Settore credito-assicurazioni: parola ai lavoratori

L’ernesto: vorremmo sapere attraverso quali percorsi è nata la CUB SALLCA.

Dario: questa sigla è nata alla fine del ‘99 dal cambio del nome della CUB-Credito e Assicurazioni, attraverso l’unione delle forze presenti a Torino, soprattutto al Sanpaolo-IMI, con la preesistente realtà di Milano, radicata in particolare alla Banca Nazionale del Lavoro. A Milano la CUB-Credito e Assicurazioni nasce, all’inizio degli anni ‘90, ad opera di un gruppo di lavoratori, stanchi di organizzazioni sindacali ormai legate solo a logiche di partito, i quali intendevano riprendere a fare attività sindacale tenendo conto dei bisogni dei lavoratori (salute sul posto di lavoro, ritmi e carichi di lavoro, ecc.). La decisione matura dopo lunghissimi anni di permanenza e militanza nelle varie sigle confederali, in cui eravamo costretti ad essere solo la coscienza critica delle stesse e sostanzialmente ridotti all’impotenza. Eravamo una minoranza critica, ma che finiva per legittimare la maggioranza e le sue scelte sempre più peggiorative delle condizioni dei lavoratori. Abbiamo tentato, anche, la via dei sindacati autonomi, in una fase in cui sembravano lasciare più spazio d’azione. In realtà, sulle cose di piccolo cabotaggio, a livello esclusivamente aziendale, o meglio ancora locale, la libertà d’azione era pressochè totale. Ciò era dovuto, in parte, all’assoluta estraneità e mancanza di conoscenza, rispetto ai problemi quotidiani dei lavoratori, da parte dei vertici regionali-nazionali; in parte, al fatto che questa libertà d’azione (molto limitata) ci consentiva di ottenere grandi risultati in termini di iscritti e di risultati per la sigla. Diversa era la situazione quando cercavamo di dare uno sbocco a quanto “predicavamo” nelle assemblee e si rendeva necessario intaccare la politica complessiva e i princìpi generali della sigla (dalla stesura delle piattaforme, alle valutazioni sulla legge che regolamentava gli scioperi). In questi casi venivamo emarginati e diveniva impossibile cercare collegamenti con le forze sindacali di altre banche, se non attraverso i contatti ufficiali dei vertici; era insomma l’applicazione smaccata del principio della “tolleranza repressiva” di marcusiana memoria. Ottenevamo consensi alla base, ma, nei fatti, finivamo per vendere fumo, illusioni, ai lavoratori. La sensazione, insomma, era sempre più quella di essere su un treno, che ci portava verso una destinazione non voluta, e noi, pur battendo i piedi e cambiando man mano carrozza fino all’ultima, verso quella meta eravamo, comunque, diretti. Alcuni di noi, alla fine, han detto basta e da quel treno sono scesi per prendere la strada della CUB; una strada oltremodo in salita, senza permessi sindacali e altri diritti che vengono riconosciuti ai sindacati “firmatari” di contratti, ma l’unica percorribile e dignitosa.

Beppe: all’interno del San Paolo di Torino l’opposizione alle scelte sindacali, partendo da quelle confederali, ha avuto una storia che inizia alla metà degli anni 80. L’inizio degli anni ‘90 vede un forte incremento della nostra azione diretta verso i lavoratori, raggiungendo anche risultati importanti nell’organizzazione del dissenso: in particolare, gli accordi di luglio del ‘92 e del ‘93 furono fortemente contestati e bocciati dai dipendenti del San Paolo a Torino. In quella situazione di profonda radicalizzazione della lotta politica all’interno delle Organizzazioni Sindacali e di un sempre maggior rapporto coi lavoratori, all’inizio del ‘94, nacque l’Associazione Lavoratrici e Lavoratori Bancari e Assicurativi (ALLBA), con l’obiettivo di riunire tutti quei lavoratori e quadri sindacali, che, pur appartenenti a diverse organizzazioni (principalmente sinistra CGIL, ma anche altre sigle, insieme ad alcuni compagni che già avevano aderito alla CUB), si opponevano alle politiche confederali. L’Associazione ha operato producendo volantini, stampando un giornalino di cui escono 4 o 5 numeri all’anno, organizzando dibattiti. Il metodo che ci siamo dati (e che differenzia la vera opposizione alle scelte della maggioranza dal dissenso di facciata) è stato quello di manifestare pubblicamente e direttamente tra i lavoratori le nostre posizioni (anziché mantenere il dissenso all’interno delle stanze sindacali, così da renderlo del tutto innocuo). Ovviamente questo ha procurato, a chi è rimasto nella FISAC-CGIL, molti problemi, compresa una serie di deferimenti al Comitato dei garanti (i probiviri). Questo nostro comportamento, però, ci ha resi credibili verso chi aveva già scelto di militare nel sindacalismo di base e ha consentito momenti di confronto e di lavoro unitario.

