Russia: alla vigilia delle elezioni politiche

Passati tre anni dalla vittoria nelle elezioni presidenziali, se si fa riferimento ai sondaggi sembrerebbe che la popolarità del presidente russo Vladimir Putin non sia stata scalfita. Gli ultimi dati forniti dai più importanti istituti demoscopici del paese, attestano che ancora una salda maggioranza (il 49% agli inizi di marzo 2003) di cittadini della Federazione Russa riconfermerebbe oggi l’attuale capo dello stato.
È noto come Vladimir Putin, alto funzionario del KGB ai tempi dell’Unione Sovietica, anche grazie alla sua precedente posizione di rilievo nel settore più delicato e segreto dell’apparato statale, dopo la sua “conversione” alla “democrazia” abbia costruito le sue fortune nell’ambito delle discusse amministrazioni “liberali” che si sono succedute a San Pietroburgo negli anni ’90 dello scorso secolo, saldando attorno alla sua figura una rete di interessi politici ed economici che hanno creato le basi della sua ascesa al vertice dello stato1.
Putin, entrato nella cerchia di Eltsin e divenuto suo stretto collaboratore nel periodo più critico della presidenza, è poi riuscito (anche in virtù di un’efficacissima campagna pubblicitaria, organizzata dai “media” controllati dai magnati dell’economia russa in crisi di consenso politico) a costruire sulla sua persona l’immagine di inflessibile “uomo d’ordine”, sensibile ai bisogni del suo popolo e capace di interpretarne l’attaccamento ai valori della dignità nazionale, che fino a quel momento sembrava essere la “bandiera” della sola opposizione comunista.
Così, mentre i partiti al potere raggiungevano il minimo storico negli indici di gradimento popolare, nel momento in cui (nell’ultimo scorcio del 1999) sembrava profilarsi una vittoria elettorale comunista, Putin, che già all’inizio del 2000 subentrava al dimissionario Eltsin dopo avere guidato l’esecutivo, compiva il prodigioso miracolo di salvare le sorti di quel regime che, uscito dal collasso dell’Unione Sovietica, aveva condotto il paese ai limiti del baratro economico e nel torbido politico dai contorni medievali.
Quello che si è rivelato come l’ “asso nella manica” dei gruppi di potere russi, chiamato a sostituire il malato e traballante Eltsin, è stato in grado anche di sfruttare i tragici sviluppi della situazione cecena, sfociati in spaventosi attentati (in cui molti hanno visto la mano degli stessi apparati di sicurezza russi controllati da uomini vicini allo stesso Putin) che hanno provocato centinaia di vittime civili in alcune città russe, ed è riuscito nell’intento di convincere l’opinione pubblica della sua determinazione a risolvere, anche con metodi poco “ortodossi” (che hanno dato la stura ad alcuni disgustosi rigurgiti razzisti, giustificati da alcuni “media” di regime, nei confronti dei cittadini russi originari delle regioni del Caucaso), i terribili problemi di “ordine pubblico” in cui versava allora il paese.
È in particolare da quel momento che abbiamo assistito ad una veloce rimonta nei sondaggi di quello che veniva presentato come l’uomo a cui Eltsin aveva affidato le sorti del paese, e, quindi, nel dicembre del 1999, all’affermazione di “Unità” (il cui emblema è il simbolico “orso” russo), il partito creato di fatto attorno alla figura di Putin, che riusciva ad impedire ai comunisti (pur in avanzata) il conseguimento di quella maggioranza parlamentare che aveva frapposto numerosi ostacoli all’iniziativa di Eltsin nella legislatura precedente, sbaragliando, allo stesso tempo, la formazione di centro-sinistra “Patria-Tutta la Russia”, che annoverava tra i suoi dirigenti il potente sindaco di Mosca Luzhkov e l’ex primo ministro Primakov.
All’inizio della primavera dell’anno successivo il trionfo di Putin veniva coronato dalla vittoria nelle elezioni presidenziali, dove gli unici a tenergli testa erano, come al solito (a conferma del loro indiscusso radicamento), i comunisti di Zjuganov.
