accentua le divisioni politiche e strategiche.
Del resto, non è immaginabile un’alternativa politica e ideale al progetto di modernizzazione capitalista del Paese del centro-destra mettendo in campo la sola sinistra di opposizione. Attorno a questo progetto devono convergere un insieme di componenti della sinistra di governo, Verdi e PdCI prima di tutto. Per questo è necessaria un’iniziativa specifica in questa direzione. Ma tutto ciò non è sufficiente. Occorre il formarsi di un robusto e radicato partito socialdemocratico che scelga di avere come alleati l’insieme della sinistra antagonista, in primo luogo Rifondazione comunista.
Il progetto di alternativa al blocco moderato non è oggi all’ordine del giorno. È questo un processo non di breve periodo. Ma all’ordine del giorno vi è la necessità di costruire una politica per l’alternativa, che può prendere corpo solo se si concretizza una rottura nel centro-sinistra, cioè la messa in discussione, il superamento di una strategia che si è rivelata fallimentare, non solo per sconfiggere le destre ma per l’intera sinistra. È infatti fallito il tentativo di conquistare il centro dello schieramento politico e sociale attraverso una formazione (Ulivo) che muovendosi da sinistra occupasse progressivamente il centro medesimo. Non si nega la necessità del dialogo con il centro cattolico e democratico. L’accordo di desistenza del 1996 tra Ulivo e Prc aveva alla base anche questa esigenza. Del resto la sinistra italiana non è mai stata maggioranza. Non lo è stata nei decenni passati, ancor di più non può sperare di esserlo ora in una fase caratterizzata da un suo forte ridimensionamento. Pertanto, il confronto con il centro cattolico e democratico è una condizione essenziale e ineludibile per realizzare l’alternativa. Non si tratta di riproporre esperienze già fatte, ma di superare, attraverso appunto una rottura, l’attuale strategia del centro-sinistra fondata, sul piano politico, sulla democrazia dell’alternanza, e su quello sociale, su un neoliberismo temperato.
La nascita di un eventuale terzo polo, cioè quello della sinistra antagonista, a prescindere se vi sono le condizioni politiche per realizzarlo, sarebbe una scelta elitaria, piombo nelle ali per la costruzione di un ampio schieramento democratico di sinistra per l’alternativa, perché il problema vero è come liberare da questo centro-sinistra, che costituisce oggi una prigione, forze ed energie per aggregarle ad una politica di alternativa e non di inibire un processo, di strozzare con il cordone ombelicale il bambino appena nato, pur di unire forzatamente, sia anche nella forma organizzativa della federazione, un insieme di diverse esperienze minoritarie con quella più propriamente comunista. Si finirebbe così con il dar vita ad una formazione minoritaria che sarebbe la negazione di una politica unitaria per l’alternativa, che richiede, per affermarsi, capacità di governare i processi e senso tattico; in altre parole, una direzione politica complessiva, della sinistra determinata a costruire l’alternativa, forte, autorevole e riconosciuta da grandi masse, in larga parte influenzate oggi dalla sinistra moderata.
Alla proposta di Pintor vi è la variante, per alcuni aspetti ancor più minoritaria e inconsistente, della federazione di una sinistra antagonista che abbia come perno il Prc e l’insieme del mondo del volontariato, dei centri sociali, delle esperienze sindacali extraconfederali e di base, del pacifismo e delle avanguardie più combattive dell’ecologismo e del femminismo. È giusto avere con l’insieme di queste realtà un’interlocuzione forte. Occorre avere con queste componenti rapporti stretti di collaborazione per ricercare convergenze, come si è fatto ad esempio in occasione della guerra in Serbia e sulle tante iniziative e manifestazioni contro l’espansionismo politico e militare della NATO e in difesa dell’ambiente. Sarebbe però una riesumazione di un partito contenitore come DP credere che con l’insieme di queste esperienze, così diverse e frastagliate tra loro, si possa costruire un soggetto politico nuovo, addirittura un’aggregazione più ampia dello stesso Prc. Sul terreno più propriamente politico poi questa ipotesi porterebbe irrimediabilmente il Prc a fuoriuscire dalla tradizione comunista, per collocarlo su un versante protestatario e minoritario.
Il compito del Prc è quello di svolgere un ruolo ponte tra queste esperienze, presenti soprattutto nel sociale, con tutta quella sinistra interessata a costruire una politica per l’alternativa, proprio perché per sua natura e collocazione politica il Prc è la formazione più credibile ad interloquire positivamente con queste minoranze della sinistra critica e antagonista.
