La situazione nel campo delle sinistre è cambiata e sta cambiando. Questa constatazione, semplice, ma densa di possibili conseguenze, può anche essere fatta derivare banalmente dall’esame degli esiti elettorali registrati nelle europee di un anno fa, nelle più recenti regionali nonché nella prova referendaria del maggio scorso. Naturalmente si tratta di scadenze ben diverse tra loro, ma di esse può essere rintracciato un unico negativo percorso: quello di una sconfitta che si è andata delineando con sempre maggiore chiarezza della politica della sinistra moderata. Questo esito ha però ragioni più consistenti e di fondo di quanto gli stessi risultati elettorali non dicano. Il quadro che ci appare oggi è quello di una netta sconfitta del centrosinistra, sia nel campo dei disegni politici che in quello della ricerca di egemonia nella società. Si è dimostrata fallimentare l’idea della costruzione di una formazione, il centrosinistra, la cui forza principale era quella dei Ds, che muovendo da sinistra e scolorendo in modo sempre più accelerato i contenuti della medesima, si proponeva la conquista del centro, stabilendo le regole formali di un’alternanza con il centrodestra e nello stesso tempo volendo porre le basi per una vittoria duratura in campo politico contro la stessa. Così si spiega l’infatuazione per il sistema elettorale maggioritario, che tuttora perdura nella mente dei suoi propugnatori, malgrado il venire meno delle condizioni politiche di riferimento e la cattiva prova data di sé in altri paesi, se si dovessero prendere sul serio le motivazioni (la libera scelta dei cittadini, la loro convinta partecipazione, la stabilità dei governi, la trasparenza dei processi decisionali, la fine dei fenomeni di corruzione e via dicendo…) che vengono adottate per sostenere la necessità della sua introduzione. Questa insistenza, ovvero questa cieca coazione a ripetere, sembra davvero riattualizzare il modello del soldato giapponese che nell’isola sperduta del Pacifico continua la guerra perduta e cessata da trent’anni.
Allo stesso tempo, anzi proprio questo costituisce la causa più profonda del primo insuccesso, è venuto completamente meno un disegno di egemonia sulla società. Questo si basava sulla convinzione che il centrosinistra avesse più capacità e fantasia modernizzatrice, per cavalcare la rivoluzione capitalistica in atto, potenziandone, anche in modo agiografico, gli elementi innovatori, depurandoli e sottraendoli da qualunque giudizio improntato a un segno di classe, attuando quindi per una via prevalentemente inclusiva il riassorbimento dei contrasti, e accettando nel contempo la esclusione e la completa marginalizzazione, con conseguente repressione, degli irriducibili a questo processo. In questo modo il centrosinistra voleva dimostrare alle classi dirigenti di essere la forza più politicamente adatta a portare avanti il loro progetto, arricchendolo persino di consapevolezza tattica e di effettivo consenso sociale. E quanto dichiarò Agnelli, e cioè che la sinistra al governo poteva fare “certe cose” meglio della destra, sembrava dare ragione a questo progetto e inclinare la propensione delle classi dirigenti verso il centrosinistra stesso. Naturalmente in questo processo i Ds portavano il peso maggiore, sia nel senso della assunzione delle responsabilità, conseguente alla loro consistenza politico-elettorale, sia per la presenza nel loro quadro di riferimento delle contraddizioni più gravi. In particolare essi scontavano la persistenza di un riferente sociale che non poteva essere integralmente piegato a questo disegno e poteva essere così fonte di contraddizione continua con esso. A questo problema i Ds hanno cercato di rispondere con lo stesso congresso di Torino, nel quale hanno scelto nettamente il campo della sinistra liberale, ossia di fuoriuscire non dagli errori o dagli errori della sinistra e del comunismo nella sua fase natura, ma dalla storia del movimento operaio, socialista e comunista dei suoi esordi. Nel migliore dei casi il dibattito di Torino poteva così essere interpretato come la riedizione del tutto anacronistica del contrasto tra il liberismo puro e il liberalismo sociale di inizio di secolo. In altre