Sindacato di classe: la chiave di lettura non è una sola

*Coordinatore Nazionale SdL ( Sindacato dei Lavoratori)

Non è facile discutere oggi di che cosa sia o di che cosa dovrebbe essere un sindacato di classe e del rapporto tra esso e la politica.
Di certo ci sono a mio avviso delle precondizioni da analizzare attentamente. La prima, la più importante per definire il rapporto tra politica e sindacato, è l’indipendenza e l’autonomia tra questi due soggetti sociali.
Chiaramente l’intervento nell’ambito del mondo sindacale e del lavoro è un capitolo importante nell’agenda della politica e dei partiti e diventa uno dei principali elementi caratterizzanti per un partito comunista o, più in generale, per coloro che si dichiarano ancora comunisti.

Questo soprattutto perché ciò che è, o meglio dovrebbe essere, prioritario in un partito comunista è sicuramente la centralità del lavoro che, oltre ad essere argomento fondamentale, è anche una chiave di lettura attraverso la quale comprendere ed interpretare la realtà sociale e le sue contraddizioni.
E’ quindi evidente che da sempre politica e sindacato sono permeabili tra loro, si intersecano e molto spesso diventano complementari.
Molte volte è accaduto che un partito abbia vissuto il rapporto con il sindacato come una “fabbrica di consensi”. Il sindacato diventa cioè la cinghia di trasmissione degli obiettivi del partito e deve fornirgli, spesso a “basso costo”, manodopera e strumenti per costruire consenso e visibilità. In cambio di ciò si “forniscono” la possibilità di carriera a livello politico ed istituzionale e appoggi per ottenere posti di prestigio anche nell’ambito delle controparti aziendali.
Questo scambio è spesso stato utilizzato anche da partiti comunisti. Spesso ha sconfinato in disonestà intellettuale, prima ancora che in un processo di istituzionalizzazione del sindacato uguale o peggiore di quello derivante dal rapporto diretto e collaborativo con le controparti ed i governi.
In presenza di tale fenomeno è scontato l’abbandono del conflitto quale strumento di risoluzione dei problemi e delle contraddizioni tra lavoro e capitale. Perché mai si dovrebbe abbracciare la logica del conflitto se essa mette in discussione la vivibilità del ruolo sindacale da una parte e dall’altra gli effetti “benefici” del consenso ottenuto dai partiti attraverso il sindacato?
Si instaura quindi una “complicità” che giustifica tutto, che veste di “politicamente corretto” il peggiore accordo sindacale e di “socialmente utile” le più inutili iniziative di partito.
Da questo ragionamento deriva una estrema convinzione: partito e sindacato devono vivere la loro indipendenza ed autonomia, nel confronto e nello scontro, se necessario, perché solo questo tipo di approccio permette di affrontare in modo coerente e senza eccessive contraddizioni i rispettivi ruoli e al tempo stesso di affrontare insieme, anche se con approcci diversi, i temi fondamentali che contraddistinguono il conflitto.
Autonomia ed indipendenza del sindacato dai partiti sono quindi elementi prioritari per costruire un sindacato realmente di classe. Ma esistono a mio avviso anche altre due precondizioni importantissime molto legate tra loro: la democrazia interna e la questione morale.
La democrazia dei processi decisionali di un sindacato è oggi fortemente messa in discussione da meccanismi interni ed esterni alle maggiori confederazioni sindacali italiane, compresa la Cgil. Le politiche sindacali si fanno e si decidono in gruppi dirigenti sempre più ristretti, relegando i congressi a semplice “conta” di posizioni precostituite. Il “funzionariato”, invece di essere utilizzato come strumento di sviluppo delle politiche sindacali, diventa freno e “complice” di un chiuso conservatorismo utile soltanto alla difesa dell’apparato sindacale.
A livello esterno brilla poi la la mancata opposizione sindacale alla continua e pressante modifica di leggi e normative, prima fra tutte quella sul diritto di sciopero, che riducono i diritti dei lavoratori ed “aprono” la strada ai sindacato istituzionale e “collaborativo”.
Ma anche la “questione morale” è elemento che impedisce una radicale trasformazione del sindacato e fa emergere una ragnatela di interessi e di connessioni tra mondo sindacale, impresa e politica, tale da escludere completamente il soggetto fondamentale dell’azione sindacale, cioè il lavoratore, dagli interessi primari del sindacato organizzazione.
Se oggi sono queste le precondizioni fondamentali per analizzare compiutamente il mondo sindacale italiano, l’azione prettamente sindacale si misura però sugli obiettivi e sugli strumenti che si utilizzano per perseguirli.
Assistiamo oggi alla modifica sostanziale delle finalità che il sindacato italiano si era costruito in decenni di lotte e di contrapposizione al capitale ed ai suoi meccanismi di produzione.
Nella stessa Cgil, che oggi è impegnata in un Congresso nel quale si contrappongono diverse visioni del sindacato, ci si sta dividendo tra chi vuole sostanzialmente ritornare ad una unità sindacale costruita sul meccanismo della concertazione, senza disdegnare del tutto la filosofia Cisl/UIL della “collaborazione” attiva tra le forze sociali, la Confindustria ed il Governo ed una “coalizione” che invece, in modo molto confuso, si oppone senza individuare però una strada maestra unica e coerente.
Non è sufficiente dichiararsi sindacato di classe, proprio come non è sufficiente dichiararsi comunista, per esserlo realmente.
Sono gli obiettivi che si praticano a dare la misura di ciò che si è: se non si combatte la precarietà, se si accetta la “politica dei redditi” alleggerendo le tasche di chi lavora, se non si costruiscono più piattaforme con richieste salariali e riduzione dello sfruttamento, se non ci si oppone ad accordi che sottraggono diritti ai lavoratori, se si accetta supinamente la modifica delle normative sullo sciopero e la mancanza di reale democrazia nella sfera della rappresentanza sindacale, allora la parola “classe” diventa vuota e priva di significato, anche se ad essa si da il significato più semplice e meno impegnativo.