Innanzitutto mettere ordine a sinistra
Dall’insieme delle riflessioni fin qui svolte emerge con chiarezza il dato che non vi sono le condizioni, per l’oggi e per il domani, di riaggregare in un unico partito l’insieme della sinistra italiana, neppure di esemplificare la situazione dando vita a due formazioni: quella della sinistra moderata, quella della sinistra antagonista. Per questa ragione si parla di “sinistra plurale”.
Se effettivamente si concorda sull’analisi che si è chiusa una stagione politica allora bisogna prendere atto che un confronto produttivo a sinistra può e deve svilupparsi partendo dalla politica, dall’analisi concreta di una situazione concreta. Altre strade sono scorciatoie velleitarie non corrispondenti ai compiti della fase. Il dibattito sulle soluzioni organizzative non è di nessuna utilità. L’urgenza vera, la prima priorità, è mettere innanzitutto ordine a sinistra dopo un decennio di grande confusione politica e ideologica. Si intravede, dalle prime timide discussioni, un processo, nel medio periodo, di scomposizioni e ricomposizioni a sinistra sul tipo del processo avvenuto con l’estinzione del Pci e la nascita del Pds e del Prc, con lo scioglimento e la confluenza in quest’ultimo di Dp, con la costituzione del PdCI, la riaggregazione di una parte considerevole dell’area ingraiana-PDUP attorno a “Il Manifesto” e con la trasformazione del Pds in Ds.
Le quattro grandi famiglie della sinistra italiana
Quattro sono le grandi famiglie della sinistra italiana che hanno in Europa una rete di rapporti e di collegamenti, punti di riferimento politici ed organizzativi distinti in grado ognuno di dare una certa visione internazionale dei problemi. Queste quattro identità non vanno smarrite, non possono essere soppresse. La loro autonomia politica, culturale e organizzativa non deve essere considerata una debolezza della sinistra, ma un valore aggiunto per la costruzione dell’alternativa.
La prima famiglia è quella liberaldemocratica che ha nel Paese solide radici culturali, sia sul versante democratico che su quello liberale. La seconda famiglia è quella socialdemocratica e anche questa è profondamente intrecciata con la storia del movimento operaio il quale a sua volta è parte determinante della storia dell’Italia moderna. La terza famiglia è rappresentata dall’insieme delle culture antagoniste non comuniste e abbraccia un mondo variegato e composito. Probabilmente questa famiglia, come quella liberaldemocratica, più che dar vita a un partito di massa, strutturato e organizzato, è più incline a formazioni leggere, al cosiddetto sistema a rete con momenti di coordinamento centrali tramite forme federative che lasciano ad ogni singolo soggetto una sua autonomia di iniziativa politica. La quarta famiglia è quella comunista, che ha anch’essa una storia gloriosa nel nostro Paese, che si ispira al marxismo, specificatamente al leninismo di Gramsci e di Togliatti.
Un processo di ricomposizione dunque non di breve periodo, su basi politiche-culturali-ideologiche omogenee di ognuna delle quattro componenti; e in autonomia tutte potranno concorrere (alle sole condizioni di bandire dalla discussione ogni riferimento alla “categoria del tradimento” e dall’agire politico la prassi settaria di considerare chi ci è più vicino come il più pericoloso dei nemici) a costruire una politica per l’alternativa. Solo su queste basi è possibile realizzare una vera unità della sinistra, senza per questo rinunciare alla legittima competizione per l’egemonia. Insomma, una propensione unitaria sulle cose che è possibile fare insieme, avendo la consapevolezza, per dirla con Amendola, che chi ha più filo tessa.
Dare più vigore al processo della rifondazione comunista
Allora sarebbe opportuno, invece di perdersi in tante astrazioni, di porsi la questione strategica, come ha fatto il Prc, della costruzione del proprio partito di appartenenza; cioè della costituzione di un partito democratico, di un robusto partito socialdemocratico e di aggregare la sinistra alternativa e radicale sparsa oggi in tanti piccoli rivoli.
