Seattle: primi elementi di analisi sul movimento

L’enfasi, forse un po’ eccessiva, con cui si è guardato e si continua a guardare alla contestazione di Seattle e alle sue puntate successive (Davos, Washington, ecc.) merita qualche riflessione sui contenuti, gli obiettivi, la composizione e le ispirazioni ideali dei vari gruppi partecipanti che, al di là delle apparenze, presentano diversità non trascurabili e assenze che invece andrebbero colmate. Senza sottovalutarne in alcun modo il valore simbolico e il consistente impatto mediatico è forse prematuro considerare il modello Seattle “l’embrione di una nuova internazionale”. Anche azzardando una grossolana sommatoria dei vari soggetti rappresentati non è detto che da lì possa nascere il nuovo centro propulsore della rivoluzione mondiale. Difficile immaginare che un’alleanza congiunturale di forze così diverse possa esprimere una qualsivoglia strategia anticapitalistica comune contro il neoliberismo.

Limitiamoci dunque a cogliere le notevoli potenzialità di un movimento “contro”, ma anche i suoi limiti e le sue contraddizioni che non sono né poche, né piccole. Pur apprezzando la carica di soggettivismo rivoluzionario di molti gruppi e di molti intellettuali di sinistra radical e marxista è difficile pensare che la loro esigua rappresentatività possa impensierire le istituzioni contro cui combattono con generosità e intelligenza.

Il dopo Seattle pone perciò un interrogativo a tutta la sinistra: come e se sia possibile far convergere su una piattaforma minima comune contro il neoliberismo le tre correnti di pensiero che sul tema della globalizzazione presentano approcci analitici diversi, sia sul piano politico che su quello ideologico. Il primo elemento di debolezza su cui ragionare, e possibilmente rimediare, riguarda la composizione e il livello di rappresentanza sociale e politica dei gruppi e dei movimenti presenti, in rapporto alle potenziali forze antiliberiste che può esprimere l’intero pianeta. Mondialismo, terzomondismo, internazionalismo.

Semplificando possiamo dire che di queste tre correnti le prime due erano rappresentate massicciamente a Seattle, mentre la terza era rappresentata soprattutto dai comunisti americani che, nonostante le loro enormi difficoltà, hanno agito con grande impegno e con intelligenza politica sulle situazioni più avanzate della protesta sociale e politica del mondo del lavoro (portuali di San Francisco, nuovi settori sindacalizzati dei lavoratori di colore e ispanici, ecc.), e tra i gruppi di studenti di alcune grandi università americane. Una presenza, quella dei comunisti americani passata sotto silenzio, che mostra lo scarso entusiasmo con cui certi settori della nostra sinistra antagonista guardano allo sforzo da compiere per allargare la protesta di Seattle ai settori internazionalisti ancora assenti. Penso ai partiti e ai movimenti di ispirazione antimperialista dell’Eurasia, Africa, America Latina, mondo arabo, ma soprattutto ai grandi Partiti comunisti dislocati sull’asse terrestre Giappone-Capo di Buona Speranza, passando per la Cina, il sud-est asiatico, l’India. Forze imponenti la cui presenza può pesare non poco sugli equilibri delle forze in campo. Le forze che si richiamano all’approccio mondialista e terzomondista sono una nebulosa a volumetria variabile non facile da definire. Si tratta soprattutto di una ideologia a radici multiple che sta accompagnando da un paio di decenni i processi di mondializzazione ed ha avuto diversi padri nobili tra i quali Willy Brandt, Olaf Palme e settori importanti della chiesa cattolica e protestante.

Nel corso degli anni i movimenti e i gruppi si sono divisi e moltiplicati, scomposti e ricomposti, poi, sotto i colpi implacabili di una globalizzazione che spazza via diritti e conquiste dell’individuo, il campo di protesta e di intervento si è via via allargato e radicalizzato.

