Scuola: nostalgie e lotta per il futuro

*Dirigente scolastica, direttivo nazionale FLC CGIL

La scuola “di prima” degli anni Cinquanta e Sessanta, la scuola degli anni della guerra fredda e del dominio della DC e dei suoi satelliti, non era così bella come ce la descrivono con rimpianto a “Porta a Porta” ministri del PDL apparentemente poco informati, sorretti da giornalisti compiacenti e praticanti della servitù volontaria. Era una scuola arretrata per contenuti e metodi, fortemente selettiva, marcatamente classista. Non c’era la scuola materna statale, era considerato normale che le donne stessero a casa e i figli con loro. Alla scuola elementare è vero si andava con il grembiule, in genere nero, un bell’aiuto per le mamme che facevano ancora il bucato a mano. Ma non è che per questo si era tutti uguali! I tassi di ripetenza erano del 40%, e colpivano quasi sempre i figli dei contadini, mai dei professionisti e dei capitalisti. Finite le elementari, c’era uno “sbarramento”, costituito dall’esame di ammissione obbligatorio alla scuola media, che avveniva su programmi che non si facevano alle elementari, ma solo preparandosi con insegnanti privati a pagamento. Con ciò la massa dei figli del popolo era dirottata alle scuole di “avviamento al lavoro”, e il loro futuro comunque era segnato. Solo ai figli dei benestanti, con pochissime eccezioni, era di fatto riservata la possibilità dell’accesso ai gradi più alti degli studi. La scuola media unica fu una grande riforma, ma la pratica delle diffuse bocciature alle elementari e alle medie manteneva forte la selezione di classe, nonostante il meccanismo fosse stato colpito e messo in discussione. La denuncia di don Lorenzo Milani, prete scomodo confinato dalla Curia a Barbiana nel Mugello, precede il ’68 ed è una componente del movimento di contestazione di quell’anno. Senza lasciarsi deprimere dall’ostracismo del potere ecclesiastico colluso con la classe dominante, don Milani fece l’esperienza di una scuola per conto suo, che recuperasse i tanti ragazzi, espulsi dalla scuola statale, non ancora di tutti. “La scuola ha un problema solo, i ragazzi che perde – scriverà poi con brusca crudezza in “Lettera a una professoressa” -. La vostra scuola dell’obbligo ne perde per strada 462.000. A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli. Una discriminazione nella discriminazione riguardava le bambine e le adolescenti, che lasciavano la scuola più dei maschi, e poche arrivavano alla licenza di scuola media. Per i bambini con handicap non c’era alcun inserimento, esclusi dalla scuola o confinati nelle classi differenziali. E’ questa la scuola che si rimpiange, a cui si vorrebbe tornare?