Lucia: in effetti la coerenza delle prese di posizione dell’Associazione, ha consentito a quelli come me, che già erano usciti dai sindacati tradizionali, di superare le diffidenze verso quelli rimasti ancora nella CGIL. Questo dato, insieme alla costante tensione unitaria, che ha contraddistinto l’esperienza di ALLBA, ci ha consentito di mettere in piedi, già nel ‘95, un convegno delle forze sindacali antagoniste dei settori del credito e delle assicurazioni, cui hanno partecipato esponenti della sinistra CGIL, del COBAS-SLAI, della CUB. Questo lavoro ha prodotto il suo risultato più elevato, a mio avviso, nel corso del biennio ‘97-’99, quando si è snodato il lungo percorso (segnato anche da un pesante intervento iniziale del governo e delle segreterie nazionali di CGIL-CISL-UIL. Cofferati, in particolare, è intervenuto personalmente su questo tema in un Direttivo nazionale della FISAC-CGIL: si può ben dire che abbiamo avuto la concertazione di settore), che ha portato, infine, alla firma del contratto dei bancari. Un contratto estremamente negativo, che aprirà varchi alle esternalizzazioni, concede ampie flessibilità alle aziende sugli orari, consente pia ampie elargizioni di salario discrezionale e penalizza i nuovi assunti. Contro questo contratto vi è stata la mobilitazione unitaria di un arco di forze, che è andato dalla minoranza CGIL (una parte di Alternativa Sindacale e l’Area dei Comunisti) ai sindacati di base già citati, a una consistente minoranza della Falcri (sindacato autonomo di categoria). Si sono anche costituiti due comitati: uno contro l’accordo-quadro che prefigurava le linee del rinnovo contratto, e uno per la democrazia sindacale nel settore (uno dei pochi dove non si sono mai votate, e non si sa quando si voteranno, le RSU). È questo lo scenario nel quale, chi di noi apparteneva ancora alla CGIL, ha deciso di dare vita a una nuova esperienza. Naturalmente la scelta non è maturata solo per effetto dei problemi di settore.

L’ernesto: perché la scelta di entrare nella CUB?

Beppe: abbiamo sempre scartato l’idea di un sindacato di categoria non collegato al resto del mondo del lavoro. In questo senso anche l’esperienza di quei compagni, che avevano pensato di “impadronirsi” di una sigla autonoma come quella della FALCRI (operazione fallita), ci ha ancor di più convinti della necessità di procedere alla formazione di una “nuova” organizzazione sindacale di base – intendendo con questo un metodo di rappresentanza che vede nei lavoratori, e non solo negli iscritti, il punto di riferimento al proprio agire – collegata ad una esperienza confederale. La CUB rappresenta oggi la più valida alternativa alla CGIL, ha un livello di rappresentanza nelle varie categorie abbastanza ben radicato, possiede una struttura territoriale a livello nazionale in grado di offrire luoghi e momenti di confronto e di dibattito. In questo ambito pensiamo di poter “dire la nostra” partendo da noi stessi, dalle nostre idee e dal rapporto che riusciremo ad avere con i lavoratori dei nostri settori. Attraverso il nuovo sindacato, il CUB-SALLCA, pensiamo e speriamo di capitalizzare il grande lavoro di opposizione fatto in categoria, ma anche di poter offrire una valida alternativa a chi opera ancora dentro CGIL-CISL-UIL, e lanciare l’idea di un patto di consultazione permanente tra le forze del sindacalismo di base.