I nuovi mondialisti e terzomondisti di Seattle contribuiscono con le loro iniziative a squadernare davanti all’opinione pubblica le ingiustizie dell’intero pianeta, e persino a curiosare e scoprire ciò che viene deciso nelle stanze blindate delle istituzioni finanziarie internazionali. Non possiamo che rallegrarcene. Non è detto tuttavia che tutte le posizioni scaturite “dal basso” cioè espresse da gruppi e movimenti rappresentanti la società civile, siano sempre condivisibili. Ricordiamo ad esempio lo scontro al calor bianco, alla Conferenza del Cairo sulla popolazione mondiale (1994), tra gli ecologisti oltranzisti pronti a sopprimere una parte della popolazione mondiale in nome della difesa del pianeta e gli emuli del papa e degli iman difensori ad oltranza della natalità incontrollata. Smagliature e farneticazioni sono state espresse anche a Seattle, com’era prevedibile, ma siccome nessuno è perfetto ci limitiamo a segnalare, senza motivi di scandalo, le curiose posizioni espresse dai vertici dei sindacati americani, che erano la componente di gran lunga più numerosa presente a Seattle e a Washington: l’AFL-CIO, i “teamster” (i camionisti di Jimmy Hoffa junior), gli Steelworkers (lavoratori dell’acciaio), la Citizen Trade Campaign e la Global Trade Watch, affiliate alla potente (e chiacchierata) associazione dei consumatori americani Pubblic Citizen, diretta dall’avvocata Lori Wallach. L’insieme di queste potenti organizzazioni, titolari di un grande consenso di massa negli States, a conteso bacino elettorale di repubblicani democratici, è stata definita senza mezzi termini dal direttore di Citizen Trade Campaign, Scott Nova, “la nostra lobby contro la Cina”. Il torrente di parole e di slogan prodotto da questa lobby contro il commercio iniquo del WTO, contro il FMI, contro la globalizzazione e le istituzioni che la governano, ha alla fine svelato quale sia il nuovo grande nemico dei lavoratori e dei consumatori americani: la Cina. Il senatore di estrema destra, Pat Buchanan non si è lasciato sfuggire la ghiotta occasione (elettorale) ed ha arringato, cavalcata e fatta propria la violenta campagna anticinese dei sindacati. L’AFL-CIO si mobilita e scende in piazza contro il WTO e il FMI (come non ha mai fatto prima contro le aggressioni imperialiste del proprio governo contro il Vietnam, l’Iraq e la Yugoslavia), ma non per opporsi alle regole iugulatorie imposte dai setti paesi forti contro i 127 paesi deboli associati al WTO, ma bensì per opporsi all’ingresso della Cina, che tanto debole non è, in nome dei diritti umani dei cinesi, trascurando quelli dei miliardi di non cinesi che vivono (e muoiono) sottopagati o senza lavoro nella maggioranza dei paesi già aderenti da tempo al WTO, molti dei quali con un rapporto di scambio neocoloniale con gli Stati Uniti. Ci sarebbe già sufficienti ipotesi di reato per iscrivere il presidente del più grosso sindacato americano, John Sweeney (suo l’Ok al bombardamento di Belgrado), nel registro degli indagati per sospetta collusione con la destra repubblicana che il Congresso degli Stati Uniti sostiene le stesse identiche tesi contro la Cina (e contro Cuba) con un surplus di toni truculenti da guerra fredda come si conviene ai nipoti di Mc Carty. Contro questa provocatoria campagna anticinese, che unisce la destra oltranzista e l’entourage di Bill Clinton, hanno reagito con molta fermezza i comunisti americani, documentando il tentativo di reintrodurre il clima della guerra fredda con lo stesso meccanismo di sempre: da un lato salvare l’immagine delle grandi “corporations” impegnate in una fase di grande espansione strategica all’estero che comprende una sempre maggiore esportazione di capitali, impianti industriali e tecnologie in siti più vantaggiosi, e la reimportazione (parziale) negli States di beni di largo consumo a prezzi sempre più competitivi.

Dall’altro, l’esigenza di inventarsi un nuovo nemico al quale addebitare le drammatiche conseguenze di questa politica “globale”: la perdita di posti di lavoro e di salario, la distruzione delle residue garanzie sociali e la costante crescita delle sacche di povertà che oggi inglobano 47 milioni di americani. Se poi questo ipotetico nemico ha le dimensioni geopolitiche della Cina esso consente persino di riproporre l’incubo di un attacco nucleare e la conseguente esigenza di investire miliardi di dollari nel nuovo scudo spaziale. Una sintesi quasi perfetta che mostra quali siano gli attuali obiettivi della politica americana. Il problema non è la Cina, ma la globalizzazione capitalistica, titolava, l’8 aprile scorso, il notiziario dei comunisti americani People Weekly World, ponendo l’accento che tra gli artefici di questa forsennata campagna anticinese ci sia anche il segretario alla difesa Cohen (capo del Pentagono), autore di un irresponsabile ed oltraggioso invito ai leaders militari vietnamiti (?!) ad allearsi con altri paesi asiatici contro la Cina. Dopo di che non riusciamo a capire come – anche a sinistra – si possa definire la manifestazione dei diecimila organizzata a Washington dal sindacato americano AFL-CIO una sfida all’asse USA-CINA. Disinformazione o inguaribile pregiudizio?

