Mostruoso e di una potenza senza precedenti nella storia è l’apparato militare costruito dagli Stati Uniti. La cosa è ben nota, e ad essa prestano la dovuta attenzione sia i paesi costretti a vivere sotto la minaccia permanente di bombardamenti, di guerra e di invasione, sia i movimenti impegnati nella lotta per la pace. Meno nota è un’altra realtà, che pure è strettamente connessa alla prima: è la terribile potenza di fuoco multimediale di cui può disporre la Casa Bianca allorché promuove o conduce i suoi interventi militari. Prima che i bombardieri si levino in volo col loro carico di morte, è già all’opera un’intensa campagna di disinformazione, tesa ad isolare il più possibile il nemico e a suscitare contro di lui un’ondata planetaria di indignazione morale. Per fare solo un esempio recentissimo, si pensi all’ultima guerra del Golfo: l’Iraq accumulava e si apprestava ad utilizzare armi di distruzione di massa; milioni di persone erano in pericolo di vita, su vaste aree del globo terrestre già incombeva una nube di morte; erano le ragioni stesse dell’umanità e della morale ad imporre l’intervento militare, ad opporvisi potevano essere solo antiamericani inguaribili…
Conclusa “vittoriosamente” la guerra contro l’Iraq, ecco che Washington può scatenare la sua potenza di fuoco multimediale contro un nuovo bersaglio: è la volta di Cuba. È una campagna per ora solo di disinformazione, ma l’influenza che essa esercita persino a sinistra non mancherà di stupire lo storico futuro. In effetti, è una vicenda che ha dell’incredibile. In un’isola abitata da un popolo coraggioso e di grandi tradizioni rivoluzionarie, a Guantanamo, dagli Stati Uniti strappata a questo popolo e trasformata in una pistola puntata contro la sua tempia, si svolgono fatti raccapriccianti. In questa base militare americana sono rinchiusi, senza processo, senza possibilità di difesa e senza poter comunicare coi propri familiari, centinaia di detenuti. Sono costretti a vivere, o meglio a vegetare in “un canile per umani”. Anzi, in qualcosa che è molto peggio: solo un sadico esporrebbe un cane al “caldo rovente delle celle di lamiera” di Guantanamo. A tutto ciò si aggiungono le torture: “Obbligo di restare in piedi per giorni interi”; “obbligo di restare in ginocchio per giorni interi”, “obbligo di restare in posizioni dolorose per giorni interi”, “cecità imposta con un cappuccio nero”, “privazione del sonno con bombardamento di luce”. Da questo inferno i detenuti cercano di sfuggire con il suicidio, ma a questo inferno sono sottoposti anche due vecchi di 88 e persino di 98 anni e alcuni bambini tra i 13 e i 15 anni (cfr. Vittorio Zucconi su la Repubblica del 27 dicembre 2002 e Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 6 maggio 2003).
Eppure è accaduto che, chiamato a discutere di diritti umani, il Parlamento italiano abbia messo in stato d’accusa non questo orribile campo di concentramento che è al tempo stesso una pistola puntata contro Cuba, ma il paese contro cui questa pistola è puntata e che, nel caso dovesse realizzarsi il “cambiamento di regime” cui Washington aspira, potrebbe essere ridotto alle condizioni cui oggi è ridotta Guantanamo. È paradossale e tragico che questo atto d’accusa sia stato condiviso, sia pure in modo parziale e con toni ovviamente diversi rispetto agli altri schieramenti politici, anche da deputati di Rifondazione Comunista. Naturalmente, essi hanno esposto le loro ragioni. Ma, prima di esaminarle, conviene fare una riflessione. È già un successo dell’imperialismo il fatto che, nell’affrontare la questione dei diritti umani, il Parlamento italiano abbia rivolto lo sguardo a Cuba, piuttosto che a Guantanamo: è una scelta che si può spiegare solo in base alla logica del più forte, a partire cioè dal permanente rifiuto da parte dell’imperialismo di riconoscere il principio dell’uguaglianza tra le nazioni.