parole l’esistenza di contraddizioni tra la forza politica dei Ds e settori consistenti, o comunque non trascurabili, del suo referente sociale, veniva così elusa, senza risolverle, tramite un ulteriore slittamento di campo della forza politica stessa, che non poteva che incrementare la disillusione di ampi settori popolari, manifestatasi anche in un sempre crescente astensionismo elettorale. La conseguenza, ed è straordinario constatare la velocità della realizzazione pratica di questi processi, è stata però l’indebolimento della forza politica dei Ds e dei suoi progetti. Sia l’ipotesi del Partito del premier, prodotto terminale della crisi accettata come irreversibile del partito di massa, che quella di un partito coalizionale, la cui vita dipende cioè interamente dalla capacità di produrre attorno a sé alleanze di governo, sono risultate se non immediatamente sconfitte, fortemente indebolite in questo processo. La reazione alla sconfitta elettorale e referendaria è significativa: da un lato si cerca di ribadire in modo autoconsolatorio che il risultato elettorale conferma il primato dei Ds nella coalizione di centrosinistra, dall’altro si accentua il carattere moderato della sua politica, e si tenta un’intesa con le forze del centrodestra su una proposta di riforma elettorale che appare da ogni punto di vista un pasticcio politico, giuridico e istituzionale. Il risultato di questa politica è un processo di autonomizzazione delle forze di centro interne al centrosinistra e dall’altro un movimento verso il centro della componente maggioritaria del centrodestra. Questi sommovimenti nel cielo della politica traggono, come sempre, le loro origini da quanto avviene sul terreno sociale. In questo caso appare illuminante e determinante il comportamento della Confindustria. Essa è passata da una disponibilità ad accreditare il centrosinistra come possibile interprete politico, seppure in modo incerto, oscillante e contrastato al proprio interno, ad un evidente collateralismo con le destre, segnato dalla scelta di sostenere apertamente i referendum iperliberisti e ademocratici dei radicali, e dalla nuova fase aperta con la Presidenza D’Amato che colloca decisamente l’organizzazione padronale sul terreno della competitività internazionale giocata sulla ricerca del minor prezzo della forza-lavoro, sulla liquidazione delle residue tutele per i lavoratori, sull’incoraggiamento all’abbattimento dello Stato sociale, su una concezione dello Stato come semplice struttura di servizio nella circolazione dei capitali finanziari e nell’allocazione delle risorse a favore dell’impresa. In questo quadro è evidente che per la Confindustria la concertazione sindacale ha dato il massimo che poteva dare e che oggi essa non è più funzionale ad una spinta così aggressiva. Così bisogna dal punto di vista padronale liquidare il contratto nazionale di lavoro, oltre che le normative contro i licenziamenti. Nel referendum ha perso anche la Confindustria, ma non invano. È in atto un gioco delle parti che non va sottovalutato: la Confindustria imbraccia la lancia dello scontro sociale puro e duro, le destre del Polo quella di una rinnovata capacità di mediazione politica (difatti lasciano Confindustria e radicali a battersi da soli nel referendum). Il modello politico attuale delle destre pare essere oggi più quello di Aznar che non quello della signora Thatcher. L’esito finale di questo processo è dunque per noi ancora più pericoloso. Allora, cosa fare?
Innanzitutto penso che le forze della sinistra alternativa non possano assistere in modo inerte alla crisi che si sta sviluppando nella sinistra moderata, una crisi che, come abbiamo visto, non riguarda solo la linea politica, il progetto, ma anche la stessa condizione di forza politica dei Ds, il loro insediamento sociale, la loro stessa consistenza organizzativa. In altre parole il rischio di un’implosione è assai concreto. Né la sinistra d’alternativa può accettare tranquillamente l’inevitabile vittoria, non solo elettorale, delle destre, che da questo processo deriva, e/o la formazione di un grosso centro con contenuti conservatori assai più accentuati che non quelli conosciuti nel periodo della prima repubblica.