LE RIFORME DEGLI ANNI ’70 E ‘ 80
Dopo il ’68 gli effetti delle lotte studentesche e operaie e del rinnovamento culturale da esse impresso cominciarono a tradursi in riforme scolastiche e un profondo rinnovamento ha investito la scuola italiana, prima in forma di sperimentazioni, poi con interventi strutturali duraturi. Nel 1968 nasce la scuola materna statale; Nel 1972 il tempo pieno alle elementari, dopo una fase sperimentale, viene riconosciuto come modello scolastico della scuola dello Stato; Nel 1974 vengono varati i decreti delegati, che istituiscono gli Organi Collegiali, come luoghi di incontro e di partecipazione democratica di insegnanti, studenti e genitori; Nel 1977 vengono abolite le classi differenziali, e gli alunni “portatori di handicap”, come si diceva allora, vengono inseriti con opportuno sostegno nelle classi normali. Negli anni ’80 vengono riformati i programmi e gli ordinamenti della scuola elementare, introducendo la pluralità dei docenti (modulo 3 insegnanti ogni 2 classi), l’allungamento dell’orario didattico e la collegialità nella programmazione educativa, già presenti nelle classi a tempo pieno. Anche per la scuola media vengono varati nuovi programmi, ma la loro attuazione è la più faticosa. N e l tempo, essendo di recente istituzione, la scuola media unica è quella che meno ha risentito del movimento culturale di rinnovamento, si sono perpetuati modelli di insegnamento essenzialmente trasmissivi e implicitamente selettivi, è quella che avrebbe il più urgente bisogno di interventi riformatori, ma invece all’attuale ministro piace così. La scuola superiore ha conosciuto nel tempo un fiorire di sperimentazioni e una moltiplicazione degli indirizzi, senza che si siano fatti bilanci per generalizzare le esperienza positive, di cui ci sarebbe pure invece bisogno. La cultura pedagogica dell’accoglienza e dell’integrazione, frutto positivo del rinnovamento prodotto dal ’68, ha prodotto il diffondersi dei metodi di insegnamento più attivi, sostituendo o affiancando alla lezione frontale laboratori, percorsi individualizzati, lavori di gruppo, l’apertura al territorio, l’utilizzo delle Nuove Tecnologie, un tempo scolastico più disteso e ricco di esperienze, lo stimolo alla motivazione, l’imparare per gli alunni e gli insegnanti attraverso il confronto e la cooperazione. Quelli che l’ideologo della destra e autore di un libello contro il ’68, Marcello Veneziani, considera “cattivi maestri”, erano in realtà pedagogisti, psicologi, educatori di primordine: Vigotskji, Dewey, Montessori, Bruner, Freinet, Ciari, Lodi, per dire solo alcuni nomi dei più grandi. Il principale successo di tale rinnovamento è stato la contestazione e messa in crisi della selezione di classe, l’allargamento dell’accesso all’istruzione, la tensione verso una scuola “per tutti”. C’è stato l’elevamento effettivo della preparazione generale, si è abbattuto il livello delle bocciature, si è verificata la riduzione degli abbandoni nella fascia dell’obbligo. Più o meno naturalmente, con differenze tra le varie realtà sociali e i contesti locali e regionali, ma con una tendenza generale in questa direzione. Il processo naturalmente non è stato esente da limiti e contraddizioni, riflettendo la scuola inevitabilmente le tensioni e le spinte di una società che resta fortemente segnata dalla differenze di classe e che ha visto negli ultimi due decenni un arretramento in termini di rapporti di forza e di condizioni di vita delle classi popolari. Così dietro promozioni generalizzate si celano spesso “bocciature” di fatto, nel senso che molti ragazzi pur promossi formalmente non hanno potuto raggiungere livelli sufficienti di competenza. E poi si perdono e abbandonano nei percorsi di studio successivi. Come recita l’art. 3 della Costituzione, lo Stato ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza. Dunque, il diritto all’istruzione richiede di mettere in atto le misure necessarie per promuovere il successo formativo degli studenti. Servirebbe perciò innalzare e non abbassare la durata della scuola dell’obbligo (allineando l’Italia agli altri Paesi europei), predisporre interventi di recupero, formare gli insegnanti, promuovere la qualità della scuola, generalizzare la scuola statale dell’infanzia, intervenire precocemente sui disturbi di apprendimento, organizzare forme di sostegno per gli alunni stranieri, garantire la continuità didattica stabilizzando i precari che hanno già superato il concorso pubblico ed evitando la girandola di docenti in corso d’anno, in una parola garantire le risorse e utilizzare meglio quelle che ci sono.

