Ripensare il passato “pensare” il futuro

Nell’ultimo tuo editoriale su “Critica Marxista” tu sottolinei che la contemporanea sconfitta dei socialisti francesi con Jospin e dei socialisti olandesi, e cioè di due politiche riformistiche in parte diverse tra di loro, chiude un periodo delle sinistre socialdemocratiche in Europa e chiede una radicale trasformazione del pensiero della sinistra. Quella che hai chiamato una “rivoluzione nel cervello”. Non era più semplice dire che è pienamente fallita l’ illusione delle sinistre moderate di utilizzare qualche residuo margine riformistico e che si è dimostrata vera l’analisi delle forze alternative e/o antagonistiche? Non siamo all’anno zero…

Certo non siamo all’anno zero, ma neppure molto più avanti. E non credo che neanche le forze antagonistiche ritengano di avere un’analisi compiuta della realtà attuale. So bene che esiste una vasta letteratura critica assai aggiornata sulle contraddizioni vecchie e nuove del modello economico sociale di tipo capitalistico che ha vinto la guerra fredda ed ha unificato il mercato mondiale. Non avrebbe neppure potuto sorgere all’interno dei paesi sviluppati il movimento contro l’attuale modo della globalizzazione senza l’esistenza della consapevolezza di queste contraddizioni. Tutto questo impegno teorico, così come il lavoro concreto delle forze politiche alternative e/o antagonistiche – come tu dici – va conosciuto e studiato. C’è stata una ripresa di discussione sui temi fondativi della sinistra di ispirazione socialista, una discussione che per lungo tempo fu sospesa o ignorata nel secolo trascorso nella illusione di aver trovato una scienza definitiva e a causa di quelle che parevano conquiste stabili già avvenute e non reversibili: il sistema sovietico, il “campo socialista”, eccetera…

Scusa se ti interrompo, ma questa ripresa d’interesse teorico è stata pagata a caro prezzo. O pensi che sia un bene il crollo di quel mondo?

La mia speranza, come quella dei comunisti italiani, era che quel mondo fosse riformato, perché era chiaro a molti di noi che senza cambiamenti profondi in direzione della democrazia e del mercato la situazione sarebbe diventata insostenibile. È questo che mosse Berlin-guer a critiche radicali e infine allo “strappo” . Tuttavia, la speranza riformatrice si rivelò infondata. E io credo che l’ impossibilità di cambiamenti che evitassero, com’è accaduto, la piena e totale omologazione di quei paesi al modello occidentale – e, anzi, alla forma più selvaggia di capitalismo – derivava anche dalla paralisi per lungo tempo imposta al lavoro teorico, all’analisi sociale, al pensiero critico, al libero dibattito delle idee.
Gli stessi comunisti italiani non furono immuni da remore e riserve verso una discussione senza tabù sui propri princìpi, anche se è stato sbagliato – e sarebbe ancor oggi assurdo – ignorare la quantità e la qualità della discussione che ci fu nel PCI su molti temi rilevanti. E, tuttavia, la paura dei pericoli per l’unità del Partito frenò molto se non la di-scussione di vertice e tra gli esperti, l’organizzarsi di correnti diverse di opinione, che pure c’erano. Natu-ralmente, è vero che il contrapporsi delle idee può portare alle rotture. Ma è molto peggio nascondere le divergenze quando esse ci sono, o reprimerle, come avvenne nel caso del Manifesto. Così ci si sclerotizza. Il PCI implose e si autosciolse nel ’91 senza aver mai più discusso il suo “programma fondamentale” scritto nel 1956 e senza una vera e profonda indagine non formale sul significato delle parole essenziali : socialismo, uguaglianza, libertà, democrazia, potere, eccetera. Si avvertiva che il modo tradizionale di intendere quelle parole andava reinterpretato, ma non se ne fece nulla. Lo sforzo dell’ultimo Berlin-
guer fu considerato una stravaganza. E fu in tal modo che si andò ad uno sfondamento prima culturale che politico. I comunisti italiani non soffrirono del sonno dogmatico che portò molti partiti comunisti, pur eroici, a liquefarsi pochi anni dopo l’inizio della guerra fredda, Tuttavia, anche tra noi ci furono blocchi mentali rilevanti. Ed è un bene riprendere a discutere sui fondamenti se si vogliono superare le sconfitte…