È necessario quindi avanzare una proposta, quella della rottura della gabbia del centrosinistra e la costruzione di una sinistra plurale, nella quale le differenze tra la sinistra liberale e quella antagonista restino ben nette, ma in cui sia possibile aprire un confronto sul progetto di società e su questa base riconquistare identità e credito sociale delle sinistre. Non si tratta affatto, è ovvio, ma conviene ribadirlo a chi non vuol sentire, o capire, di una proposta di alleanza elettorale per il 2001. L’esperienza della desistenza è ormai del tutto consumata e quindi improponibile, mentre le condizioni per un’intesa programmatica a tutto tondo non esistono da nessun punto di vista. Quindi, a prescindere da quale sarà il meccanismo elettorale con cui si andrà a votare, questione che tuttavia è in sé comunque rilevante per ciò che riguarda gli esiti complessivi della battaglia, non è possibile pensare ad una presentazione comune tra le sinistre. Ma la proposta di una sinistra plurale, cioè in sostanza la fuoriuscita da e a sinistra dalla crisi del centrosinistra, da parte della sinistra moderata e liberale, deve essere uno dei punti centrali nella battaglia dei prossimi mesi. In questa prospettiva esiste però un prius logico, anche se non necessariamente cronologico. La proposta di una sinistra plurale sarà tanto più forte e capace di effettiva attrattiva se da subito la sinistra antagonista sarà capace di avviare un processo di unità tra tutti coloro che si pongono contro la guerra e contro il liberismo economico. Le forme di questo processo possono essere diverse e tutte possono essere discusse, a partire però dal fatto che nessuno può pretendere di ridurre l’altro a sé, e quindi di proporre progetti di scioglimento o per converso di inglobamento; è bene invece che ognuno accetti la dimensione politico-organizzativa decisa dall’altro.
Questo è il senso della proposta che il Partito della Rifondazione comunista ha avanzato: questa proposta si basa sulla premessa che il nostro partito è assolutamente necessario e allo stesso tempo insufficiente. Quindi bisogna accrescerlo, nel senso della costruzione di un partito di massa, e nello stesso tempo bisogna saperlo mettere in relazione organizzata con altre realtà e dimensioni dell’agire politico. Da qui è nata la proposta della Consulta antiliberista, da qui la nostra disponibilità ad accettare anche proposte, come una federazione di forze, più coraggiosa dal punto di vista politico e organizzativo. Per portarla avanti bisogna unire coraggio politico e determinazione. Non si tratta di buttarsi via, ma di sapere mettere in gioco tutti noi stessi, con la ragionevole consapevolezza di portare così un contributo assolutamente determinante. Per farlo veramente bisogna vincere resistenze conservative che purtroppo sono presenti, che affondano le loro radici in un giusto orgoglio di partito, ma che curvano quest’ultimo in una logica autoreferenziale e di chiusura verso l’esterno. Ma perché l’insieme di questo progetto politico possa avere successo, c’è soprattutto bisogno di una terza condizione: la capacità di apertura verso la società, verso le soggettività e i movimenti che in essa si muovono in forme più o meno organizzate. Né una sinistra plurale, né una sinistra d’alternativa possono nascere e accrescersi se, contemporaneamente e in rapporto dialetticamente ad esse collegato, non si afferma una sinistra sociale, cioè un vasto arco di settori, di gruppi, di strati sociali che sanno dare vita a movimenti concreti e contestativi dell’ordine di cose esistente e che individuano nelle sinistre il loro riferimento politico. È evidente che questo discorso ci porta dritto dritto alla questione sindacale, la quale è però troppo ampia per stare nei confini di questo articolo. Ma comunque non solo di questo si tratta, perché bisogna sapere guardare ai movimenti che si esprimono su terreni completamente innovativi, che non sarebbero in ogni caso riconducibili alla dimensione sindacale, per quanto rigenerata. Mi riferisco, per fare qualche esempio, a quell’insieme di movimenti che si muovono ormai su un terreno internazionale contro la globalizzazione capitalistica, e che da Seattle, a Davos, da Genova, a Bologna, e tra poco da Ginevra a Praga, hanno saputo dare vita ad un nuovo straordinario ciclo di lotte. Non è certo da oggi che il capitale ha una dimensione internazionale, ma questa globalizzazione ha tratti e caratteristiche che la differenziano e che vanno riconosciuti, perché proprio l’analisi di questi è la precondizione per sapere capire e intercettare queste nuove forme di ribellione. Se questi sono i movimenti più significativi e evidenti, il panorama sociale tuttavia non si esaurisce in essi. Faccio anche riferimento a quelle forme di resistenza al pensiero unico e ai modelli di vita e di cultura da esso dipendenti, che sono forse meno eclatanti, ma che si stanno diffondendo e radicando e che hanno per ora un rapporto conflittuale e negativo con la politica, che sta a noi sapere rimuovere. Di fronte a queste complesse e nuove realtà, la sopravvivenza di logiche di chiusura o di tradizionale ricerca di alleanze nel solo cielo della politica, non solo appaiono anacronistiche, ma rischiano di fare perdere le grandi potenzialità che la situazione politica e sociale sta offrendo.