LA “RIFORMA” GELMINI
Con il governo Berlusconi e il nuovo spazio conquistato dagli ideologi di destra, si vorrebbe tornare a prima del ’68, additato come data di origine della devastazione della “bella scuola”. Questo ritorno indietro si incarna simbolicamente e concretamente nella reintroduzione del “maestro unico” nella scuola primaria (ed anche nella scuola d’infanzia). In realtà le riforme scolastiche che hanno introdotto nella scuola il team docente al posto del maestro unico sono avvenute con ministri democristiani (Bodrato, Mattarella, Falcucci) che con il ’68 c’entravano poco; ma sicuramente è vero, come già evidenziato, che le lotte degli operai e degli studenti hanno costituito la spinta e lo sfondo egualitario per le riforme scolastiche degli anni ’70 e ’80. Parlare oggi di “riforma” Gelmini è un eufemismo, non soltanto per l’in- tento ispiratore e dichiarato di riportare la scuola a com’era trent’anni fa, ma anche perché il testo è privo totalmente di finalità e obiettivi, motivato da tagli e fare cassa. Nella Legge 169 del 30 ottobre 2008 ( 1) (conversione del decreto 137 del 1 settembre presentato dal ministro Gelmini) e nel Piano programmatico di attuazione della legge 133 del 6 agosto 2008 (2), c’è un elenco minuzioso di provvedimenti finalizzati a riduzioni di spesa. E però non si tratta solo di tagli (pesantissimi) al sistema scolastico pubblico, si punta dritti allo smantellamento dell’impianto organizzativo dei settori scolastici che funzionano meglio, e cioè prima di tutto la scuola dell’infanzia e la scuola primaria. Con lo scopo dichiarato di ridurre la spesa e quello non dichiarato di ritornare alla vecchia scuola autoritaria, selettiva e classista Per capire la portata dell’operazione vale la pena osservare attentamente il “quadro degli interventi” allegato al Piano programmatico del Governo: Nel triennio 2009-2011 si tagliano complessivamente 87.341 insegnanti e 43.500 impiegati e bidelli; oltre 130.000 posti di lavoro non ci saranno più (altro che Alitalia!): si tratta di pensionamenti che non saranno rimpiazzati e di insegnanti precari che hanno già superato un regolare concorso e insegnano da anni ma non saranno assunti; come pure di impiegati e bidelli anch’essi precari da anni che garantiscono il funzionamento delle scuole; per queste persone non è prevista la cassa integrazione o la mobilità, rimarrebbero senza lavoro e basta. Nella scuola primaria i posti cancellati per effetto dell’introduzione del maestro unico sono calcolati in 14.000, perché il maestro unico verrà introdotto gradualmente a partire dalle prime classi. Sempre nella scuola primaria vengono tagliati nel triennio altri 11.900 posti, degli “insegnanti specialisti di lingua inglese”: 4 mila nel 2009/10, 3.900 nel 2010/11, 3.300 nel 2011/12. Viene buttato al macero un patrimonio di competenze costruito negli anni e su cui lo Stato ha fortemente investito attraverso corsi di formazione seri e impegnativi, con competenze didattiche e linguistiche certificate internazionalmente. Per sopperire, all’unico maestro ormai obbligatoriamente tuttologo si faranno frequentare corsi di formazione previsti di 150- 200 ore (sic!) Nella scuola secondaria di primo grado vengono soppressi nel triennio 25.900 posti di docenti, eliminando il tempo pieno e il tempo prolungato, riducendo l’orario scolastico per tutti e accorpando le cattedre di insegnamento. Nella scuola secondaria superiore si sopprimono 14.000 posti, per il mezzo della revisione dei curricoli (orario scolastico più corto) e l’accorpamento delle cattedre; Ulteriori riduzioni saranno prodotte dall’innalzamento del numero di alunni per classe; Per il personale amministrativo e per i bidelli si tratta di una vera e propria ecatombe: 29.076 bidelli in meno (alla faccia della sicurezza degli alunni!), 3.965 assistenti tecnici in meno (alla faccia dell’informatica e del rilancio degli istituti tecnici e professionali!), 10.452 impiegati in meno, nel momento in cui molte funzioni amministrative, che prima erano assolte dallo Stato, sono state delegate agli istituti scolastici per effetto dell’autonomia.