Al Prc Ingrao propone di mettersi in discussione aprendosi alle altre, diverse, minoranze della sinistra antagonista. Occorre fare esattamente il contrario. Avere cioè il coraggio di rilanciare con maggiore impegno e determinazione il processo rifondativo di un partito comunista dalle caratteristiche di massa. Per questo è necessario considerare il lavoro di costruzione del partito come questione centrale, dirimente. Un partito con una forte identità comunista, che faccia della sua autonomia un valore strategico. Non si tratta di non aprirsi agli altri, di non interloquire con tutte le altre componenti della sinistra, di non avere una propensione unitaria. Anzi, uno dei tratti distintivi del Prc, come ha confermato nello stabilire accordi elettorali alle regionali, è la ricerca all’unità che lo può porre al centro delle relazioni e del confronto a sinistra. Infatti, in quanto portatore della fondamentale contraddizione capitale-lavoro è in grado sia di dialogare, perché parla il suo stesso linguaggio, con la famiglia socialdemocratica e sia di realizzare, in quanto partito che si nutre della lotta di classe, convergenze forti con l’insieme della sinistra critica e radicale.
Il Prc non è quindi una formazione transitoria che possa essere superata o compresa in una federazione della sinistra antagonista. Il Prc ha un progetto, una linea, una strategia. È nato per rifondare un partito comunista di massa. Nessuno gli chieda perciò di cambiarsi i connotati, di modificare la sua natura, di mettere in discussione la ragione stessa per cui si è costituito.
La disponibilità al confronto con tutta la sinistra, in particolare con quella ad esso più vicina, è grande perché si è consapevoli delle enormi difficoltà. Con grande senso di responsabilità si è per continuare e consolidare il dialogo; cercare momenti più ravvicinati e intensi di comunicazione, per ragionare e riflettere insieme, ma soprattutto per sviluppare un’adeguata azione politica per costruire le condizioni dell’alternativa. Ma il Prc non è disponibile a cedere neppure una parte di quote della sua sovranità a chicchessia. Per difendere la sua autonomia ha subito una drammatica scissione, quella del PdCI, e ha rischiato l’emarginazione politica. Ha superato queste terribili prove contando esclusivamente sulle proprie forze; ha confermato che il processo rifondativo avviato a Rimini è tutt’altro che esaurito. Allora ci si confronti, anche aspramente con il Prc, ma i suoi critici rispettino – se sono per ricercare sul serio l’unità – la sua identità, anche se non la condividono perché, piaccia o no a tutti i suoi detrattori il Prc è un partito e un partito è un partito.
Gli scenari italiani oltre il governo Amato
Certamente l’avvio di un processo di scomposizione e ricomposizione della sinistra potrà subire accelerazioni o brusche frenate. Il diverso giudizio sul governo Amato è sicuramente un impedimento al dispiegarsi di questo processo. Nessun fraintendimento: netta e forte deve continuare ad essere l’opposizione del Prc ad un governo che sposta ulteriormente e sensibilmente verso una deriva neocentrista l’asse strategico del centro-sinistra. E, con molta probabilità, la scelta della sinistra moderata di sostenerlo determinerà altre rotture. Ma occorre guardare agli scenari prossimi futuri. Non c’è da essere molto ottimisti sulla capacità dei Ds e dei loro alleati di tentare la riscossa dopo i pesanti errori che hanno aperto la via della vittoria a Berlusconi.
Questo sembra essere, alla fin fine, il punto di approdo di un decennio. Ma se lo scenario sarà questo la sinistra avrà dinnanzi a sé due possibilità: o andare verso una disfatta di proporzioni enormi favorendo in tal modo il consolidamento politico e strategico del centro-destra, che inevitabilmente si prolungherà oltre una legislatura, o sarà costretta a rimboccarsi le maniche qualificando la sua opposizione al blocco di potere neoliberista. In particolare su tre questioni fortemente intrecciate tra loro: quale opposizione alla politica economica e sociale del centro-destra; quale opposizione per contrastare il tipo di Stato che si intende ridisegnare con l’intesa sulla devolution tra Berlusconi e Bossi; infine, come atteggiarsi al progetto di riorganizzazione del centro cattolico e democratico che si svilupperà in modo autonomo da quello della riorganizzazione della sinistra.
Dal tipo di opposizione che si condurrà dipenderà buona parte del futuro della sinistra italiana. In queste considerazioni non vi è sottovalutazione del durissimo scontro alle elezioni politiche con il centro-destra. Tutt’altro. Infatti, c’è modo e modo di arrivare allo scontro e c’è modo e modo di impostare la battaglia, pur avendo la consapevolezza di perderla. Proprio per questo i prossimi mesi saranno decisivi per le prospettive della sinistra perché si verificherà sul campo, a prescindere dall’esito elettorale, se sarà in grado di lanciare al centro-destra una sfida per una pronta rivincita, per non trasformare la vittoria di Berlusconi in un consolidamento strategico di fase.