Sconfitte, appunto, non più solo del vecchio movimento comunista del secolo scorso, ma anche del movimento socialdemocratico europeo, che pure ha diretto in questi ultimi anni quasi tutti i paesi del continente. Quindi ripeto la domanda: perché non dire che hanno avuto ragione le forze alternative e/o antagonistiche?

Perché, come stavo dicendo, la ripresa della discussione teorica che accompagna la diaspora, la frammentazione della sinistra – sia quella moderata, sia quella antagonistica – non esprime ancora, né sul versante della sinistra moderata, né dalla parte antagonistica, un punto di vista realmente capace di interpretare la realtà del tempo presente e neppure di capire bene, fino in fondo, quali sono state le cause degli errori che hanno portato ieri alla sconfitta del movimento comunista, oggi del movimento socialdemocratico. Credo che noi dobbiamo ricordare a noi stessi che queste sconfitte hanno un significato diverso e avvengono su un terreno diverso, ma hanno anche punti in comune.
La sconfitta del modello sovietico fu un crollo di sistema. Quella dei socialdemocratici è oggi una sconfitta politica generalizzata. Ma l’elemento comune sta nel fatto che la differenza sostanziale di metodo tra comunisti e socialdemocratici non determinava una differenza di finalità. La disputa era sulla “via” per il socialismo. I comunisti difendevano la rivoluzione sovietica, anche se – come in Italia – abbracciavano la democrazia. I socialdemocratici avevano sempre sostenuto la via democratica. Ma la finalità rimaneva per tutti “la proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio”. Blair ha iniziato la sua trasformazione dei laburisti sopprimendo – come si sa – l’art.4 dello Statuto che fissava come obiettivo del Partito, appunto, la proprietà sociale. Il riformismo di cui tanto si parla era fino a ieri finalizzato, sia per i socialisti che per i comunisti, al medesimo obiettivo, anche se i comunisti italiani non l’avevano nello statuto. È questo obiettivo che o è fallito o è stato abbandonato.

Ma nel modello sovietico la proprietà sociale era largamente diventata proprietà statale. Non è la medesima cosa.

Senza dubbio. Ma anche dove, come nella Jugoslavia di Kardelj e di Tito, si cercò di praticare l’autogestione, l’esperimento sboccò ugualmente in un potere burocratico. E il sistema kolkosiano (i kolkos erano le cooperative agricole n.d.r.) sovietico non riuscì mai, non dico a creare un’agricoltura florida, ma neppure a produrre abbastanza grano per la Russia. La vittoria degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale nella guerra fredda è avvenuta su ogni terreno, ma in particolar modo su quello economico. C’è una connessione profonda tra libertà politiche, democrazia e mercato e tra mercato e espansione economica.
Ciò non significa, però, che vi sia solo da accodarsi al modello capitalistico vincente, e meno che mai alle politiche neoliberiste. Solo essendo privi di senso della realtà – o in malafede – si può pensare che la distruzione dell’ambiente, la fame del mondo, le zone di disperazione e frustrazione nei paesi emergenti, le sacche di povertà e l’alienazione nei paesi ricchi, siano incidenti passeggeri.
Tutto questo è solo l’altra faccia della medesima medaglia. Il sistema desiderante e competitivo su cui è radicato il modello fin qui vincente, ha limiti e contraddizioni visibili a occhio nudo.
Anche se l’osservazione superficiale non basta.

Tu ritieni, dunque ,che la critica del sistema capitalistico debba continuare. Ma contemporaneamente dici che c’è connessione tra mercato e democrazia. Non c’è contraddizione?