Il sindacalismo di base in questi ultimi 20 anni ha tentato di percorrere la strada dell’aggiornamento della propria pratica sindacale, senza abbandonare ed anzi valorizzando al massimo questi obiettivi. Sta tentando di costruire organizzazione senza cadere nella “logica di apparato”. Con alti e bassi si è scontrato con le controparti e con i governi, con i “luoghi comuni” e con i tentativi di relegare gli interessi e la rappresentanza dei lavoratori a semplice appendice di equilibri politici e compatibilità economiche.
In molti casi è uscito sconfitto da tali battaglie, in altri è quanto meno riuscito a ritardare tali processi, alcune volte ha portato i lavoratori a vincere lotte importanti che hanno ridato fiato ed entusiasmo al lavoro politico e sindacale.
Io sono convinto che il “sindacato di base” è oggi in Italia ciò che più si avvicina a ciò che si intende per “sindacato di classe”.
E’ su questo che chiamiamo tutti ad una approfondita riflessione: troppo spesso questo fenomeno, questa realtà, questa pratica, è stata considerata marginale e per tale motivo si è pensato prioritario un intervento di modifica delle modalità di lavoro sindacale nella Cgil. Tutto ciò a cui assistiamo nelle contraddizioni e negli scontri nella sinistra di questo Paese, passa anche attraverso l’interpretazione innaturale e per certi versi suicida, di voler continuare a vedere ciò che questo sindacato che ha fatto la storia del Paese, purtroppo non è più.
Le forze sane, che sono tante all’interno della Cgil e soprattutto tra i lavoratori che aderiscono a questo sindacato, devono necessariamente e rapidamente tentare di spostare il proprio punto di osservazione ed utilizzare diverse chiavi di lettura.
Noi di SdL intercategoriale, insieme ad RdB ed a tanti lavoratori e rappresentanti sindacali di altre organizzazioni, anche confederali, stiamo tentando di ricostruire un “modello sindacale” che parte da obiettivi chiari e si rivolge ad una platea di lavoratori che, non dimentichiamocelo, è oggi completamente diversa da quella di pochi anni fa.
Ci rivolgiamo al disoccupato, al precario, al lavoratore in cassa integrazione, al lavoratore al quale hanno modificato modelli di riferimento salariali e normativi.
Ad un nuovo modo di sfruttare il lavoro dobbiamo contrapporre un nuovo modo di opporsi che è fatto di obiettivi e strumenti storici ormai abbandonati dal sindacalismo “collaborativo”, ma anche di un nuovo approccio che veda il sindacato intervenire sul territorio, a fianco dei movimenti per la casa o per la difesa dei beni comuni, vicino ai migranti ed a chi perde il lavoro, ai pensionati che vivono ormai ad un livello di quasi povertà ed agli studenti che hanno ormai pochissimi punti di riferimento.
Questo è ciò che stiamo facendo e che inizierà a concretizzarsi dal maggio prossimo, con l’unificazione di SdL, RdB e di altri soggetti che insieme intendono ricostruire un sindacato democratico, generale, di massa e di classe: l’analisi su come produrre e gestire il conflitto non può essere lasciata a teorici e professori, deve principalmente essere praticata sul campo con i lavoratori.