A consolidare il prestigio di Putin venivano anche le sue prime sorprendenti iniziative in qualità di capo dello stato, che generavano l’impressione che ci si stesse preparando ad una netta modifica delle scelte di politica interna e internazionale operate nell’ “era Eltsin”, riprendendo l’ispirazione di quel governo Primakov, presto rovesciato con un “colpo di palazzo”, che, alla fine nel 1998, in presenza di una grave crisi economica e di grandi lotte operaie, aveva rappresentato, con l’aperto sostegno dei comunisti, l’unico esperimento in controtendenza rispetto al corso liberista del decennio.
Con mosse abilissime, Putin, (che, già immediatamente dopo le elezioni legislative aveva dato vita ad un “compromesso istituzionale” con i comunisti, attribuendo loro – sebbene avessero perso la possibilità di condizionare le scelte del parlamento – la presidenza della Duma e di una serie di commissioni parlamentari strategiche), si presentava con un “messaggio alla nazione” in cui sembravano profilarsi significative aperture sociali negli indirizzi economici del governo.
E in effetti una prima proposta indirizzata al “Consiglio di stato” da Ishajev, l’uomo che sembrava affermarsi come il principale collaboratore economico del presidente, raccoglieva molti dei suggerimenti proposti dal PCFR in materia di politiche sociali e di bilancio.
Nello stesso tempo, con molto scalpore, venivano presentati i documenti programmatici2 in cui si tratteggiavano le linee portanti di quel protagonismo in politica estera che ha definito, agli occhi del mondo, il più rilevante elemento di differenziazione di Putin rispetto alla pratica del suo predecessore.
La Russia, finalmente, sembrava aspirare a ritagliarsi un suo efficace ruolo nello scenario internazionale, rompendo con anni di subalternità alle scelte delle potenze dell’Occidente, e mettendo al primo posto i propri “interessi nazionali”.
Il nuovo corso in politica internazionale si è concretizzato in una serie di iniziative (il rafforzamento della partnership strategica con Cina e India e del ruolo della importante “Organizzazione di Shanghai”, nata per impulso di Mosca e Pechino, un ruolo attivo di mediazione nella penisola coreana, il mantenimento e, in alcuni casi il rafforzamento, di relazioni con i cosiddetti “paesi canaglia”, ecc.), che hanno avuto come tratto unificante la ricerca delle condizioni più favorevoli alla creazione di un “mondo multipolare”. Ciò ha significato che, in più di un’occasione (l’ultima è rappresentata dalla dura contrapposizione all’aggressione contro l’Iraq) la Russia è entrata in rotta di collisione con le aspirazioni egemoniche dell’imperialismo americano3.
A rafforzare le speranze dell’opinione pubblica, in particolare negli strati meno privilegiati, interveniva anche l’almeno apparente apertura di un fronte di lotta contro l’invadenza di quelle oligarchie, in particolare i gruppi legati a Gusinskij e Berezovskij (controllori degli strumenti mediatici che avevano favorito la vittoria di Putin), che avevano imperversato all’ombra di Eltsin e del suo clan.
Si determinava l’impressione che fosse giunto il momento della resa dei conti all’interno del gruppo dirigente russo, e che si fosse alla vigilia di una svolta epocale negli indirizzi strategici della politica del paese.
Anche sul piano della comunicazione con l’opinione pubblica, Putin opera una svolta radicale rispetto all’ “era Eltsin”. Non è più il riferimento ai valori delle “più civili società dell’Occidente” il tema dominante della retorica presidenziale, ma “gli interessi nazionali”, il ruolo della storia patria (sia del periodo pre-rivoluzionario che di quello sovietico, in particolare attraverso l’esaltazione della funzione determinante dell’URSS nella vittoria contro il nazifascismo), il richiamo all’orgoglio patriottico, il recupero di alcuni simboli dell’epoca sovietica (ad esempio, con il ripristino della musica del vecchio inno sovietico e, più recentemente, con il recupero della “stella rossa” tra gli emblemi militari) e, addirittura, una sostanziale rivalutazione della stessa figura di Stalin, a cui, tuttora, che piaccia o meno, continua a guardare con simpatia, se non con nostalgia, circa il 40% dei cittadini della Federazione Russa4.