Intendiamoci, in un movimento così vario e multicolore come quello di Seattle c’è posto per tutti, ma tutti dovrebbero avere il buon gusto e il buon senso di non emettere sanzioni e condanne utili solo a creare diversivi dai veri obiettivi della protesta. Non comprendiamo invece come un movimento mondiale contro il neoliberismo possa sperare di impressionare un nemico così potente e onnipresente privandosi di un contributo così importante come quello rappresentato dalla terza corrente di pensiero antiliberista, quella internazionalista. Una corrente che malgrado errori e sconfitte possiede tratti di nobiltà difficilmente cancellabili: ha segnato profondamente la storia del XX secolo e dispone di un arsenale di esperienza rivoluzionaria anticapitalista e antimperialista che, sebbene largamente incompleta e criticabile, non ha eguali nella storia. L’approccio internazionalista è stato il solo che sia riuscito nell’impresa di avviare una catena di solidarietà militante a dimensione planetaria che, dalla rivoluzione d’ottobre e dalla nascita dell’URSS, passando per la guerra di Spagna, la resistenza al nazismo e i grandi eventi che hanno cadenzato l’avanzata dei movimenti di liberazione e le rotture del vecchio ordine borghese in molte parti del mondo, ha saputo mobilitare milioni di persone, infiammando di speranza intere generazioni e alimentando di prospettive le lotte sociali e politiche del movimento operaio.

Il secondo elemento meritevole di discussione riguarda il rapporto tra gli obiettivi politici e le ispirazioni ideali della protesta di Seattle e le finalità anticapitalistiche che gli vengono attribuite, nonché il target del nemico contro cui lottare. Un tratto distintivo dei partecipanti alla protesta è stato quello di caricare sulle spalle del WTO, del FMI e della BM le maggiori responsabilità delle tragedie che affliggono il mondo attribuendo alle suddette istituzioni una funzione di governo sempre più centrale ed autonoma del mondo globalizzato. Parallelamente a quanto sostengono i fautori della “terza via” circa il superamento dello Stato-nazione, anche nelle file della sinistra antagonista si sta insinuando l’idea che le istituzioni economiche-finanziarie internazionali stiano diventando di fatto i nuovi centri di un potere mondiale occulto sempre più sottratto al controllo degli Stati. Già nel documento di politica estera presentato alla direzionale nazionale del Prc il 16.6.1997 si motivava la crisi degli stati nazionali (…) perché tendenzialmente deprivati di un potere reale trasferitosi a livello sovranazionale e si affermava che il meccanismo di accumulazione sempre più sovranazionale e la formazione di grandissime società finanziarie hanno dislocato il potere reale fuori dalla portata degli stessi Stati nazionali. Anche nel documento celebrativo di Seattle, approvato da una cinquantina di associazioni di sinistra antiliberista il 16 dicembre scorso alla CdL di Milano, il WTO viene presentato nella premessa come …il governo mondiale invisibile e antidemocratico che agisce conto il benessere delle popolazioni e dell’ambiente. Tuttavia in quest’ultimo caso la perentorietà del giudizio, sebbene discutibile, è una mediazione coerente con quanto espresso da una coalizione ampia di sinistra plurale dentro la quale ciascuno porta il suo contributo di idee e il proprio impegno militante contro tutto ciò che concorre a colpire diritti sociali, politici e civili da chiunque e dovunque minacciati. Ma dai comunisti è lecito aspettarsi un approfondimento analitico più razionale dei rapporti di forza tra le classi su scala mondiale nel quale il nemico non è in alcun modo riducibile alla sfera delle istituzioni finanziarie e commerciali, ma investe il ruolo ben più fondamentale degli Stati imperialisti, dei loro governi e dei loro apparati militari, politici e propagandistici che tutelano, in perfetta continuità storica con le funzioni dello stato borghese, gli interessi del grande capitale finanziario, industriale e bancario.

