1. La modifica dell’assetto istituzionale del Paese ha costituito uno dei temi sui quali maggiormente si è incentrato il dibattito politico nel corso degli ultimi anni. I termini della questione dovrebbero essere quindi ormai definitivamente chiariti, invece non è così. Restano, infatti, molti elementi irrisolti e, soprattutto, non è chiaro quale sia l’approdo finale del processo di riforma istituzionale.
Quest’ambiguità è apparsa peraltro evidente nel corso dell’ultima fase, quando in nome di un autentico federalismo e in contrapposizione al federalismo fittizio del centro sinistra, le forze della destra hanno scatenato in alcune regioni un’offensiva sulla questione della “devolution”. In quella circostanza sono emersi, per la prima volta in maniera esplicita, gli elementi controversi. Come è noto, il centro-destra ha rivendicato: un trasferimento ulteriore di competenze dallo stato alle regioni, con particolare riferimento alla politica internazionale, alla scuola, alla sanità e all’ordine pubblico. Non solo, è stata posta più o meno esplicitamente la questione delle risorse che vanno garantite alle regioni. In questo senso, si è fatto riferimento ad una quota oscillante fra il 60 e il 70% dei tributi erariali raccolti a livello regionale. Ed infine, si è rivendicato un ruolo delle regioni per quanto riguarda la definizione di alcuni organi istituzionali, come il Senato (da trasformare in Camera delle regioni). L’assunzione di alcune scelte in materia di sanità o scuola, come è avvenuto in Lombardia, ha poi aperto un conflitto istituzionale col governo sulla legittimità di questi atti, in ordine al rispetto dei principi costituzionali in tema di diritti dei cittadini.
2. Il centro sinistra ha opposto un rifiuto esplicito a tali richieste e il governo non ha esitato ad opporsi all’indizione dei referendum. Tuttavia, questa risposta non è stata del tutto convincente perché è apparsa difensiva e in parte contraddittoria rispetto alle posizioni espresse nel dibattito nel corso di questi anni. Consideriamo la questione delle competenze delle regioni. Su questo tema, in verità, i fatti più significativi si sono avuti nella produzione legislativa, anziché nelle proposte di revisione costituzionale. Si pensi al DL 112 della Legge 59/97 che ha avviato un corposo trasferimento di competenze dallo stato alle regioni. Non c’è dubbio che i “governatori” del centro-destra sono andati molto al di là delle competenze ivi prescritte, anche se non si può dimenticare che nella stessa proposta di riforma della seconda parte della Costituzione si ammette esplicitamente la possibilità di un’attribuzione differenziata delle competenze alle singole regioni. Analogamente, la destinazione di quote così rilevanti dei tributi erariali alle regioni, anche se appare un’evidente forzatura, nondimeno costituisce l’estremizzazione di quel principio di federalismo fiscale ormai assunto dallo stesso centro sinistra. Così per ciò che riguarda il Senato delle regioni si tratta, come è noto, di una proposta fatta propria da diversi esponenti del centro sinistra e, infine, se è vero che l’introduzione in Lombardia del buono scuola per i ricchi costituisce un precedente sconosciuto, é pur tuttavia vero che la logica del finanziamento alla scuola privata che informa tale provvedimento è stato condiviso dalle forze del centro sinistra. Nella sostanza, non ci troviamo di fronte ad una proposta alternativa di riforma istituzionale ma all’estremizzazione di un apparato concettuale condiviso.
