Rivendicazione del passato e sua critica radicale:per un nuovo progetto comunista

1. Se la rivoluzione francese ha trovato il suo interprete critico in Hegel, e quelle dell’Ottocento lo hanno avuto in Marx, il grande e tragico settantennio che va dalla Rivoluzione d’ottobre alla dissoluzione dell’Unione sovietica forma di questi tempi soprattutto l’oggetto di polemiche che raramente si sottraggono all’alternativa fra la stanca (e sempre più rara) ripetitività dell’apologia, e la forsennata denigrazione da parte degli avversari di sempre e più ancora dei pentiti recenti.
Così il compito, pure vitale, di una comprensione nella teoria viene ogni volta dilazionato: esso comporterebbe, al tempo stesso, l’assunzione responsabile di un’eredità e la sua messa in questione critica, sgradite sia agli apologeti sia ai liquidatori. In attesa che questo compito venga finalmente affrontato (e che ne esistano tanto le premesse politiche quanto le capacità teoriche), è inevitabile limitarsi, in questa sede, all’asserzione, molto schematica, di qualche elemento di analisi che mi pare ineludibile.
2. Nell’arco di quei settant’anni è giunto a compimento il progetto della modernità, che aveva avuto il suo atto inaugurale nella distruzione della società feudale ad opera della Rivoluzione francese. Per essere più precisi, è giunta a compimento la versione “di sinistra”, giacobina e socialista, di quel progetto (ce n’è stata anche una di destra, liberale, pure giunta al suo esaurimento per ragioni diverse). Si trattava di uno straordinario programma di trasformazione a guida politica della società e dello Stato in funzione di un orizzonte di valori etici: l’eguaglianza di diritti, la giustizia sociale, l’emancipazione degli sfruttati e la liberazione degli oppressi. L’ideale regolativo di questo programma era la perfettibilità della natura umana, la realizzazione storica delle sue potenzialità migliori una volta liberatala dai vincoli che la limitavano o la corrompevano. Il corso della storia era pensato come suscettibile di venire orientato verso l’avvento di un mondo migliore; vettori di questo orientamento erano le classi protagoniste della dialettica storica (la borghesia contro il feudalesimo, il proletariato contro la borghesia), ma la capacità di universalizzazione dei loro interessi immediati, la traduzione di questi in un orizzonte di valori comuni all’umanità nel suo insieme, era l’opera della guida politica del movimento storico, che ne rappresentava la “coscienza” e l’intenzionalità.
3. È nel quadro di questo progetto che deve venire pensato il senso storico globale della Rivoluzione di ottobre e delle sue conseguenze. È difficile negare che esse abbiano rovesciato, o messo in discussione, rapporti di dominio sociale che fino ad allora erano presentati come immutabili. Per la prima volta, il proletariato industriale diventava soggetto e protagonista di storia; il potere borghese e capitalista, il principio della divisione ineguale delle ricchezze e del comando, perdevano il carattere di naturalità e di necessità; lo perdeva, insieme con loro, il conclamato diritto al dominio imperialistico del mondo da parte dei Paesi dell’Occidente capitalista.
È soltanto a partire dalla Rivoluzione d’ottobre, e grazie all’esistenza statuale dell’Unione sovietica, che può venir posta concretamente, nel mondo intero, la questione di una equa soddisfazione dei bisogni sociali, materiali e intellettuali, di grandi masse di uomini e donne, come la Rivoluzione francese aveva fatto per i diritti di cittadinanza; è solo in questo quadro che i popoli e le nazioni oppresse dall’imperialismo hanno potuto cominciare a pensare la possibilità della propria liberazione, e a lottare concretamente per essa.
A queste masse e a questi popoli la rivoluzione aveva inoltre mostrato che il dominio capitalista e imperialista non poteva aver fine se non attraverso un processo di mutamento radicale, appunto rivoluzionario, dell’ordine esistente; che non ci si poteva attendere alcuna sua evoluzione che portasse spontaneamente all’emancipazione e alla liberazione degli sfruttati e degli oppressi; e, infine, che questo mutamento era storicamente possibile.
La storia del Novecento sarebbe stata soltanto una storia di conflitti intercapitalistici e interimperialisti se non fosse accaduta la Rivoluzione di ottobre, se essa non si fosse consolidata nella forma statuale dell’Unione sovietica prima e del campo socialista poi, se in tutto questo la lotta di classe contro la borghesia e i movimenti di liberazione contro l’imperialismo non avessero trovato un punto di riferimento ideale e un appoggio concreto, talvolta anche economico e militare oltre che politico. Tutto questo può apparire ovvio e banale, ma forse non è inutile ricordarlo in tempi di revisionismo e di pentitismo.
4. Ma si tratta soltanto della necessaria premessa di uno sforzo analitico, che dovrebbe andare non nel senso di un regesto notarile di meriti ed errori, ma della comprensione dialettica dello svolgimento di un processo in cui le finalità progettate sono spesso risultate stravolte e alla fine negate da un complesso intreccio di necessità imposte dalla situazione esterna, di limiti politici e culturali, di deformazioni connesse all’esercizio del potere statale. Di questo processo vorrei qui soltanto richiamare alcuni nodi contradditori.
