Sì alla pace

Quanto sia grave la situazione nella quale ci troviamo lo dice il fatto che nel breve lasso di tempo che trascorrerà tra il momento in cui scriviamo questo articolo e la pubblicazione del numero dell’ernesto al quale è destinato, il mondo potrebbe essere scaraventato nell’incubo di una nuova guerra, dagli esiti imprevedibili, capace di mettere a repentaglio il fragile equilibrio tra le massime potenze del pianeta. Ma qual è la vera ragione di questa guerra incombente, che minaccia di aggiungersi alla ininterrotta sequenza di carneficine che hanno costellato il periodo successivo alla caduta dell’ordine bipolare?
Ne abbiamo sentite tante. Si è accusato il regime iracheno di rifiutare o ostacolare il lavoro degli ispettori dell’Onu. Quando è emerso che le ispezioni non provavano le accuse lanciate dall’amministrazione Usa in ordine alla presenza di armi di distruzione di massa, si è cominciato a parlare di rapporti tra Baghdad e Al Qaeda. Per suffragare questa tesi il premier britannico è arrivato al punto di rivendere come frutto di indagini aggiornate il capitolo di una tesi di laurea vecchia di oltre dieci anni. Non è emerso nulla a carico dell’Iraq. Si è allora fatto appello all’esigenza di “liberare il popolo iracheno dalla dittatura” che oggi l’opprime. Peccato che, in un recente passato, gli Usa abbiano sostenuto (e armato) Saddam contro l’Iran. Non si può quindi non denunciare l’ipocrisia di simili proclami, emanati da quanti non esitano a stringere ferree alleanze con altri e non meno feroci regimi dittatoriali, dalla Turchia (responsabile del genocidio dei kurdi e di sistematiche violazioni dei diritti elementari dei detenuti) all’Arabia Saudita, al Kuwait.
Ben altre sono le cause di questa ennesima guerra anglo-americana in Medio Oriente. La prima, coerente con la natura imperialistica della strategia statunitense, è il controllo delle riserve petrolifere. Una fonte insospettabile, il Sole 24 Ore, ha recentemente pubblicato un articolo di Jeffrey Sachs che riprende un documento americano intitolato Le sfide strategiche nella politica energetica del XXI secolo. Il documento parla più chiaro delle elaborate analisi di tanti sedicenti “esperti”. “Finora la democrazia non ha avuto assolutamente nulla a che fare con la politica americana in Asia centrale” e per quanto riguarda la nuova guerra nel Golfo il punto è che “l’Iraq, seconda più grande riserva petrolifera al mondo, è fondamentale per i flussi petroliferi” e che “l’America ha bisogno del petrolio iracheno ma per ragioni di sicurezza militare non può permettere che sia Saddam a produrlo e a controllarlo”1. Le scorte petrolifere statunitensi stanno per esaurirsi. Si prevede che basteranno a malapena per il decennio in corso, mentre l’Iraq ha riserve provate per 112 miliardi di barili, a cui vanno aggiunte scorte di almeno altri 100 miliardi di barili.2 È in primo luogo per questo che Bush ha scatenato un’offensiva a tutto campo (si pensi al Venezuela di Chavez) contro i paesi produttori che non si rassegnano al ruolo di servitori degli Usa.
Ci sono poi ragioni di ordine economico interno. Il bilancio annuo del Pentagono registra una crescita costante. Si prevede che entro il 2009 esso raggiungerà la quota di 502,7 miliardi di dollari (con ripercussioni drammatiche sulla spesa sociale americana, già ridotta all’osso: basti ricordare che lo scorso anno l’assistenza sanitaria statale per le fasce più povere della popolazione ha subito un taglio di 9,8 miliardi di dollari). Com’è stato osservato, questi dati dimostrano inequivocabilmente che “le spese militari restano uno dei principali elementi di traino dell’economia americana”.3
Non basta. C’è ancora una ragione – la meno evidente, ma forse la più inquietante – alla base della decisione inamovibile del presidente Usa e dei suoi più stretti alleati di attaccare l’Iraq indipendentemente dalle decisioni dell’Onu e dalla sempre più diffusa contrarietà di Stati e popolazioni. Quella che a prima vista appare come l’unica grande potenza “imperiale” mostra in realtà i segni di una crisi difficilmente superabile. Scrive al riguardo Eric Hobsbawm nella sua recentissima autobiografia: “Non vedrò, probabilmente, la fine del “secolo americano”, ma non rischierei di perdere se scommettessi che alcuni lettori di questo libro la vedranno”.4
Una situazione economica catastrofica (il bilancio americano del 2003 registra un disavanzo pubblico di 304 miliardi di dollari; la previsione del deficit pubblico complessivo nei prossimi cinque anni è di 1080 miliardi di dollari)5 espone gli Stati Uniti al rischio concreto di un imminente tramonto, mentre all’orizzonte si profilano altri protagonisti della scena mondiale, a cominciare dal gigante cinese. Forse questo è il vero quadro di riferimento della dottrina della “guerra preventiva” elaborata dall’entourage della Casa Bianca. Al di là del petrolio iracheno (come di quello del Mar Caspio), gli Usa si vedono costretti a ricorrere a ogni mezzo pur di ostacolare la corsa di Pechino verso una crescita economica (e di potenza militare) che, stando alle più recenti stime del Pentagono, rischia di consentire alla Repubblica popolare cinese di superare gli Usa entro il 2009.
In sintesi è questo, al di là delle motivazioni ideologiche, il contesto della prossima guerra, di un’avventura che mette cinicamente in conto alcune centinaia di migliaia di vittime innocenti (che andranno ad aggiungersi al milione e mezzo di morti – in gran parte bambini – provocate dall’embargo), che può portare il mondo verso la catastrofe nucleare e che ha già prodotto effetti devastanti (è di oggi la notizia che Israele ha imposto la chiusura totale e il coprifuoco a tempo indeterminato nei Territori occupati).