LO SCARDINAMENTO DELLA SCUOLA DELL’INFANZIA E DELLA SCUOLA PRIMARIA
La scuola primaria dovrà funzionare con 24 ore di insegnamento, di cui 2 di religione. Invece di due docenti su tre classi del sistema attuale (per un tempo normale che oggi è di 30 ore) o due su una classe (per un tempo pieno che oggi è di 40 ore), c’è un solo docente per 22 ore per tutte le discipline: meno ore di scuola, meno insegnanti, meno competenze. Si ritorna al docente tuttologo, che la legge di riforma del 1985 aveva superato per migliorare la qualità didattica. Cancellate dunque le competenze specifiche, tra cui la stessa informatica, che in altra campagna elettorale Berlusconi aveva propagandato di voler rafforzare, resta la sola eccezione degli insegnanti di religione, che non vengono tagliati. Anzi si stabilisce che per insegnare la religione cattolica si dovrà frequentare un istituto superiore di studi religiosi, per cui le maestre che attualmente insegnano religione senza costi aggiuntivi per lo Stato non potranno più farlo, e sarà solo la Curia ad inviare titolati esterni, con aumento della spesa a carico dell’erario. Dunque facendo un po’ di conti. Nella scuola primaria la settimana con la prevista riduzione di orario a 24 ore, di cui 2 di religione, dovrebbe essere così ripartita dal maestro tuttologo: 2 o 3 ore per inglese, 2 per storia e 2 per geografia, 2 scienze, 2 educazione motoria, 2 ed. immagine, 1 musica, 1 informatica, per cui restano solo 6 – 7 ore da dedicare a italiano e matematica, cioè agli insegnamenti di base fondamentali. Fondamentali anche per l’accesso al sapere e ai diritti di cittadinanza. Il tempo pieno nella scuola primaria non ci sarà più, e qui non si deve giocare con le parole. “Te m p o pieno” è un preciso modello didattico e non può essere confuso con un qualsiasi doposcuola, o con un tempo “allungato”, sulla base della disponibilità dei docenti a prolungare il loro orario nel pomeriggio. E dei Comuni a garantire servizi educativi di completamento, dietro pagamento di una retta da parte delle famiglie, come oggi avviene per gli asili nido. Nella scuola dell’infanzia si ripristina l’ingresso anticipato (cioè si potrà andare anche a due anni e mezzo) ma non si prevede un adeguamento delle strutture (mancano ad esempio i lettini per dormire per i più piccoli); e con un rapporto insegnanti-alunni di 1 a 28 (al nido oggi il rapporto è di 1 a 4 per i lattanti e di 1 a 9 per i più grandi). Anche nella scuola dell’infanzia si sopprimono le sezioni a tempo pieno, per sezioni con solo orario antimeridiano. In tal modo si appesantisce enormemente il lavoro degli insegnanti, che non avranno più compresenze per poter dividere le sezioni in gruppi nel momento cruciale delle attività didattiche; e i genitori che lavorano dovranno arrangiarsi e trovare altre soluzioni per il pomeriggio. Spariscono le ore di compresenza, che oggi sono utilizzate per i laboratori, per gli interventi individualizzati, per assicurare attività alternative per gli alunni che non scelgono la religione cattolica, per la sostituzione degli insegnanti assenti, e soprattutto per il sostegno linguistico agli alunni stranieri. Colpisce il particolare accanimento rivolto contro la scuola dell’infanzia e primaria, che pure è ai primi posti nel mondo per qualità. Il governo cita le indagini internazionali OCSE PISA mettendo in rilievo gli scarsi risultati dei nostri studenti. Omette di dire che i risultati scadenti si riferiscono alle indagini OCSE PISA sugli alunni quindicenni, mentre per quanto riguarda la scuola primaria i risultati sono più che brillanti. Nell’indagine internazionale IEA PIRLS ad esempio, i bambini della quarta elementare italiana risultano al sesto posto a livello mondiale nella capacità della lettura, nonostante la loro età sia inferiore di un anno rispetto ai bambini di molti altri paesi, dove la scuola inizia a sette anni (3). Perché allora cominciare col distruggere proprio i modelli didattici della scuola primaria e non intervenire invece nelle scuole medie e superiori, che espellono più di un quarto degli studenti? In base ai dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 2005, nei cinque anni precedenti il tasso di scolarità dei giovani di età compresa tra i 15 e i 18 anni era aumentato, ma i dati disaggregati per età evidenziavano che la scolarizzazione dei ragazzi di 15 anni era quasi totale (97,1%), mentre si riduceva all’86,6% a 16 anni, fino ad arrivare al 69,5% per i 18, con un tasso di abbandono dunque del 27,6%. Né convince l’argomento “pedagogico” usato dal Ministro che troppi insegnanti in una classe creano disorientamento per i bambini e compromettono l’unitarietà dell’insegnamento. La riforma della scuola elementare del 1990 prevedeva l’intervento in una classe di due docenti (al massimo tre). E’ stata la riforma Moratti del 2004, nel precedente governo Berlusconi, a creare la cosiddetta scuola “spezzatino”, introducendo l’insegnante “prevalente-tutor” + una costellazione di docenti per i laboratori e le attività opzionali. Se la pluralità dei docenti diventa un puzzle di ore, anziché un progetto educativo sostenuto da una programmazione collegiale, allora è certamente deleteria e produce uno scadimento precoce della didattica. Ma allora basterebbe riconoscere il fallimento della “riforma” Moratti e tornare alla situazione precedente, e non gettare via il bambino con l’acqua sporca, col pretesto dei guasti della politica scolastica del centro- destra. Era in fondo quello che onestamente stava cercando di fare il ministro Fioroni, prima che Mastella venisse in soccorso di Berlusconi, facendo cadere il governo Prodi.