Non mi pare. Anche il mercato ha una sua evoluzione storica e dunque, la medesima parola copre fenomeni diversi. Un mercato esisteva anche quando non c’era ancora il capitalismo. E le regole attuali per il mercato determinano il suo funzionamento non meno degli “spiriti animali” che muovono il sistema. Queste regole astrattamente si muovono in una direzione, praticamente in quella opposta. Prendi il caso Enron, General Electric, ATT, Tyco, Worldcom e tanti altri recenti crack americani. Tutte queste erano “public companies” e cioè di proprietà dell’azionariato diffuso, senza nocciolo familiare come alla FIAT, con enorme peso dei fondi pensione ecc. La gestione era manageriale. E veniva esaltata a parole la trasparenza, il sistema dei controlli. Si è visto come è andata. Il “capitalismo popolare” secondo il modello della Tatcher e di Reagan ha prodotto, nel caso di tutti questi fallimenti, danni irreparabili a lavoratori e pensionati, enormi guadagni a manager più o meno corrotti. Dunque, le regole o erano manchevoli o sbagliate. Perché certe regole non sono gradite: pensa alla depenalizzazione berlusconiana del falso in bilancio. Altre regole scritte e non scritte, quelle che difendono con le unghie e con i denti l’arbitrio dei gruppi dominanti, sono invece severamente applicate. Ma sono queste che caratterizzano il sistema. La lotta di ispirazione socialista ha sempre pensato, appunto, a diversi rapporti di produzione, cioè a diversi rapporti tra “i fattori della produzione”. Lenin introdusse la NEP, la “nuova politica economica” che reintrodusse elementi di mercato. E si cercò anche di pensare, nella esperienza sovietica, ad un “mercato socialista”. La discussione nella Russia degli anni ’20 fu soffocata. E venne soffocata anche perché vi era in germe il rapporto tra democrazia e mercato, e cioè tra le diverse libertà da salvaguardare. Ma quella discussione va ripresa, e viene ripresa, a partire dai marxisti degli Stati Uniti, che conoscono meglio di altri il capitalismo di oggi.

Un “altro mondo è possibile” , ma se con ciò si intende il superamento della divisione sociale del lavoro, la critica di un modello individualistico della vita civile, la lotta contro le diseguaglianze non solo economiche ma di livelli culturali, non si pone allora il problema di un “che fare” che un secolo fa ha diviso ma anche spinto innanzi i comunisti e i socialisti del tempo?