Popoli e Stati contro la guerra

C’è tuttavia un dato positivo, che dobbiamo registrare e porre al centro della nostra iniziativa. Gli Stati Uniti sono sempre più isolati. La loro volontà di guerra, sempre più dichiaratamente dettata da interessi nazionali, viene via via cementando una imponente coalizione di Stati e di popoli indisponibili a questa infame e tragica avventura. Questo crescente isolamento degli Usa – non possiamo non sottolinearlo – appare la più radicale smentita delle analisi della situazione internazionale svolta, appena qualche mese fa, nelle Tesi congressuali del nostro partito.
Rileggiamo brevemente un passaggio delle Tesi sulla “guerra globale”: “Dal punto di vista politico – vi sta scritto – si va realizzando un sistema di alleanze, pur conflittuale, pur a geometria variabile, del tutto nuovo, che vede oggi schierati dalla stessa parte gli Usa, l’Europa, la Russia, i regimi arabi “moderati” e la Cina”. Che cosa rimane oggi di questo scenario, acriticamente desunto dalle fantasiose visioni dei cantori dell’Impero americano? I giornali parlano di un Consiglio di sicurezza per due terzi (per la precisione 11 paesi su 15, tra i quali tre membri permanenti: Francia, Russia e Cina) contrario alla guerra; di una Nato spaccata (per il veto di Parigi, Berlino e Bruxelles) sull’assistenza militare alla Turchia nella guerra all’Iraq; di una Unione europea in gran parte indisponibile ad avallare l’unilateralismo statunitense.
Lo scacchiere politico mostra un isolamento americano quale non si era mai visto in questo dopoguerra. E non è solo il terreno politico-statuale a fornire questo responso. Sono anche i popoli, le Chiese, le opinioni pubbliche, i movimenti che si attivano per fermare la corsa alle armi e che ogni giorno esprimono in un coro maestoso il proprio no alla guerra. Lo scorso 9 novembre il Social Forum europeo ha riempito le strade e le piazze di Firenze, trasformandola per un giorno nella capitale mondiale della pace. È poi stata la volta, qualche giorno fa, del Forum mondiale di Porto Alegre. E ancora così avverrà, tra poche ore, il 15 febbraio, a Roma e in altri 50 paesi, in quella che si annuncia come la più grande manifestazione contro la guerra dal tempo del secondo conflitto mondiale.
Questa pressione incalzante deve proseguire senza un momento di respiro. Essa è la nostra forza e la nostra speranza. Lo è tanto più nel nostro paese, che lo scellerato oltranzismo filo-atlantico del governo Berlusconi e la presenza del più grande arsenale Usa all’estero (l’”impressionante santabarbara” di Camp Darby, dalla quale provenivano quasi tutte le munizioni usate in Iraq nel 1991 e il 60 per cento delle bombe sganciate sulla Serbia nel ’99)6 pongono oggettivamente in prima linea in caso di guerra e di eventuali ritorsioni da parte di formazioni terroriste. Al di là di questo frangente particolare, è il problema della presenza delle basi Usa e Nato a tornare d’attualità e ad esigere in tempi rapidi l’unica soluzione accettabile: l’allontanamento di queste strutture, prive di qualsiasi funzione se non il sostegno a iniziative di aggressione militare. Sottolineando come l’unilateralismo degli Usa tradisca un “accento imperialista”, persino una figura certo non sospettabile di propensioni anti-americane come il senatore Cossiga ha affermato qualche giorno fa che la “revisione del regime delle basi militari sia americane sia della Nato sul nostro territorio” è ormai “improcrastinabile”.7 Appare dunque tanto più incomprensibile il silenzio del centrosinistra su questa questione, divenuta più che mai grave in conseguenza degli ultimi sviluppi internazionali.
È necessario fare sentire ai governi occidentali la ferma volontà di pace della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. È necessario che le forze politiche, sindacali e sociali incalzino le sedi decisionali impedendo loro qualsiasi cedimento alla deriva bellica. Ed è necessario che – ove dovesse prevalere la follia di chi la guerra vuole contro la volontà delle popolazioni – l’Europa si fermi, decretando uno sciopero generale di tutto il continente contro la guerra americana.
Seguendo l’esempio dei due macchinisti inglesi che si sono rifiutati di portare a destinazione il carico di equipaggiamenti militari diretto alla base Nato di Glen Douglas, nel momento in cui la guerra dovesse tornare a martoriare il popolo dell’Iraq l’Europa del lavoro e dei popoli dovrebbe fermarsi e dire un fermo no, “senza se e senza ma”, alla guerra.