Marco: abbiamo discusso lungamente rispetto alla scelta del sindacato di base cui aderire. Noi riteniamo indispensabile che si arrivi a un superamento dell’attuale stato di frantumazione e divisione tra le diverse sigle del sindacalismo alternativo. Abbiamo trovato nella CUB, che ci pare, tra le diverse forze oggi presenti, la Confederazione di base più forte e strutturata, una certa attenzione all’istanza che noi abbiamo posto: l’urgenza di riunire la diaspora del sindacalismo di classe, senza forzature e senza pretese egemoniche. I segnali che stanno arrivando, a volte ancora contraddittori, sembrano comunque andare nella direzione giusta. Abbiamo poi verificato che nella CUB vi è una forte tradizione di indipendenza rispetto alle forze partitiche. Per noi è importante che il sindacato di classe, democratico ed antagonista, che speriamo di contribuire a costruire, abbia una forte identità culturale e politica, ma non sia assimilabile o riconducibile a un partito.

L’ernesto: avete detto che la vostra scelta non è dipesa solo dai problemi di settore. Quali altri elementi sono stati decisivi per indurre, chi di voi apparteneva alla Cgil, ad abbandonarla?

Beppe: nel corso di questi anni abbiamo tentato tutte le vie possibili per modificare le linee di politica rivendicative. Ci siamo impegnati nei congressi, abbiamo operato all’interno di tutti gli organismi sindacali possibili, abbiamo cercato di fare alleanze con la “sinistra sindacale”: tutto è stato vano, non è mai stato possibile modificare, stando all’interno di CGIL-CISL-UIL, alcunché; quando andava bene si riusciva ad imporre piccole modifiche nei documenti conclusivi, ma tutto proseguiva sempre allo stesso modo. Quelle politiche sindacali sciagurate, che contrastiamo a livello di settore, sono figlie delle scelte più complessive effettuate da CGIL-CISL-UIL e delle quali la “concertazione” non è solo un metodo, bensì la ragione fondante. Nel corso degli anni abbiamo duramente criticato gli accordi di luglio, la (contro)riforma delle pensioni, la precarizzazione del rapporto di lavoro, il patto di Natale e via elencando. Ma per continuare a stare dentro un’organizzazione occorre che ci sia ancora qualcosa che ci tiene assieme: non più così. La peggiore nefandezza compiuta dai sindacati tradizionali resta, secondo me, l’appoggio di fatto concesso all’aggressione imperialista alla Jugoslavia. Abbiamo verificato, in quella circostanza, come da un lato anche la CGIL sia ormai “persa in un percorso di omologazione agli interessi dei padroni nazionali ed europei” e, dall’altro, che solo i sindacati di base abbiano preso coerentemente posizione, arrivando a proclamare uno sciopero generale. Uno sciopero di avanguardie, certo, che nel nostro settore ha visto poche adesioni, ma comunque un atto politico importante, che ha indotto, comunque, anche i lavoratori che non vi hanno partecipato a interrogarsi su quello che stava avvenendo.