Certamente. La lotta di trasformazione sociale è un farsi e disfarsi continuo di ipotesi e di esperienze, è una storia di fallimenti e di rinascite. Ma tenderei a mettere in guardia dalla priorità della espressione “che fare”. Prima del fare viene il pensare. Anche il “fare” apparentemente spontaneo presuppone un modo di pensare, o anche solo uno stato d’animo, sentimenti, passioni, eccetera, che spingono al “fare” . Milioni, miliardi di disperati non si rivoltano affatto. La rivolta nasce se c’è qualche convincimento anche minimo che esista l’idea di “rivolta” e che questa idea si affacci come speranza e possibilità. La priorità è sempre “che pensare”. Il che non vuol dire che bisogna chiudersi in casa a studiare. Per la verità un po’ più di letture non farebbero male a nessuno. Ma soprattutto, bisogna riflettere insieme sulle parole che adoperiamo, sulle esperienze che facciamo. Tu dici, per esempio, “superamento della divisione sociale del lavoro”: cosa si intende esattamente con questa espressione, oggi? Superare “un modello individualistico” – come tu aggiungi – comprende o no la comprensione e valorizzazione dell’ individuo come tale? Marx parlava della dignità e della libertà di ogni singola persona. E la dignità e la libertà prevedono la creatività libera di ciascuno. Fin qui vince la società così com’è, perché in qualche forma essa risponde – in modo secondo me criticabile alla radice – a bisogni profondi che dobbiamo conoscere e reinterpretare. Una sinistra criticamente avvertita non deve voltare la testa di fronte a dati macroscopici. Noi viviamo in un mondo economico fatto di centinaia di migliaia di imprese piccolissime, piccole e medie e di pochi, pochissimi gruppi economicamente dominanti, talora in forma monopolistica. La capacità di intraprendere sorge dalla volontà e capacità di creare. Anche la vostra rivista è una “impresa”, nel senso che l’avete concepita – e cioè è una creazione – e , poi, dovete farla funzionare – e cioè ha una sua esistenza attiva. Anche i partiti, i movimenti, esprimono una volontà creatrice e dunque di intraprendere qualcosa e, cioè, di svolgere una attività intorno a un tema di cui si avverte un bisogno. Quando il bisogno è campato per aria o la “gestione” è improvvida e fallimentare, i movimenti o i partiti si disfano, come si disfano le imprese immediatamente economiche. Non bisogna confondere, come avviene, la volontà di creare anche nel campo economico con il modello pratico che assume questa volontà.
L’homo faber, di cui parla Revelli, non si identifica con la volontà di irregimentazione e di organizzazio-ne, con il macchinismo.
Innanzitutto, a seguire il raccont biblico, è alla donna – non all’uomo– che viene in mente di cogliere il frutto proibito della conoscenza determinando la fine dello stato di natura. La fabricità virile è solo uno degli aspetti di una capacità creatrice che poi sfocerà nel capitalismo, ma la volontà creatrice esiste per conto suo di fronte a bisogni elementari e a bisogni complessi a loro volta creati.
Una sinistra alternativa non deve confondere la critica al modo dell’accumulazione e al suo uso con la negazione della funzione dell’intraprendere in ogni campo, compreso quello della produzione di oggetti fisici o servizi. Questa confusione ha generato conseguenze disastrose nella teoria sociale e nella pratica. Fino al punto che per molti, visti i guasti determinati dalla negazione della cosiddetta “iniziativa privata”, sono passati al campo opposto e cioè alla esaltazione acritica della impresa capitalistica, come se essa fosse l’unico modo di pensare (e di agire) la creatività dei singoli. È vero piuttosto il contrario.