L’insieme di queste proposte e l’innovazione nello stile presidenziale producevano, quale primo significativo effetto politico, il sostanziale “abbassamento della guardia” da parte dell’opposizione di sinistra (spiazzata, tra l’altro, sul proprio terreno propagandistico, quello del richiamo alla “dignità nazionale”5) e una caduta verticale dell’intensità di quelle lotte operaie che, negli anni precedenti, erano state in grado di condizionare i comportamenti dello stesso Eltsin.
Si determinava una sorta di “effetto illusione” (di ritornare ai fasti e ai simboli della potenza sovietica, recuperandone anche le garanzie sociali, come pare essere ancora nelle attuali aspirazioni di almeno due terzi dei cittadini russi), che, come è stato riconosciuto (con spietata autocritica) dagli stessi comunisti, è risultato fatale per l’opposizione, producendone il “disarmo” nel corso di praticamente un anno e mezzo di legislatura.
Le “illusioni” dei comunisti (su cui ancora oggi è in corso il dibattito autocritico nel partito) dovevano, purtroppo, lasciare il posto alla constatazione che, almeno sul piano della politica interna (per quanto riguarda le oscillazioni nella politica estera, in seguito all’adesione alla “coalizione antiterrorista”, si è dovuto attendere l’11 settembre 2001), le cose non sarebbero cambiate rispetto al decennio precedente, e che la lotta intrapresa contro alcuni magnati nascondeva in realtà un rimescolamento delle carte all’interno degli assetti di potere russi e l’emergere di nuovi soggetti determinati ad assumere il timone delle politiche liberali del regime.
Così il governo affidato a Michail Kasjanov, in cui emergevano alcune figure (Gref, Illarionov, Kudrin) cresciute all’ombra dell’ultraliberismo tecnocratico di personaggi come l’ex premier Gaydar, doveva ben presto – nel forse calcolato disinteresse del presidente, che scaricava così su altri l’assunzione di misure impopolari6, vedendosi così riconosciuto dall’opinione pubblica un ruolo “super partes” – abbandonare l’impostazione delineata nelle dichiarazioni programmatiche del primo scorcio del 2000, rigettando il programma economico di Ishajev, e avviando un programma di nuove riforme in senso liberista. Con, in aggiunta, la strada spianata dalla perdita della maggioranza parlamentare comunista, in un ambito di stabilità istituzionale sconosciuto in tutto il decennio precedente.
Nel giro di pochi mesi, il “vecchio” ha così potuto riprendere il sopravvento in politica interna. Questa volta, però, in un contesto di politica estera in cui sembrava delinearsi uno spazio per le ambizioni di protagonismo dei gruppi dirigenti nazionali che stanno, seppur gradualmente, consolidando il processo di restaurazione capitalistica.
Così, già a partire dalla primavera del 2001, al programma economico di Ishajev si sostituiva quello del tecnocrate Gref (molto vicino al famigerato Chubajs, personaggio di spicco del clan Eltsin), che prevedeva il varo di un nuovo pacchetto di riforme economiche che si proponevano il completamento della transizione liberale del paese. Riforme che sono state approvate con il contributo determinante di tutto lo schieramento “borghese” (compresa la destra liberale di Gaydar formalmente all’opposizione, ma che annovera nella compagine ministeriale alcuni uomini ad essa vicini) e realizzate con una determinazione sconosciuta precedentemente.
È un elenco vastissimo di misure.