IL (FALSO) RIGORE E LA (VERA) SELEZIONE
La scuola che emerge dalla “controriforma” della Gelmini è una scuola ridotta, impoverita di competenze e risorse professionali, a modello unico, che rinuncia all’integrazione scolastica e all’aiuto ai più deboli, che sceglie di sanzionare, bocciare o ghettizzare chi non ce la fa. Una scuola che, come ha scritto recentemente Clotilde Pontecorvo, sanziona ed esclude i diversi, bambini e ragazzi, che vengono da famiglie culturalmente svantaggiate, in particolare quelli provenienti da altre culture linguistiche. Non è un caso che parallelamente il parlamento abbia approvato una mozione proposta dalla Lega per collocare gli studenti stranieri in “classi ponte” differenziate. E’ la stessa maggioranza, è la stessa cultura. C’è da temere fortemente che lo stesso trattamento possa essere rivolto presto anche contro i disabili, anche loro “diversi”, tornando indietro di trent’anni, appunto alle classi differenziali. Come se le differenti condizioni psico-fisiche, sociali, etniche e culturali fossero “colpe” e non costituissero invece, per la scuola della Repubblica, una sfida positiva e un impegno dovuto per “rimuovere gli ostacoli” per garantire a tutti un effettivo diritto allo studio. Per altro, come ben sanno gli insegnanti più attenti e capaci, le diversità, anziché costituire un ostacolo e un rallentamento, sono opportunità di crescita nel confronto e di maggiore qualità per tutti gli studenti. Il ritorno alla valutazione in decimi e la bocciatura (per decreto) nei confronti degli studenti che riportano insufficienze anche in una sola materia, spazza via in un solo colpo un trentennio di studi ed esperienze che considerano la valutazione funzionale non alla selezione, ma all’apprendimento; e che richiedono di adattare i percorsi didattici alle condizioni personali e ai ritmi di apprendimento degli alunni. In una scuola elementare e media dove non esistono esami di riparazione, incoraggiare e generalizzare la bocciatura significa condannare tanti bambini e ragazzi ai margini o fuori dalla scuola. Significa compromettere il loro futuro, dato che oggi senza la licenza media e sempre di più senza il diploma di scuola superiore non è possibile l’accesso al lavoro. Una scuola rigorosa è una scuola che pretende dai ragazzi impegno a dare il meglio di stessi, ma che non li abbandona se incontrano delle difficoltà. Lo stesso voto in condotta (che per altro era già presente nella valutazione ormai da qualche anno) non può semplicemente tradursi in giudizio definitivo e senza appello (mentre per altro dai governanti si pretende per loro stessi la totale impunità!), ma uno sprone alla collaborazione con le famiglie per il recupero dei ragazzi all’interno della comunità scolastica. Se è vero che nella scuola e nella società crescono i fenomeni di “bullismo”, di prepotenza, di discriminazione e violenza a sfondo razziale e omofobico, è anche vero che non si fa un buon servizio alla società semplicemente cacciandoli dalla scuola. Purtroppo invece la scuola finora è stata lasciata sola a tentare di fare argine, con esempi eccellenti come il lavoro straordinario di tante scuole nel napoletano e nel casertano per far crescere la cultura della legalità. E’ vero che nuoce l’atteggiamento iper-permissivo di tanti genitori, ma bisogna chiedersi quanto anch’esso sia frutto di un clima generale di permissività e impunità, che vede ministri della Repubblica incitare all’odio razziale, e un presidente del Consiglio che attacca tutti i giorni la Magistratura e si fa votare leggi per sottrarsi ai processi che potrebbero riguardarlo.