Possiamo ora esaminare le ragioni di coloro che a sinistra hanno voluto associarsi alla condanna della “repressione”. Numerosi “dissidenti” – si osserva – sono stati condannati a dure pene detentive. Intanto è da notare che a rappresentare realmente la “dissidenza” rispetto al capitalismo mondiale è un intero popolo che non vuole rinunciare al suo diritto alla rivoluzione, allo Stato sociale, alla dignità nazionale. I beniamini delle sedi diplomatiche e dei servizi americani e occidentali rappresentano, invece, la causa dell’omologazione all’ordine (o al disordine) voluto e imposto da Washington. E questo ordine (o disordine) si estende anche grazie alla presenza nei paesi di volta in volta conquistati di una quinta colonna più o meno ramificata: per rendersene conto, basta riflettere sulle modalità delle ultime guerre, dalla guerra contro la Jugoslavia a quella contro l’Iraq. Ma – si obietta ancora – a Cuba sono state anche pronunciate ed eseguite alcune condanne a morte. Sì, i condannati alimentavano la campagna statunitense di terrorismo e di destabilizzazione, avevano sequestrato una nave e minacciato di morte i passeggeri; sì, si è venuta a creare una situazione drammatica per il popolo cubano, che vede profilarsi il pericolo di un’aggressione e di un bagno di sangue. Ma il rifiuto della pena di morte – dichiarano questi nostri compagni di partito – è una questione di principio.
Sarebbe interessante sapere da quando questo rifiuto è diventato per i comunisti una questione di principio assoluta e assolutamente invalicabile: certo non lo era per Marx, per Lenin, per Rosa Luxemburg o per Gramsci, né lo era per Mao, Ho Chi Minh o Che Gue-vara. Naturalmente, un grande movimento di emancipazione si sviluppa mediante nuove acquisizioni; ed è comprensibile e giusto che in Occidente, a partire da una situazione di relativo benessere e di pace consolidata, si faccia strada la consapevolezza che un sistema giuridico non perde nulla della sua efficacia e della sua deterrenza rinunciando alla pena di morte e persino a quella dell’ergastolo. Proprio per questo, risulta incomprensibile l’ostinazione degli Stati Uniti, dove, non a caso, il boia finisce con l’infierire in primo luogo contro i neri e i poveri. Al movimento di critica nei confronti di pene, che non consentono nessuna possibilità di riscatto al condannato (talvolta lui stesso vittima di sciagurate condizioni ambientali), non possono certo essere estranei i marxisti. Ma impancarsi subito a maestri impazienti e imperiosi per esigere che tutti si adeguino, immediatamente e senza discutere, al nuovo punto di vista; condannare senz’appello paesi e popoli che vivono in condizioni del tutto diverse e ben più precarie: tutto ciò non ha niente a che fare con il marxismo; rinvia invece all’infausta tradizione del colonialismo e alla pretesa delle grandi potenze di rappresentare e di esportare la Civiltà, bacchettando i barbari senza troppi complimenti.
Spiace allora che il compagno Paolo Ferrero, in polemica contro coloro che vogliono evitare in ogni modo di confondersi col coro anticubano orchestrato da Washington, abbia parlato di “schizofrenia tra mezzi e fini, tra strumenti che si usano e obiettivi che si vogliono realizzare”. È appena il caso di dire che, con questo modo di argomentare, è possibile condannare i protagonisti della Resistenza antifascista ovvero della rivoluzione in Cina, a Cuba, in Vietnam o in qualsiasi altro paese: volevano la pace e invece – suprema schizofrenia – impugnavano le armi! A prender sul serio lo schema di Ferrero, a dare prova di coerenza e rigore morale sarebbero stati soltanto coloro che rinunciavano ad insorgere contro l’oppressione nazifascista ovvero contro l’oppressione coloniale.