Dario: questo sciopero, giunto alla fine di una fase che aveva già visto altri scioperi e momenti di mobilitazione contro la guerra nei Balcani, ha profondamente diviso, più che in passato, la CUB e tutto il sindacalismo di base da CGIL-CISL-UIL. Per la prima volta i sindacati tradizionali hanno voltato le spalle ai princìpi di solidarietà tra i popoli e accettato la guerra come strumento di soluzione dei conflitti sociali e inter-etnici (o almeno spacciati per tali) camuffando questa scelta come intervento umanitario, secondo una tradizione ormai consolidata nella storia più recente: da Hitler con la Cecoslovacchia, a Mussolini con l’Etiopia, per arrivare al Vietnam di Nixon. Guerra umanitaria presa a pretesto per difendere gli interessi dell’Occidente, ma che da nessuno viene evocata se a morire sono migliaia di curdi o le popolazioni nere del Ruanda. Una guerra che CGIL-CISL-UIL hanno sostenuto (Missione Arcobaleno) appoggiando il nostro governo e quelli degli altri paesi europei, dimostrando di aver perso il lume della ragione. Ragione che gli americani mostrano di non aver perso, come si evince dalle dichiarazioni del consigliere della Albright (tale Thomas Friedman) in un articolo apparso sul New York Times il 28/3/99: “il pugno della forza americana è ciò di cui il mondo ha bisogno adesso, perchè la globalizzazione funzioni. L’America non deve aver paura di agire da superpotenza qual è. La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza questo pugno. McDonald’s non può prosperare senza McDonnel Douglas, il progettista degli F15. E questo pugno si chiama Esercito americano, Forza Aerea, Marina Militare e Marines”. Noi, invece, abbiamo denunciato ciò che la guerra rappresenta in termini di distruzioni e perdite umane, senza nasconderci dietro i colori edulcorati dell’”arcobaleno”. E abbiamo compreso che la guerra in Jugoslavia non era altro che un tassello per la costruzione di un nuovo ordine mondiale, che crea grosse diseguaglianze e che avrà sempre più bisogno di interventi militari per spegnere i focolai di ribellione a questo dominio. Il nostro impegno contro la guerra in Jugoslavia non si è esaurito con gli scioperi, ma continua con iniziative di sostegno davvero umanitario-solidaristico, senza ipocrisie e senza porre condizioni ricattatorie verso i beneficiari (tipo imporre la scelta di chi dovrebbe governarli). Attualmente, con altri sindacati di base, abbiamo attivato una sottoscrizione a favore degli operai delle fabbriche distrutte, Zastava in testa, per ricostruire il tessuto produttivo, che la guerra ha distrutto.

Marco: vorrei aggiungere che la guerra ha rappresentato uno spartiacque anche per quelli di noi che, ancora, potevano nutrire qualche dubbio sull’opportunità di andarsene dalla CGIL. Più in generale, per quel che riguarda l’esperienza di Torino, si erano ormai consumate tutte le possibilità di convivenza dentro la FISAC. Nelle riunioni interne il dialogo con i dirigenti della maggioranza si era annullato: parlavamo due lingue diverse. I vertici della CGIL, sia di categoria, sia confederali, hanno ormai introiettato, proprio sul piano culturale, le esigenze delle aziende. L’attività sindacale non è neppure più tesa a “limitare i danni”, ma finisce per farsi carico delle richieste della controparte e trovare le modalità più opportune per farle accettare dai lavoratori, in forma più edulcorata.

L’ernesto: accennavate al fatto che solo una parte di Alternativa Sindacale si è schierata contro il contratto del credito. Volete spiegare meglio? E come sono attualmente i rapporti con la sinistra della FISAC-CGIL?