L’OPPOSIZIONE AL DECRETO GELMINI
Il “popolo della scuola pubblica” è in campo per contrastare le politiche del governo: insegnanti, studenti, genitori, sindacati, il mondo accademico. Sono importanti le prese di posizione, unanimi, dei Presidi delle facoltà di scienze della formazione, e molti singoli interventi di autorevoli studiosi e pedagogisti. Il movimento c’è, è reale, è vasto, come non accadeva da anni. Spuntarla non sarà facile. Questo governo ha dalla sua parte un’arroganza inedita, sorretta da una proprietà mediatica senza precedenti, e dall’appoggio del potere economico e finanziario che alla scuola guarda principalmente per le opportunità di business. E’ il caso dell’assalto inedito all’Università statale. Con la famigerata legge 133/2008 basta la decisione del senato accademico per trasformare irreversibilmente quella Università statale in Fondazione privata, aperta all’accesso e al possesso dei privati, con i bilanci esplicitamente sottratti al potere di controllo della Corte dei Conti. La posta in gioco è molto alta, riguarda il futuro della Scuola e della formazione delle future generazioni, ed è già ora questione centrale del confronto e dello scontro tra le classi sociali, che investe i rapporti di potere. Si vuole chiudere con la fase del compromesso sociale e democratico imposta dal movimento operaio e studentesco con le lotte degli anni sessanta e settanta, e tornare al dominio assoluto dell’aristocrazia del denaro e del potere. Per questo si tratta di una lotta difficile, lunga, non puramente rivendicativa e sindacale, che ha bisogno di una crescita di consapevolezza tra gli studenti e gli stessi docenti del rapporto con la profondità della crisi capitalistica, che deve spingere alla partecipazione solidale e alla lotta il movimento dei lavoratori. Gli argomenti non mancano. Si tagliano fondi alla Scuola, all’Università e alla Ricerca, cioè si compromette il futuro del Paese, per sgravare dell’ICI anche i proprietari di ville, per coprire i debiti Alitalia regalando la parte sana a imprenditori amici del Governo, per soccorrere le banche in dissesto. In questo contesto lo sciopero generale per impedire la distruzione della scuola di tutti può essere un passaggio ineludibile, utile e necessario per la crescita di forza e consapevolezza, per dare sostegno decisivo al mondo della scuola e per far uscire lo stesso mondo del lavoro dall’angolo della subordinazione passiva e ininfluente in cui vorrebbe relegarlo definitivamente la Confindustria con l’appoggio del governo.

Note:

(1) Si può consultare il testo della Legge 169 al seguente indirizzo web: http:// www. edscuola. it/ archivio/ norme /leggi/dl28808.pdf

(2) Si può consultare il testo del Piano pro – grammatico con le tabelle dettagliate dei tagli al personale al seguente indirizzo web: http:// www. edscuola. it/ archivio/ norme /varie/schema_art64l133.pdf

(3) I risultati dell’indagine sono consultabili sul sito dell’INVALSI: http://www.invalsi.it/download/L_Gross i2.pdf