Mondializzazione, imperialismo, stato-nazione: su quali basi ritieni che i comunisti debbano operare per un nuovo internazionalismo?

Penso che coloro i quali, ritenendosi comunisti o socialisti ( ma, lo ripeto, sono definizioni che chiedono di essere riprecisate), vogliano operare per una critica sociale aggiornata e per una nuova idea internazionalistica, avrebbero come primo dovere quello di ripensare se stessi. Per vedere, innanzitutto, i limiti – o gli errori – delle concezioni fin qui tramandate. “Proletari di tutti i paesi unitevi” : già la prima guerra mondiale vide la catastrofe dell’atteggiamento dei maggiori partiti socialisti ad eccezione di quello di Lenin e dei socialisti italiani di Lazzari e Serrati. Ma prima ancora, vasti gruppi – maggioritari – dei partiti socialisti furono per il colonialismo. E i laburisti inglesi e i socialisti francesi continuarono dopo la seconda guerra mondiale. E poi : a quale “interesse generale” o a quale “interesse di classe” si pensò durante il periodo dell’egemonia sovietica nel movimento della III internazionale? Il bisogno di “salvare la rivoluzione” fu dominante e sarebbe assurdo non comprenderne i motivi. La gara con i sovietici costrinse l’occidente a concessioni, e lo scontro bipolare aiutò il mondo coloniale a iniziare la propria liberazione. Ma la causa internazionalista era contraddittoria con la sua identificazione in un paese solo e in un sistema sbagliato.
Quei partiti comunisti che seppero svilupparsi, come l’italiano o il francese, potettero ottenere fortuna abbracciando l’idea – lo dico semplificando – che l’interesse della classe operaia coincidesse con la causa della nazione, della democrazia e dell’internazionalismo. Ma l’interesse nazionale non coincide con l’interesse del mondo se non attraverso complesse e difficili mediazioni. E lo stesso interesse di classe può elevarsi a interesse generale universale soltanto attraverso astrazioni che abbisognano, per diventare concrete, una reinterpretazione dell’idea medesima di “classe operaia” e del significato di una politica che non voglia dimettere la difesa dei suoi interessi.
Per fare un esempio : il metallurgico americano del settore automobilistico che difende la sua fabbrica dalla concorrenza asiatica a basso contenuto salariale fa benissimo e, al limite, spinge il capitalismo asiatico a incrementare i salari ai fini dell’ espansione del proprio mercato interno e non a forzare le esportazioni al livello di dumping. Tuttavia, l’ autodifesa del proprio lavoro non coincide con un progetto egemonico di tipo internazionalistico. Questo non può che passare, oggi, attraverso una ridiscussione della funzione dei paesi a capitalismo sviluppato e una modifica del loro modello di sviluppo fondato sull’espansione indiscriminata dei consumi.
L’unica democrazia che c’è, è,per ora, nazionale e non è vero che gli stati-nazione abbiano perso ogni potere. Gli Stati Uniti sono uno Stato-nazione e menano fendenti di morte per affermare il loro dominio. Ma se è sul terreno dello stato nazionale che si deve ancora lottare, la lotta può essere efficace solo se passa l’idea che il mutamento del modello di sviluppo non può riguardare un paese solo, ma deve investire l’occidente e , innanzitutto, l’Europa dove ci può essere una maggiore propensione a farlo. Altrimenti, vinceranno le pulsioni imperialistiche del blocco dei paesi capitalisticamente sviluppati verso il resto del mondo. Pulsioni imperialistiche, dico, perché è fisicamente impossibile estendere il livello dei consumi a tutti e, dunque, si tratta di imporre vincoli e limiti ad alcuni per consentire l’arbitrio di altri.