Ad esempio, il varo di un nuovo “codice del lavoro” più flessibile, che limita fortemente i diritti sindacali e “canonizza” l’intensificazione dei livelli di sfruttamento nelle aziende. La liberalizzazione dei prezzi dell’acqua, del gas, dell’elettricità e del riscaldamento, contestuale ai processi di privatizzazione delle aziende che ha fortemente colpito i settori più poveri della popolazione, creando situazioni di emergenza sociale che, in alcuni casi, sono sfociati in violenti movimenti spontanei di piazza (in particolare nell’Estremo Oriente, mentre nella grande città di Voronezh le lotte sono state dirette dall’organizzazione locale del PCFR). La riforma del “fondo abitativo”, che ha portato al dilagare della speculazione privata nel mercato immobiliare, determinando, tra l’altro, aumenti vertiginosi degli affitti. Il tentativo (questa volta seriamente intrapreso) di procedere alla privatizzazione e allo smantellamento dei “monopoli strategici”: nelle ferrovie dello stato, con conseguente aumento delle tariffe, ma soprattutto nel ricchissimo settore energetico, con la completa privatizzazione di alcune aziende (“Slavneft”, nelle mani dell’oligarca Abramovitch) e l’inizio dell’assalto decisivo al colosso “Gazprom”, la cui completa liberalizzazione sembra comunque essere stata rimandata a dopo le elezioni politiche e presidenziali, in caso di conferma dell’attuale quadro istituzionale. L’avvio inoltre di incisive riforme di stampo liberista nei settori dell’istruzione e della sanità. E, infine, il varo, tra tumultuose contestazioni, dentro e fuori le mura del parlamento, della legge che consente la compravendita delle terre di proprietà statale, che ha avuto l’effetto di provocare la rottura definitiva del “compromesso istituzionale” con i comunisti e il conseguente passaggio del PCFR alle forme più radicali di opposizione permesse dalla costituzione russa.
Sul piano dell’amministrazione dello stato, il nuovo impulso dato alle riforme economiche è stato accompagnato da un’inversione di tendenza rispetto a quei processi di decentralizzazione, se non addirittura di disgregazione dell’immensa Federazione, che avevano caratterizzato l’“era Eltsin” e che avevano fatto temere il diffondersi di processi di secessione su vasta scala, con il rafforzamento di potentati locali, asserviti, in molti casi, agli interessi delle multinazionali straniere.
Abbiamo assistito all’accelerazione della politica di accentramento, nelle mani dell’amministrazione presidenziale e dell’esecutivo ad essa funzionale, delle fondamentali leve decisionali e degli strumenti di controllo sociale, confidando anche su una certa stanchezza dell’opinione pubblica nei confronti del parlamento, quasi svuotato, dopo le elezioni del 1999, della sua funzione di efficace contrappeso istituzionale.
La “verticale del potere” (così viene chiamato il controllo dell’esecutivo centrale) ha registrato un altro indubbio successo, con il relativo ridimensionamento delle prerogative dei capi delle amministrazioni regionali e autonome, ottenuto, in particolare, attraverso il sostanziale addomesticamento della loro tribuna principale, il “Consiglio della Federazione” (la “Camera alta”, che raggruppa i rappresentanti di regioni, repubbliche e territori autonomi), passata sotto la presidenza di un uomo, Serghey Mironov, esponente di punta del “clan pietroburghese” legato a Putin.
In questi ultimi anni si è cercato di “mettere ordine” nell’apparato dei “media”, con l’assunzione del controllo delle maggiori catene di informazione del paese sotto l’egida di consorzi formati da esponenti delle elites economiche vicine al Cremino, a cominciare da Arkadij Volskij, capo dell’Unione degli industriali russi.
L’amministrazione presidenziale ha rafforzato il controllo delle strutture di sicurezza, istituendo alla fine del 2002 una “Commissione federale anti-terrorismo” saldamente nelle mani di Nikolay Patrushev”, direttore del FSB (ex KGB) e di Boris Gryzlov, ministro degli interni, “fedelissimi” di Putin. In questa mossa alcuni osservatori hanno visto il tentativo di Putin di controllare saldamente la fase preparatoria della campagna elettorale, in vista delle elezioni legislative che si svolgeranno alla fine del 20037.