L’importanza dell’America Latina

Abbiamo fatto riferimento alla manifestazione fiorentina del Social Forum europeo di novembre e alla grande mobilitazione del recente Forum mondiale di Porto Alegre. Tali appuntamenti hanno segnato un importante salto di qualità nella vita del movimento per la centralità che vi ha assunto il tema della lotta contro la guerra imperialistica voluta dagli Usa e dai loro più fedeli alleati. Dobbiamo dire che questi nuovi orientamenti del movimento non nascono dal nulla. Essi sono il frutto di una preziosa maturazione politica e culturale di molte soggettività che lo costituiscono. E sono altresì il risultato dei mutati rapporti di forza in America Latina. Il Venezuela, il Brasile, l’Ecuador si affiancano a Cuba con una valenza strategica per gli equilibri mondiali, contribuendo in misura rilevante alla costituzione di un contropotere, nei fatti anti-imperialista.
È importante sottolineare come queste realtà politiche abbiano affermato il proprio peso a Porto Alegre, rendendo ininfluenti le posizioni di quanti (come, da ultimi, gli autori di alcuni articoli pubblicati nella rivista zapatista Rebeldìa8) sottovalutano il ruolo potenzialmente positivo di alcuni Stati e governi, e per questo presentano la sfera politica, nella sua totalità, come un indistinto campo di corruzione e di oppressione, giungendo a cancellare qualsiasi differenza tra destra e sinistra.
A proposito di un mondo niente affatto omogeneo, è significativo il fatto che Lula e Chavez, assieme a Castro, cerchino nell’Unione europea un interlocutore e un alleato nella lotta contro l’oppressione nord-americana. Restano ancora sullo sfondo – in particolare per quanto concerne il movimento italiano – alcune tematiche. Troppo scarsa appare l’attenzione alle questioni del lavoro, all’offensiva del governo che mira alla distruzione del contratto nazionale e alla generalizzazione del lavoro interinale e in affitto. Troppo tiepido l’interesse per il referendum sull’articolo 18, di cui non si colgono le potenzialità in termini di protezione sociale e di mobilitazione di massa contro il governo e il padronato. E resta ancora patrimonio di pochi settori del movimento la solidarietà con i popoli in lotta – a cominciare dai palestinesi e dai kurdi – quasi che la loro condizione di oppressi non costituisse un capitolo della complessiva strategia imperialista.
Non diciamo queste cose per puro spirito critico, ma, al contrario, per indicare precisi obiettivi di lavoro su cui impegnarsi allo scopo di contribuire all’ulteriore crescita quantitativa e politica del movimento.