Ma concentriamoci sul problema delle recenti condanne a morte a Cuba. A partire da un bilancio rigorosamente autocritico della loro storia, oltre che sulla pena di morte, i comunisti hanno maturato una nuova visione anche su un altro punto essenziale: l’importanza del diritto e della certezza del diritto; senza di essa non c’è reale uguaglianza dinanzi alla legge. Ebbene, allorché l’imperialismo promuove con ogni mezzo il “cambiamento di regime”, interviene una situazione d’eccezione: il normale effetto di deterrenza delle pene detentive è vanificato dalle speranze riposte nell’intervento di una superpotenza pronta a portare al potere anche i peggiori criminali, purché siano i suoi fedeli lacché. In tali circostanze, la pena di morte può divenire disgraziatamente l’estrema e drammatica misura per realizzare la certezza del diritto: solo così si può sventare il pericolo che i responsabili di crimini odiosi non solo rimangano impuniti ma siano addirittura premiati mediante l’innalzamento alle più alte cariche di governo e di Stato. Il fine, a cui aspiriamo, di un sistema giuridico che eviti il ricorso alla pena di morte entra in conflitto col fine non meno essenziale della certezza del diritto e della reale eguaglianza dinanzi alla legge. È una situazione tragica, che però va messa sul conto dell’imperialismo: rifiutarsi di prenderne atto significa non già essere fedeli ai principi ma, al contrario, assumere una posizione inaccettabile, oltre che sul piano politico, anche su quello della civiltà giuridica, significa sacrificare a cuor leggero il principio della legge eguale per tutti.
I comunisti non possono sfuggire alle loro responsabilità, per un ragione politica ma anche per una ragione etica, di etica per l’appunto della responsabilità. Riflettiamo sul modo in cui l’imperialismo americano è riuscito a inghiottire il Nicaragua. L’ha sottoposto al blocco economico e militare, al controllo e all’eversione dei suoi servizi segreti, al minamento dei porti, ad una guerra non dichiarata, ma sanguinosa, sporca e contraria al diritto internazionale.
Dinanzi a tutto ciò, il governo sandinista si vedeva costretto a prendere misure limitate di difesa contro l’aggressione esterna e la reazione interna. Ed ecco l’amministrazione USA ergersi a difensore dei diritti democratici conculcati dal “totalitarismo” e scatenare la sua potenza di fuoco multimediale contro il governo sandinista, nell’ambito di una campagna che non ha mancato di trascinare alcune anime belle della “sinistra”. La libertà di manovra di Ortega dinanzi all’aggressione è stata progressivamente ridotta e annullata. Mentre strangolamento economico e bombardamento propagandistico erodevano la base sociale di consenso del governo sandinista, le pressioni militari e il terrorismo (alimentato da Washington) dei contras fiaccavano la volontà e la capacità di resistenza. Il risultato: elezioni in cui l’imperialismo ha potuto far valere sino in fondo il suo strapotere finanziario e multimediale; già dissanguato e stremato, col coltello più che mai puntato alla gola, il popolo nicaraguense ha deciso “liberamente” di cedere ai suoi aggressori. È stato non già il trionfo della democrazia e dei diritti umani ma la loro liquidazione: a livello internazionale si è imposta la legge del più forte mentre, sul piano interno, si è assistito alla cancellazione dei diritti economici e sociali: umiliato e privato della sua dignità nazionale, il popolo nicaraguense vive oggi in larga maggioranza al di sotto della soglia della povertà.
È una lezione che non deve essere persa di vista. Sarebbe grave se la liquidazione del diritto del popolo cubano alla difesa della rivoluzione e delle sue conquiste sociali dovesse diventare per una certa “sinistra” il mezzo per conseguire il fine della “coerenza” o meglio della rispettabilità borghese. In questo caso sarebbe di sicuro garantita la coerenza tra mezzo e fine, ma solo nel senso del carattere ignobile o mediocre dell’uno e dell’altro.