Anche in Cecenia, pur essendo realisticamente ancora ben lontani dalla soluzione del problema, Putin, il 23 marzo 2003, ha incassato un parziale successo attraverso lo svolgimento di un referendum (che propone un’ampia autonomia alla repubblica, in cambio dell’accettazione della sovranità della Federazione Russa) a cui, secondo le fonti ufficiali ritenute attendibili anche dai “media” occidentali, avrebbe partecipato il 65% degli elettori, che avrebbero accordato il 95% dei loro consensi ai quesiti proposti8.
Abbiamo accennato alla docilità che caratterizza l’atteggiamento anche della Duma (il parlamento), dove la coalizione dei gruppi vicini al presidente assicura la maggioranza di 238 seggi su 450, che viene quasi sempre rafforzata dall’apporto dei gruppi liberali e di destra in occasione di numerose votazioni.
Il presidente ha inoltre segnato un altro punto a suo favore in occasione della decisione di procedere alla fusione dei due principali partiti centristi, “Unità” e “Patria-Tutta la Russia”, in un’unica formazione politica chiamata “Russia Unita” che si propone l’obiettivo di scalzare il Partito Comunista dalla prima posizione elettorale, e che ha cercato di dotarsi di una capillare organizzazione di massa (con 400.000 iscritti, una dinamica organizzazione giovanile chiamata “Quelli che avanzano insieme” e una presenza, con le proprie bandiere azzurre, ad iniziative di piazza) e di sfruttare i suoi forti legami con gli apparati che dirigono i potenti sindacati ufficiali. Il partito, a cui appartengono molte delle più importanti cariche politiche del paese, sia a livello nazionale che locale, potrà sicuramente contare nel corso della campagna elettorale sul sostegno di potenti strumenti mediatici, in particolare radiotelevisivi, che ne stanno costruendo l’immagine di forza capace di autonomia e spirito critico rispetto alle scelte del governo e in grado di competere con i comunisti sul terreno di un programma “orientato socialmente”. Gli ultimi sondaggi, risalenti all’inizio di marzo 2003, collocano “Russia Unita” al secondo posto dopo i comunisti con il 23% delle intenzioni di voto, ben al di sotto, comunque, del 36% raccolto insieme da “Unità” e “Patria-Tutta la Russia” nelle elezioni del 1999. All’abbraccio di “Russia Unita” si è sottratto il presidente della “Camera alta” Serghey Mironov, che ha dato vita a un suo partito di centro, chiamato “Partito russo della vita”, al quale i sondaggi attribuiscono non più dell’1% delle intenzioni di voto.
Sul versante di destra dello schieramento politico russo, le due forze liberali – vale a dire “Mela” di G. Javlinskij, propugnatrice di maggiori aperture sociali, e l’ “Unione delle forze di destra”, che raggruppa gli esponenti dei settori che sostengono scelte liberiste più radicali (Gaydar, Nemtzov e Chubajs) –, in occasione della discussione parlamentare in merito alle scelte di politica economica, pur trovandosi formalmente all’opposizione, non hanno mai ostacolato l’iniziativa del governo, in cui, per altro, sono inseriti alcune personalità molto vicine al partito di Gaydar. Entrambi i partiti dovrebbero farcela a superare lo sbarramento elettorale, con previsioni di voto, rispettivamente del 7% e del 6%.
Buone probabilità di entrare nella Duma ha anche l’estrema destra nazionalista di Zhirinovskij, che sembra contare su uno “zoccolo duro” del 6%, pur avendo sempre avallato tutte le iniziative messe in campo dall’amministrazione presidenziale e dal governo.
Ma è soprattutto contro il Partito Comunista della Federazione Russa che, dopo il furioso scontro sulla questione della proprietà delle terre, è stata avviata un’offensiva allo scopo evidente di relegarlo definitivamente al ruolo di forza messa ai margini dai processi decisionali di fondo.