Cacciare Berlusconi

Concludiamo con qualche osservazione, inevitabilmente sommaria, sul quadro politico interno.
La politica del governo, su qualsiasi terreno, si rivela sempre più di parte. Il servilismo nei confronti degli americani; la brutale offensiva contro il lavoro; la privatizzazione di quanto resta del welfare, della scuola, dell’Università, degli enti di ricerca e del patrimonio artistico; l’attacco eversivo alle altre istituzioni; la volontà conclamata di sostituire alla Costituzione nata dalla Resistenza un disegno ispirato al progetto postfascista della P2 (maggioritario, presidenzialismo, controllo dei media e della magistratura): tutto questo riduce la credibilità di Berlusconi e della sua maggioranza, e apre dei problemi anche al suo interno. Bisogna lavorare per cacciarlo il più presto possibile. Ma il centro-sinistra balbetta, contrappone solo prediche moralistiche e dimostra di non avere una concreta strategia di opposizione. Insomma: è sempre meno un’alleanza politica e sempre più un contenitore, un mero “dover essere”.
Da qui discende per noi un’indicazione precisa. Dobbiamo finalizzare i nostri sforzi per disarticolare il centro-sinistra. Dobbiamo lavorare per costruire raggruppamenti più omogenei tra loro che poi convergano contro le destre. A quanti obiettano che questa impostazione fomenta la divisione delle opposizioni, rispondiamo che – al contrario – essa è l’unica in grado di costruirne l’unità. Lo è in primo luogo perché consente di riconoscere il fatto che il centro-sinistra è già diviso su questioni vitali (a cominciare dalla guerra, dal conflitto di classe, dal giudizio sulle privatizzazioni e sul sistema maggioritario). E lo è poi perché solo consentendo alle diverse posizioni che si collocano nel centro-sinistra di esprimersi senza tatticismi e senza eccessive cautele si potrà costruire una unità vera, in grado di riconquistare quella credibilità che da tempo la sinistra italiana nelle sue varie articolazioni ha smarrito.
Chi non vuole riconoscere questo dato di fatto si inganna, si illude di potere forzare la realtà e rischia per questo di sperperare un prezioso patrimonio di consenso e di energia politica. È questo il limite di Sergio Cofferati. Abbiamo vivamente apprezzato le sue ultime prese di posizione sulla guerra e sul lavoro. Ma esse rischiano di venire travolte da una scelta strategica superata dall’evoluzione reale del quadro politico. Pretendere di resuscitare l’Ulivo è un’utopia che minaccia di avviare su un binario morto gran parte della potenziale opposizione sociale e politica del paese.
Non si dica dunque che siamo poco sensibili al tema dell’unità delle sinistre e delle forze di opposizione. Come dimostrano i fatti (la definizione di accordi in vista delle prossime amministrative nel 75 per cento delle realtà locali), consideriamo l’unità un bene prezioso. Riteniamo però che esso non vada assolutizzato, e proprio per questo condividiamo le scelte autonome della Fiom e della Cgil in tema di scioperi e di piattaforme contrattuali. L’unità va difesa, ma va prima di tutto costruita su contenuti avanzati. Questo – come spiega efficacemente l’articolo di Bertinotti pubblicato qui a fianco – è il senso della nostra battaglia referendaria per l’estensione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, una battaglia che viene coinvolgendo uno schieramento crescente di forze politiche, sindacali e sociali in una grande battaglia di civiltà e di democrazia.
Questa battaglia può essere vinta e deve quindi vedere la più forte mobilitazione del movimento di classe, a cominciare dal nostro partito. Il Partito della Rifondazione comunista è protagonista nella lotta contro il governo, per la difesa del lavoro, dei diritti, della Costituzione. Per questo la battaglia democratica in questo momento passa attraverso il suo rafforzamento, per questo tutte le compagne e i compagni devono sentirsi impegnati in prima persona nel rafforzamento del partito, quale snodo essenziale per la costruzione di un’ampia e plurale sinistra di alternativa, capace di lanciare alle sinistra moderata una sfida vincente sui contenuti e di condurre le forze dell’opposizione alla vittoria contro le destre.

Note

1 Jeffrey Sachs, È il petrolio il premio della vittoria, “Il Sole 24 Ore”, 2.2.2003.

2 Alberto Negri, Caccia a un tesoro che inghiottirà miliardi, , “Il Sole 24 Ore”, 5.2.2003.

3 Cfr. Mario Platero, Esplode il deficit Usa, tarda la ripresa, “Il Sole 24 Ore”, 4 febbraio 2003.

4 E. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico. Rizzoli, Milano, 2002.

5 Cfr. Mario Platero, cit.

6 Cfr. Gianluca Di Feo, Camp Darby, il più grande arsenale Usa all’estero, “Corriere della sera”, 13 gennaio 2003.

7″C’è dell’imperialismo che soffia dallo Studio Ovale”, intervista a Francesco Cossiga, “l’Unità”, 24 gennaio 2003.

8 Rebeldia, allegato a “Liberazione”, 31 dicembre 2002.