4.1 La tradizione giacobina e poi comunista ha individuato nel Partito lo strumento della sintesi politica, dell’assunzione e dell’universalizzazione dei valori (insomma, della “coscienza” collettiva), e ha quindi affidato al Partito il ruolo di guida e di direzione del movimento rivoluzionario e dello Stato che questo ha prodotto. La guida del Partito ha tuttavia finito per dare luogo alla sua identificazione con lo Stato; il partito ha così perso le sue capacità di orientamento, di critica, di mediazione fra Stato e società, e si è progressivamente trasformato in una struttura burocratica di gestione del potere, impegnata nella difesa e nella conservazione dei propri interessi e dei propri privilegi. La forma partito, e il suo rapporto con lo Stato pre e post-rivoluzionario, costituiscono uno dei grandi problemi posti dall’esperienza storica del socialismo europeo.
4.2 Il maggiore impegno post-rivoluzionario, prima nell’Unione sovietica, poi negli altri Paesi socialisti, è consistito nella difesa del potere stato e contro i loro formidabili nemici interni ed esterni. Questa esigenza vitale ha però determinato lo sviluppo ipertrofico di un apparato militare e poliziesco che ha finito per assumere, inerzialmente, un’autonomia funzionale estranea alle finalità per cui era stato costruito, trasformandosi in un diaframma impermeabile fra Partito e Stato da un lato, popolo dall’altro. La difesa dalle minacce interne ha prodotto una diffidenza sistematica nei riguardi delle masse popolari, la richiesta di una delega totale e perciò anti-democratica del potere al Partito, allo Stato e ai suoi apparati repressivi. La sfiducia nel popolo e nella capacità di autogoverno delle masse organizzate ha costituito un fattore determinante nella crisi politica dell’esperienza socialista in Europa.
4.3 La cultura economico-sociale del tardo Ottocento e del primo Novecento (anche di ispirazione marxista) vedeva nello sviluppo della produzione industriale e nella fabbrica che ne costituiva il veicolo, lo strumento esclusivo del progresso sociale, il luogo di rafforzamento e di emancipazione della classe operaia, la garanzia di potenza dello stato rivoluzionario.
Industrializzazione, fabbrica, socialismo costituivano dunque in questa cultura una serie di quasi sinonimi. È stato molto difficile comprendere che la riproduzione della forma materiale del modo di produzione capitalistico recava quasi inerzialmente con sé le premesse per una parallela riproduzione dei suoi rapporti sociali, quindi del permanere dell’assoggettamento della classe operaia. Il problema è stato reso ancora più acuto dai processi di industrializzazione accelerata imposti a un paese ancora prevalentemente agricolo come la Russia.
4.4 Il principio strutturale di funzionamento dell’economia socialista consisteva in due coppie di variabili interconnesse: piena occupazione/bassa produttività; garanzie sociali/bassi consumi. Il sistema determinava inevitabilmente un deficit di competitività nei riguardi dell’economia strutturale in un valore condiviso (tempo libero, assistenza sanitaria e istruzione per tutti, garanzia di abitazione e di lavoro). Il richiamo dei consumi ha prodotto la crisi di consenso al sistema, e troppo tardi si è diffusa la comprensione che l’aumento dei consumi comportava necessariamente l’aumento dello sfruttamento, disoccupazione, restrizione delle garanzie sociali. Si è tentata una competizione con il capitalismo su di un terreno inevitabilmente perdente (il livello di vita misurato in termini di consumi) invece che puntare sulla qualità della vita e i valori collettivi; ma anche questo è dipeso dalla sfiducia nelle masse popolari di cui si diceva prima.
4.5 L’internazionalismo, come appoggio economico, politico e militare ai movimenti rivoluzionari di liberazione dall’imperialismo, si è trasformato in molti casi nell’imposizione di un modello politico-economico estraneo alle culture dei popoli e delle nazioni di cui si favoriva l’emancipazione, ed è stato così spesso visto come la sostituzione di una vecchia oppressione con una nuova (ne sono emblematici i casi della Jugoslavia e soprattutto di Cuba).
5. Coloro che continuano a richiamarsi in politica alla tradizione comunista – che cioè praticano in forme organizzate e teoricamente consapevoli l’antagonismo rispetto al sistema di dominio capitalistico e imperialistico, nella prospettiva universale della liberazione e della giustizia – si trovano dunque a raccogliere una doppia eredità. Da un lato, non possono non considerare la Rivoluzione d’ottobre come l’atto fondatore della propria tradizione politica, come nella teoria lo è stato il pensiero di Marx. Dall’altro, essi devono fronteggiare in modo critico i problemi posti dall’esperienza degli stati socialisti, nell’Unione sovietica e negli altri Paesi. Rifiutare con fermezza la teoria revisionistica dei due “totalitarismi” (che equipara l’URSS si regimi fascisti europei) non significa però identificare il senso storico della Rivoluzione d’ottobre e del progetto comunista con la vicenda dello stato sovietico. Piuttosto, è compito ineludibile dei comunisti riflettere a fondo nell’elaborazione teorica collettiva sui problemi che qui sono stati delineati e sui molti altri affini, comprenderne la natura dialettica, progettare orizzonti teorico-pratici di soluzione. La stessa eredità degli errori e delle deviazioni del socialismo realizzato è importante, perché né gli uni né le altre sono stati casuali o arbitrari o soggettivi. Anche di qui, nella ferma rivendicazione della continuità con il passato che non può non trasformarsi in una sua critica radicale, il progetto comunista deve trovare il suo nuovo inizio, dopo il compimento tragico e grandioso della modernità che ha segnato il XX secolo.