Per la prima volta dai tempi di Eltsin, sono riecheggiate le richieste, da parte di deputati centristi, di messa al bando del partito, accusato di “cospirare contro la democrazia”. In quell’occasione Putin, che prendeva abilmente le distanze dall’iniziativa repressiva, si rivolgeva in modo diretto ai comunisti chiedendo loro esplicitamente di abbandonare le loro radici ideologiche per trasformarsi finalmente in una forza socialdemocratica.
Subito dopo, nella primavera del 2002, avveniva il “golpe istituzionale”. I comunisti, con una forzatura dell’esecutivo direttamente ispirata secondo loro da Putin, venivano estromessi dalla responsabilità delle principali commissioni parlamentari da loro controllate, a cominciare dalla presidenza del parlamento (affidata a Ghennadij Selezniov, leader dell’ala “socialdemocratica” del PCFR), e privati così di importanti funzioni di condizionamento del lavoro parlamentare, nonché delle “risorse amministrative” ad esse legate. Nello stesso tempo venivano esercitate pressioni nei confronti di Selezniov, che si traducevano nell’apertura di uno scontro senza precedenti all’interno del PCFR con il presidente del partito Zjuganov ( su cui convergeva l’ “ala sinistra” rappresentata, in particolare, dal segretario dell’organizzazione di Mosca Kuvajev), che ha chiamato a raccolta le componenti più moderate, influenti in particolare tra gli amministratori e nei gruppi parlamentari nazionali e locali. Selezniov e i presidenti di alcune commissioni parlamentari, sostenuti apertamente dall’amministrazione presidenziale, sferravano un attacco alla linea di “opposizione comunista irriducibile” propugnata da Zjuganov, rilanciando le ragioni del dialogo con il regime in nome degli “interessi nazionali”, e mantenevano i loro incarichi istituzionali, determinando così, dopo un infuocato dibattito nel Comitato Centrale, il loro allontanamento dai ranghi del partito.
Da quel momento il PCFR – che ancora negli ultimi tempi ha subito la defezione di alcuni esponenti di rilievo, una crisi nei rapporti con alcune componenti della coalizione “patriottica” (l’Unione popolare-patriottica di Russia) e una strumentalizzazione senza precedenti delle sue difficoltà da parte dei “media” di regime –, in previsione della campagna elettorale sembra avere operato una netta svolta “a sinistra”, testimoniata, negli interventi dei suoi dirigenti, dal recupero dei contenuti “socialisti” e “sovietici”, quali segni distintivi dell’identità del partito e dalla volontà di impegnarsi nella costruzione di un vasto movimento di opposizione sociale, attraverso un più incisivo radicamento tra i lavoratori.
Tale cambiamento di linea, che presenta certamente il rischio di alienare le simpatie di settori di elettorato di sinistra più moderata, induce comunque alcuni osservatori di parte avversa a prevederne un impatto su quei vasti settori di opinione pubblica, che hanno subito un peggioramento delle loro condizioni dall’attuazione delle riforme attuate dal governo Kasjanov. Valga per tutti il giudizio di Vladimir Rizhkov, brillante deputato della maggioranza, che, dopo l’espulsione di Selezniov dal partito, ha scritto: “Non è il caso di sottovalutare la capacità dei comunisti di trarre vantaggio dalla drammatizzazione della situazione, in particolare di fronte ad un peggioramento delle condizioni economico-sociali della gente. Le elezioni del 2003 per la Duma potrebbero riservare amare sorprese al Cremlino. L’attuale maggioranza alla Duma sembra convinta che, con al Cremlino un presidente energico e popolare, con il controllo dei “media”, con risorse finanziarie e amministrative praticamente illimitate, essa sarà in grado di risolvere qualsiasi compito. Io non ne sono per niente convinto… Ciò che sta accadendo oggi dà ai comunisti ortodossi e radicali tutte le carte in mano… Effettivamente un partito comunista collocato all’opposizione radicale sarà in grado di ricevere molti più consensi di quanti ne abbia oggi. E allora Putin dovrà affrontare lo stesso problema che si trovò di fronte Eltsin a metà degli anni ’90, quando la sua iniziativa era paralizzata, dal momento che la maggioranza della Duma apparteneva ai suoi oppositori”9.