Nel recente congresso di Rifondazione è stata usata l’espressione “Bolognina di sinistra” e anche qui come “un nuovo inizio” in un rapporto stretto con il movimento dei movimenti. Questo sulla base di un bilancio fortemente critico dell’esperienza del movimento operaio: riconsiderazione radicale del rapporto partito-movimenti, critica del primato della politica, della forma partito e delle sue alleanze.
Qual è la tua valutazione in proposito?

Ho già risposto a questa domanda sulla Rivista del manifesto. La mia opinione è che la radicale innovazione era ed è necessaria. Da quel che dicevo prima dovrebbe essere chiaro che, anzi, penso che non si sia innovato abbastanza da nessuna parte. Io non so se rovesciando il rapporto partito-movimenti si ottenga un risultato diverso da quan-do si pensava che il movimento avrebbe dovuto essere funzione del partito. Confesso che mi pare poco praticata in generale una analisi veritiera su quel che siano i partiti oggi, pur vedendo le differenze di intenzionalità politiche tra di loro. Ovunque sento parlare di un deficit di democrazia, ad esempio. E, ovunque, sento che si segnala il permanere di forti pulsioni notabilari, a scapito di una concezione che aspiri a quel lavoro comune (“l’intellettuale collettivo”, si diceva) che parrebbe necessario.
E neppure mi consolano le recenti amministrative. Vedo certo una migliore tenuta, in relazione alla maggiore disaffezione verso il centro-destra. Ma avverto la mancanza di espansività di tutte le sinistre, anche se vanno di certo meno peggio se unite tra di esse e con altri sulla base di scopi programmatici di una certa serietà.
Con espressioni come “primato del Partito” o, di contro, “primato dei movimenti” temo che si ripropongano antiche dispute, improduttive. Dovremmo tutti cimentarci con un’ analisi più spietata di quan-to abbiamo fatto finora nel passato e nel presente. C’è un filone di pensiero critico e di pratica associativa, nel movimento socialista e comunista e più in generale nel movimento operaio , da recuperare. Non può non impressionare il riproporsi e radicarsi di fenomeni culturali che si ritenevano superati: le piccole patrie, l’avversità per il diverso, le fedi magiche, gli integralismi … Con la cultura tradizionale, compresa la migliore, del vecchio movimento d’ispirazione socialista non ce l’abbiamo fatta. Non ce l’ha fatta lo storicismo, anche se la consapevolezza della storicità è indispensabile. E c’è uno scacco non solo dello scientismo, ma della scienza, ridotta e umiliata a potere, divenuta strumento per il dominio.
C’è da ridare un senso al nostro agire. Ma non lo faremo senza riscoprire il peso dei comportamenti, il bisogno di coerenza, il disgusto per i tatticismi. Partirei dalla cosa più semplice e più difficile. Partirei da un esame serio di noi stessi e dell’agire politico di ciascuno di noi. Tanto più attento quanto maggiori sono le responsabilità. In questo senso sono convinto che il problema è sempre quello di innovare continuamente. Naturalmente, c’è stata una “innovazione” come semplice abiura, e come adeguamento alla società data. Ma questa non è innovazione, ma conservatorismo mascherato. L’innovazione che conta è quella che non smarrisce i motivi per cui esiste la sinistra. E che sa rivedere e riscrivere le risposte teoriche e pratiche date nel passato: talune valide ieri e oggi, altre forse valide una volta ma non più nel presente, altre ancora da costruire interamente rispetto a cambiamenti profondi.