Mentre da un lato la sinistra liberal-democratica ha assunto la centralità assoluta del mercato e mitizza le sue istituzioni internazionali come ineludibili regolatori dello sviluppo economico “globale”, nonché premessa di un futuro radioso, nel linguaggio del radicalismo di sinistra le suddette categorie si configurano spesso come metafore orwelliane di strutture mostruose e onnipotenti, penetrate ormai in ogni angolo del pianeta, in grado di esercitare in proprio una sorta di dominio universale, al di sopra e al di fuori degli stati nazionali, che contamina e corrompe chiunque venga contattato. La nozione di dominio imperiale globale si sovrappone così a quella classica di imperialismo. Non senza conseguenze.

È importante cogliere questo passaggio per evitare i possibili fraintendimenti a cui può portare la tesi nuovista di chi propone la globalizzazione come forma inedita del capitalismo contemporaneo, che parte invece da molto lontano e che, come documento autorevolmente Karl Polanyi (1) è già individuabile nelle rispettabili dimensioni dell’impero britannico nel XIX secolo che fece diventare Londra …il centro finanziario ancor più internazionale e più esteso del suo impero politico. E durante il quale, come scrive lo storico Herbert Feis, (2) …il potere finanziario era unito strettamente al potere politico. Senza dimenticare peraltro che i processi in atto di un capitalismo a dimensione internazionale, entrato nella sua fase suprema, e causa non secondaria di due devastanti guerra mondiali, erano già stati descritti con dovizia di dati e con indubbia lungimiranza, in un piccolo opuscoletto scritto da V. I. Lenin e stampato a Zurigo nel 1916 (3). Se si vuole comunque attribuire una collocazione temporale più recente si può dire che l’atto di nascita formale cui è stato affidato il compito di governare i processi di globalizzazione risale al 22 luglio 1944 quando, nella cittadina americana di Bretton Woods furono firmati gli accordi economici che davano vita a tre istituzioni internazionali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo, e il Gatt, Organizzazione mondiale per il commercio. Attenzione però, a Bretton Woods viene sanzionato il nuovo assetto imperialistico internazionale che conclude la lunga e “fraterna” competizione per il controllo mondiale dei mercati e delle risorse condotta dagli Stati Uniti contro l’impero britannico, giunto esausto e in fase declinante al traguardo della vittoria militare contro la Germania e il Giappone, per subentrargli alla guida del mondo moderno. La diversità di questo assetto, rispetto alla fase precedente, può essere individuata nel tentativo, fronte alla prospettiva ormai certa della sconfitta militare della Germania e del Giappone, di costruire una rete di relazioni economiche internazionali che consentissero di regolare pacificamente le contraddizioni evitando i danni di nuove guerre interimperialiste ancor più devastanti. La nuova priorità di quegli anni postbellici diventa pertanto quella di costruire un fronte comune contro i paesi del campo socialista la cui consistenza geopolitica misurava ormai la rispettabile distanza di 13 fusi orari, dall’Elba all’oceano Pacifico.

Questa era la contraddizione storica principale che la nuova potenza imperialista egemone intendeva risolvere a qualsiasi prezzo, inclusa la guerra. Alle tre istituzioni di Bretton Woods viene dunque attribuita dagli stati fondatori la funzione di elaborare una strategia espansiva, aggressiva ma coordinata, del grande capitale multinazionale e di comporre, per quanto possibile in quelle sedi, i conflitti di interesse tra i grandi gruppi concorrenti. È persino superfluo ricordare che il FMI, la BM, e il Gatt (poi WTO) non avrebbe concluso granché senza il totale sostegno degli apparati politici, militari e spionistici degli stati imperialisti e in particolare di quello degli Stati Uniti. Lo stato americano, lungi dall’essersi autodissolto nella nuova utopia mercantilista, ha consolidato la propria egemonia e affermata la propria sovranità in maniera spettacolare (4).