Beppe: nella FISAC si è determinata una situazione molto particolare, che trae origine dall’ultimo congresso della CGIL, nel quale erano state presentate tre mozioni: quella di maggioranza, quella denominata “Cara Cgil” ed Alternativa Sindacale. Al congresso di bancari ed assicurativi è stato presentato un quarto documento di categoria, nel quale sono confluiti gran parte dei quadri della maggioranza e alcuni esponenti della “sinistra” interna (provenienti dall’esperienza di Essere Sindacato), che hanno giustificato questa scelta sulla base di alcune esperienze, a loro dire positive, di gestione unitaria delle strutture sindacali locali. Questa operazione è stata valutata da noi come un disinvolto episodio di trasformismo, considerato che il “quarto documento” era destinato a “morire” con i congressi di categoria. I delegati, eletti ai livelli inferiori, quando giungevano ai congressi confederali potevano liberamente schierarsi con uno dei tre documenti nazionali, senza nessun vincolo e nessun mandato da parte della base che li aveva eletti. Oggi ci ritroviamo con sedicenti esponenti di Alternativa Sindacale, che non hanno mai sostenuto questa mozione nei congressi di categoria. Questa premessa è stata necessaria per poter capire gli eventi successivi. Non è casuale, infatti, che la stragrande maggioranza di coloro che hanno sostenuto coerentemente in categoria il documento di Alternativa Sindacale si sia schierata contro il contratto dei bancari, mentre la maggior parte (non tutti, per la verità) dei sostenitori di “sinistra” del quarto documento abbia finito per approvarlo e sostenerlo nelle assemblee. Sono, questi, gli stessi che oggi si “riciclano” con l’operazione della Sinistra sindacale in CGIL: continua il leit-motiv per cui ciò che conta è il posto, non importa per fare cosa. Con costoro abbiamo praticamente rotto tutti i rapporti. Permane, invece, dentro la FISAC, un nucleo di dirigenti, che, partendo da un giudizio negativo sulla conclusione del contratto e dalla rivendicazione di eleggere, finalmente, le RSU, esprimono un tentativo, secondo noi destinato al fallimento – stante la situazione presente nella FISAC e nella CGIL – di ricostruzione di un’area, capace di rivolgersi direttamente ai lavoratori per organizzare l’opposizione sociale nelle banche e nelle assicurazioni. Con questi compagni, e anche con quelli dell’ala più combattiva della FALCRI, continuiamo ad avere ottimi rapporti, anzi crediamo che questi rapporti debbano rafforzarsi sulla base dei contenuti comuni che esprimiamo, per rendere più efficaci le iniziative che prenderemo nel futuro.

L’ernesto: che impatto ha avuto sui lavoratori la nascita della CUB-SALLCA e come pensate di allargare la vostra influenza al di fuori delle aziende dove siete presenti?

Lucia: la CUB-SALLCA è sorta all’indomani di un rinnovo contrattuale tra i bancari, che ha generato arrabbiature tra i lavoratori, ma soprattutto sfiducia e rassegnazione. Ovviamente alla BNL di Milano la CUB era già presente, ma l’arrivo di forze nuove ha generato nuove aspettative e più fiducia. Al Sanpaolo-IMI di Torino (e non solo Torino) la novità è stata reale e sta generando interesse e attenzione tra i lavoratori. A gennaio, dopo un mese che era nata la nuova sigla, vi sono state le elezioni per nominare i quattro rappresentanti dei lavoratori nel Comitato che controlla le nuove assunzioni.

Abbiamo dovuto organizzarci rapidamente, senza aver potuto sviluppare la nostra presenza su tutto il territorio nazionale e senza poter usufruire di permessi sindacali. La FISAC-CGIL e la FABI (sindacato autonomo molto forte nel settore) si sono confermati primi sindacati in azienda, al terzo posto è giunta la UIL e subito dopo noi, ottenendo oltre 1.500 voti su quasi 10.000 votanti. I nostri rappresentanti sono stati eletti, lasciando fuori quelli della CISL (che può contare su decine di quadri sindacali in grado di muoversi con permessi retribuiti), ampiamente distanziata al quinto posto. È stato un risultato importante e inaspettato per i nostri concorrenti.

Dario: riguardo le altre aziende, riteniamo che quanto prima altre realtà organizzate, che hanno dato voce al dissenso dei lavoratori, possano unirsi a noi. Tieni conto che al Banco di Napoli, in diverse città, sono presenti compagni del COBAS-SLAI con i quali abbiamo costanti rapporti di collaborazione, mentre a Roma si è costituita l’ASS.I.CED, che conduce la dura lotta dei lavoratori dell’ex CED della Banca di Roma, oggetto di un’esternalizzazione pochi mesi fa. Voglio sottolineare questo caso, che rappresenta il tipico esempio di autorganizzazione di lavoratori, che resistono dopo essere stati abbandonati a se stessi dai sindacati “ufficiali”.

L’ernesto: chi di voi milita nel PRC, che tipo di reazioni ha riscontrato nel partito, rispetto alla vostra scelta?