In questo “ripensamento” di cui parli, in questo sforzo di verità di cui parli, che ruolo assegni al PCI, di cui sei stato parte, e a Togliatti che è stato il grande protagonista dell’affermazione del PCI?

Tu mi chiedi qualcosa che difficilmente si può riassumere in una risposta. Comunque, per dirla sommariamente, ritengo innanzitutto che il PCI e Togliatti abbiano avuto un ruolo determinante nella costruzione della democrazia italiana, nel superamento di antichi inceppi e di vecchi vizi. Il movimento dei lavoratori divenne adulto. E furono superati mali antichi: innanzitutto il propagandismo e l’ignoranza dei problemi reali delle persone, delle classi e del Paese. Dunque fu un’opera straordinaria, che si giovò anche di elementi di “fede”, se mi passi la espressione. Ci furono momenti drammatici in cui solo un certo prestigio mitizzato del Partito aiutò a superare rischi che potevano avere conseguenze tragiche: l’insurrezionalismo nell’immediato dopoguerra, le provocazioni alla guerra civile come fu l’attentato a Togliatti nel ‘48, le tendenze all’annullamento della Costituzione e poi il terrorismo, eccetera. In tutto questo la lezione di Togliatti fu decisiva.
Ma ciò non deve nasconderci i limiti che oggi possiamo vedere meglio. Essi non furono in quella che si definisce la “doppiezza”, oppure per altro verso in una sopravvalutazione del “politico” e del “partitico” a scapito del sociale e dei movimenti. Certo, Togliatti era e non poteva non essere uomo del suo tempo e della sua cultura ben determinata. Egli era stato un costruttore della III Internazionale, che poi partecipò a sciogliere, e fu, anche, pertecipe della costruzione dell’Unione Sovietica, sebbene con tutte le riserve che diventeranno poi manifeste nella sua politica. Non c’era doppiezza nell’idea che l’Unione sovietica andasse difesa ed aiutata ad evolversi cercando di costruire qualcosa di nuovo in Occidente: agli occhi di Togliatti l’URSS era una prosecuzione della storia russa, altra era la storia dell’Italia e dell’ Occi-dente. Laggiù – si sottolineava – la democrazia non era mai sorta, non c’era stata civiltà comunale, l’evolversi dei principati, l’affermarsi della borghesia come classe rivoluzionaria,ecc.
Qui da noi era tutto diverso. L’ana-lisi storica della realtà effettuale che Togliatti impugnava non era strumentale, come si dice, ma, certo, non sfociava solo nella comprensione, ma in elementi di giustificazione della vicenda staliniana esorbitando dal suo compito. La cultura storicistica, in cui Togliatti, come Gramsci, si era formato, aveva il grande pregio di impedire le forme di dogmaticità correnti nel movimento comunista, ma al tempo stesso conteneva il rischio di muovere all’azione in rapporto a quelle che si definivano le “necessità storiche”. Il punto era la difficoltà di arrivare a una definizione certa di queste “necessità”. Anche l’interpretazione del momento storico presuppone un sistema di riferimenti e di valori. Ed è su questi che occorre continuamente riflettere per scegliere.
Per esempio : di fronte al rischio negli anni ‘30 e ‘40 di veder liquidato il gruppo dirigente del PCI, come andava accadendo nell’URSS per altri partiti esuli dalla loro patria, fu giusta una scelta realistica che salvò la vita di quasi tutti. Ma fu giusto, poi, cercare di mantenere alto il prestigio di una vicenda storica che andava invece interamente discussa? Toccò a Krusciov questo compito, seppure nei confini che si sanno. Togliatti criticò la formula del “culto della personalità” e ando più oltre: ma arrivò certo con fatica e in un secondo tempo.
C’era qui il limite dovuto, appunto, al convincimento che, tutto sommato, la vicenda staliniana era stata una risposta necessaria a una realtà determinata, altrimenti non avreb-be vinto chi aveva vinto. Tuttavia questo limite non fece ostacolo ad un riesame della vicenda sovietica solo perché ne forniva una giustificazione, ma anche per un motivo opposto. Togliatti comprendeva, giustificava e valorizzava l’URSS, ma rifiutava di seguire quella strada. Se riteneva che la risposta staliniana fosse comprensibile attraverso la storia russa, egli impugnava la storia italiana per sostenere una linea e una strada diversa ed opposta. Togliatti dice subito nel ’44 che non bisognava fare “come in Russia” e stronca ogni velleità pericolosa e perdente ad uno scontro di classe avulso dalla realtà storica e dal bisogno di alleanze. Da subito compare, dunque, il bisogno della politica come consapevolezza reale : ma non credo che si possa confonderla con certo politicismo di oggi. Non scompaiono mai in Togliatti le motivazioni che fondano un partito di trasformazione sociale, altrimenti non si spiegherebbe neppure il rapporto con l’URSS, quando sarebbe stato così facile e così semplice accettare lo stato di cose esistente nell’Occidente. Semmai, nella concezione togliattiana della politica si può osservare che dal novero delle cose da discutere sono escluse le motivazioni ideali e teoriche originarie. Il timore, che a me parve sempre in lui vivissimo, era che le discussioni di carattere teorico si trasformassero in inconcludenti dispute ideologiche, timore assolutamente fondato.
Tuttavia, non ci può essere saldezza dei principi senza una permanente criticità che li discuta e li sostenga, senza una cultura della realtà.
La cultura della realtà è il contrario di un orientamento all’opportunismo. L’opportunista dice che la realtà lo obbliga ad abbandonare le sue scelte etiche, egli – cioè – piega la realtà ai suoi bisogni. Ma chi per sostenere una scelta etica ( per l’uguaglianza, per la libertà e la dignità delle persone, per la giustizia ecc.), ignora la realtà , si condanna alla impotenza. Debbo leggere la realtà per misurarmi con essa sulla base delle mie scelte etiche. Ciò era vero ieri ed è vero oggi.
Oggi, ad esempio, sbaglieremmo se sottovalutassimo la paurosa offensiva di destra nel mondo, in Europa e in Italia. Del modo di rispondervi fa parte innanzitutto – com’è ovvio – la capacità di distinguere tra nemici, avversari, possibili alleati in modo da comporre un’intesa sociale e politica sufficientemente ampia. Allo stesso tempo, a sinistra occorrerebbe anche ridefinire idee e finalità serie e credibili. Di fronte a un mondo occidentale in cui si vuol generare una paura che giustifichi un restringimento della democrazia e dei diritti dei lavoratori, la stessa capacità di allearsi con altri passa attraverso una ridefinizione della sinistra come forza che vuole un cambiamento apprezzabile e condivisibile. Se rimarremo al punto in cui – a sinistra – vi è solo chi propone di far meglio nel mantenimento del sistema e chi penserebbe di rovesciarlo senza sapere dove si voglia andare, non faremo molta strada.