I sondaggi degli ultimi mesi, del resto, non smentiscono queste previsioni, attribuendo ai comunisti percentuali di consenso che superano il 30%10, e che, nella peggiore delle ipotesi, li confermano primo partito della Russia, in grado questa volta di raccogliere i voti anche di quelle formazioni alla sua sinistra (i partiti di Ampilov, Tiulkin, Prigarin, ecc.) che nelle recenti consultazioni contavano tra il 3% e il 5% dei consensi. Del resto, le ripetute scissioni di “destra”, che il PCFR ha subito nell’ultimo anno, non sembrano avere, al momento, alcun impatto sul piano elettorale: il “Partito della rinascita della Russia”, fondato da Selezniov, non sembra convincere più dell’1% degli elettori, e tutte le formazioni socialdemocratiche, nell’ipotesi improbabile che si unificassero, non sarebbero in grado di “sfondare” lo sbarramento elettorale.

Note

1 Sulla lotta politica tra le elites al potere e sulle caratteristiche del cosiddetto “Gruppo di San Pietroburgo”, “I clan che comandano al Cremino”, www.equilibri.net, 12 dicembre 2001.

2 “La concezione della politica estera della Federazione Russa”, www.mid.ru

3 La politica estera russa è stata ampiamente trattata dall’autore di questo articolo in alcuni lavori pubblicati su l’ernesto.

4 Èil dato che emerge da un sondaggio effettuato dall’importante istituto demoscopico “Fondo per l’opinione pubblica (FOM) il 22 febbraio 2003.
5 Scrive in un articolo dai toni autocritici il leader del PCFR Ghennadij Zjuganov: “Non dobbiamo dimenticare che, negli ultimi anni, sono cambiate radicalmente molte cose, compresa l’atmosfera ideale e politica del paese. Non avendo le forze per contrastare le posizioni dello schieramento popolare-patriottico in campo ideologico, il regime dominante ha adottato la tattica di appropriarsi delle nostre parole d’ordine. La svolta definitiva del regime verso la retorica patriottica si è verificata con Putin. Certo, ciò ha rappresentato una vittoria ideale dell’opposizione, in quanto siamo stati in grado di sradicare le illusioni liberali cosmopolite dalla coscienza di massa. Ma, nello stesso tempo, non avremmo dovuto fermarci a questo risultato, bensì procedere oltre, riempiendo i generici slogan patriottici di contenuti socialisti. E, contemporaneamente, dissociarci con nettezza dall’ideologia pseudopatriottica statale, che caratterizza la fraseologia del regime dominante”. “Pravda”, giornale del PCFR, 14-15 gennaio 2003.

6 In alcuni momenti, Putin è intervenuto abilmente per generare l’impressione di non condividere e di voler correggere l’operato del governo: ad esempio, ha criticato duramente, con ampio rimbalzo mediatico, in sintonia con gli umori dell’opinione pubblica, le previsioni di bilancio del 2002, definite “poco ambiziose”.

7 Èl’opinione del politologo Iosif Diskin, copresidente del “Consiglio di strategia nazionale”. “Putin si sta preparando alle elezioni”, www.apn.ru, 12 marzo 2003.

8 “The Financial Times: i ceceni hanno votato per il piano di Putin di regolamento del conflitto”, www.strana.ru, 24 marzo 2003.

9 Vladimir Rizhkov, “Non sta rischiando solo il Cremino”, www.politcom.ru, 1 maggio 2002. La traduzione in italiano dell’articolo si trova nella rassegna stampa di www.lernesto.it

10 È scontato, in ogni caso, che il ferreo controllo dei meccanismi elettorali e dell’apparato dei media, unito alla prevista pratica dei brogli a cui ci hanno abituato tutte le precedenti consultazioni russe, potrebbe diminuire, anche di molto, la prestazione del PCFR.