Beppe: dentro Rifondazione Comunista parlare di sindacato, dell’organizzazione dei comunisti dentro i luoghi di lavoro, è molto difficile. Spesso si confondono i piani del discorso, si mischiano le cose, per cui la discussione o non decolla o diventa scontro tra i supporters della CGIL e del sindacalismo di base. La critica durissima che il PRC esprime, nel merito e nel metodo, alle politiche del sindacato italiano, e della CGIL in particolare, non porta a decisioni organizzative univoche, ma soprattutto non porta alla definizione degli obiettivi reali, di contenuto, di politiche rivendicative, di metodo democratico, che tutti dovrebbero perseguire all’interno della propria sigla di appartenenza. È chiaro che oggi il Partito vede nell’ipotesi della ricostruzione di una Sinistra sindacale in CGIL il terreno principale di intervento; di conseguenza tutte quelle esperienze, come quella che noi abbiamo iniziato, che tendono al rafforzamento del sindacalismo di base, vengono viste in modo non molto positivo. Noi però riteniamo che, se di sinistra sindacale in CGIL si tratta, questa dovrebbe costruirsi intorno a contenuti ben precisi, da un lato. Dall’altro, si dovrebbe guardare con grande sospetto a quelle persone, che, proprio sui contenuti, oltre che nelle pratiche personali, hanno dato, in questi ultimi anni, un contributo notevole all’affermarsi delle politiche di concertazione, con tutti i guasti sociali che esse hanno determinato. La possibilità reale di una riforma democratica delle forme di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro e la definizione di regole certe nei diritti di contrattazione, che sono oggi obbiettivi del Partito, passano anche attraverso lo sviluppo del nuovo sindacalismo confederale di base. In questo senso noi pensiamo di dare un contributo in positivo nell’elaborazione del programma fondamentale di Rifondazione, anche nella ridefinizione, nell’ambito delle reciproche specificità, dei ruoli e dei rapporti tra il Partito ed il Sindacato. Forse, qualcuno potrà trovare tutto questo errato, ma noi siamo pronti a sostenere, sulla base dei risultati ottenuti, ed in relazione ai reali contenuti che la questione della sinistra sindacale ha assunto nelle nostre categorie, un ampio ed articolato confronto.

Marco: i segnali che arrivano dal partito, rispetto alla questione sindacale, sono inquietanti. In passato, la parola d’ordine, l’indicazione sulla collocazione privilegiata per i militanti di Rifondazione, era quella delle “due gambe”: la sinistra CGIL e il sindacalismo di base. Ora mi pare che, di fatto, ci sia un’indicazione, una pressione più pesante, sulla prima opzione. Credo che questa linea sia sbagliata e contraddittoria, proprio in relazione all’attuale collocazione politica del partito. Come si può pretendere di stare all’opposizione del governo di centro-sinistra e poi spingere i propri militanti a organizzarsi all’interno di un sindacato, la CGIL, che insieme a CISL e UIL costituisce la cinghia di trasmissione (al di là di alcuni litigi di facciata) del governo stesso? Oltretutto non mi pare che le varie opposizioni, nate all’interno della CGIL (da Essere Sindacato ad Alternativa Sindacale all’Area dei Comunisti), si siano mai contraddistinte per la loro visibilità e per l’efficacia della loro azione. Sia chiaro: non ritengo che Rifondazione debba “ordinare” ai propri iscritti di costruire “il sindacatino rosso”, che finirebbe per essere, a sua volta, la cinghia di trasmissione del partito. Penso, però, che andrebbe ripresa, perlomeno, la parola d’ordine della “costituente” del sindacato di classe. È necessario avviare un processo di ricomposizione delle forze sindacali antagoniste, al fine di costruire un nuovo soggetto alternativo agli attuali sindacati di regime. A questo processo Rifondazione dovrebbe dare il suo contributo, senza pretese egemoniche. Non è pensabile un’opposizione politica in assenza di una forte opposizione sociale nei luoghi di lavoro.