La lettura corretta del rapporto gerarchico esistente tra i vari centri di potere ci da la misura di quanto grande sia quello esercitato – oggi più che mai – dai governi imperialisti degli stati-nazione. E dunque quali siano le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali dominate da quella che oggi appare come la contraddizione principale: da un lato l’imperialismo americano e i suoi alleati subalterni, Europa e Giappone, che cercano di estendere ovunque il loro dominio anche reintroducendo la nozione di guerra (umanitaria) come continuazione della politica; i punti di forza di questa strategia globale, saldamente diretta dalla Casa Bianca, sono il dollaro e la Federal Reserve, il Pentagono, la Cia e la sofisticata rete di ambasciate americane all’estero che in molti paesi esercitano, ormai da decenni, un vero e proprio ruolo di governi ombra.

Nel campo opposto abbiamo invece la stragrande maggioranza dei paesi e dei popoli che, pur in presenza di una congiuntura e di rapporti di forza sfavorevoli, cercano di reagire con la politica in difesa dei propri interessi nazionali e statuali in tutte le sedi internazionali, ivi compreso il WTO (5). Non occorre molta fantasia per capire che questa resistenza, in qualsiasi forma e sede si manifesti, assume un carattere antimperialista oggettivo e va colta dai comunisti come un elemento favorevole da assecondare, anche se congiunturale e provvisorio. Tutti ci rendiamo conto quanto sia difficile contrastare quello che ormai viene considerato un regime politico strisciante, trasversale, planetario e, quel che è peggio, mai apertamente dichiarato. Ma siamo in pari tempo convinti che la globalizzazione imperialista non è un processo ineluttabile e che non è anacronistico pensare di fermarlo.

Dobbiamo perciò essere aperti ad ogni forma di collaborazione e di iniziative che puntino, non a selezionare e discriminare, ma ad aggregare ed accumulare tutte le forze disponibili a combattere una battaglia complessa, articolata e difficile in tutte le sedi e le forme possibili, comprese le istituzioni internazionali, i parlamenti e i governi.

Se è vero che la strategia è il dominio in cui la mente umana elabora il rapporto tra mezzi e fini in un contesto competitivo non è poi tanto difficile capire le scelte dei governi di Pechino o di Hanoi che, anziché blindarsi nella roccaforte di un socialismo povero ed egualitario, accettano invece, pur consapevoli dei rischi, la sfida della globalizzazione con la fiducia di poterla superare. Oppure le scelte dei comunisti sudafricani che, pur presenti in una coalizione di governo dell’ANC subalterna, suo malgrado, alle stesse logiche del FMI e del WTO, non hanno mai abbassato il livello dello scontro di classe nel paese, né la prospettiva del socialismo. Ed allora è realistico, oppure no, immaginare le sinistre politiche e sindacali di questi paesi quali partecipanti a pieno titolo del fronte mondiale contro il neoliberismo che ha debuttato a Seattle? Se sì, come ci auguriamo, allora non bastano le sole relazioni diplomatiche del Prc con 200 partiti e movimenti, specie se prevale l’abitudine di puntare, nei confronti di alcuni, l’indice accusatore sulle divergenze anziché lavorare con paziente tenacia sui punti di convergenza. Intendiamoci, ciascuno è libero di scaricare dal proprio bagaglio culturale nozioni teoriche fondamentali quali l’imperialismo, il ruolo degli stati-nazione, il socialismo, nonché tutta l’esperienza storica del comunismo novecentesco. Molti, in questa parte del mondo, lo hanno già fatto anche se i risultati sono poco edificanti.

Piuttosto azzardato è pretendere invece che per ottenere lo status di partner antiliberista facciano la stessa cosa i comunisti cinesi, cubani, vietnamiti. È stato detto autorevolmente e giustamente, che da soli non ce la facciamo. Bene. Ne siamo assolutamente convinti fin dal 7° congresso della III Internazionale. Non sarebbe meglio ricominciare a riflettere sul significato profondo e attuale di quelle tre parole scritte da Togliatti nel memoriale di Yalta: unità nella diversità?

Note:

1) Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974.

2) Herbert Feis, Europe, the World’s Bankers, Kelley Publisher, Clifton New Jersey, 1974.

3) V.I. Lenin, Imperialismo come fase suprema del capitalismo, Edizioni in lingue estere, 1946.

4) N. Burgi e P.S. Golub, Il falso mito dello stato post-nazionale, Le Monde Diplomatique, aprile 2000.

5) Fidel Castro, Sulla Cina, l’ernesto n. 6, 1999.