3. È del tutto evidente che ciò non significa che le attuali distanze fra Polo e Ulivo, in tema di riforma istituzionale dello stato, siano irrilevanti. Sappiamo bene come in tale materia anche l’entità delle modifiche introdotte acquisti un peso notevole, potendo comportare ricadute consistenti sulla struttura economico sociale del Paese. Il punto è che se le forze del centro-sinistra marcano oggi difficoltà nel reggere l’offensiva del centro-destra ciò si deve al fatto che il modello istituzionale che si sta affermando, nella sua ispirazione di fondo, è conforme ad un disegno moderato e conservatore. Peraltro, una semplice ricostruzione del dibattito sviluppatosi nel corso di questi anni mette in evidenza come l’attuale impostazione istituzionale sia stata fortemente condizionata dal tentativo del centrosinistra di stabilire rapporti con la Lega. Molti a sinistra hanno pensato che tali concessioni fossero puramente nominalistiche mentre, invece, avrebbe dovuto essere chiaro fin dal principio, che una volta scelto il paradigma federalista diventava inevitabile lo svilupparsi di un processo di autonomizzazione regionale dagli sbocchi incerti. Fino a prova contraria, la realizzazione di un assetto federale ha costituito tradizionalmente il mezzo per consentire l’unificazione di singole statualità; sarebbe ben curioso, a questo punto, utilizzare la stessa soluzione per garantire maggiore autonomia a regioni appartenenti ad uno stato unitario. L’effetto più probabile sarebbe quello di spingere le singole regioni verso l’assunzione di prerogative statali. Ed infatti, le soluzioni prospettate fino ad ora (dal federalismo fiscale, alla diversificazione dei poteri attribuiti alle singole regioni, al riconoscimento della possibilità di definire localmente le forme di governo e i sistemi elettorali) anziché rafforzare l’autonomia locale creano le condizioni per un processo di crescente differenziazione territoriale. In questo contesto c’è da meravigliarsi se qualcuno spinga sull’acceleratore dell’autonomia regionale rischiando di mandare in pezzi lo stato unitario?
4. La sottolineatura circa il rilievo che ha assunto la componente tattica nelle scelte istituzionali, se contribuisce alla demistificazione di tutta una serie di luoghi comuni che hanno accompagnato la discussione istituzionale in questi anni, tuttavia non ci dice ancora dei processi economico-sociali che costituiscono il fondamento sul quale poggiano tali scelte. Tali processi investono fondamentalmente due campi: la gestione delle risorse statali e le politiche di sviluppo. Per quanto riguarda il primo aspetto è del tutto evidente che la crisi del keynesismo ha comportato una svolta negli indirizzi della politica economica con l’affermarsi di orientamenti tesi alla riduzione della spesa pubblica. Nel nostro Paese, anche in virtù dei vincoli posti dal trattato di Maastricht, questi orientamenti si sono tradotti in un estesissimo processo di privatizzazione delle aziende a partecipazione statale e nella riduzione della spesa sociale. A livello degli enti locali tale politica si è tradotta nell’avvio della privatizzazione dei servizi, nella riduzione dei trasferimenti e nell’accrescimento della pressione fiscale. Il risultato complessivo è stato quello della ridefinizione del ruolo dello stato che da “gestore” è diventato “regolatore” e dei diritti sociali che da “universali” sono divenuti tendenzialmente “particolari”. Nel frattempo, l’ente locale da “distributore di risorse” è diventato “esattore” per effetto del recupero di una parte degli oneri derivanti dalla gestione delle istituzioni locali tramite l’ imposizione fiscale locale. A ben vedere l’enfasi posta sul federalismo fiscale appare in larga misura funzionale a questo disegno di contenimento della spesa.
5. I nuovi orientamenti in tema di enti locali non sono scissi dalla concezione dello sviluppo locale che si è venuta affermando. Se, da tempo, è stato messo in risalto il ruolo delle economie esterne nella promozione dello sviluppo locale, mai come in questa fase, in coincidenza con il dispiegarsi dei fenomeni di globalizzazione, la crescita del sistema produttivo si è intrecciata con le dinamiche territoriali. Sempre di più lo sviluppo dell’impresa è legato all’efficienza del sistema locale, al punto che ormai la competizione globale ha assunto i caratteri della concorrenza fra territori. Da questo punto di vista le proposte di differenziazione delle competenze delle regioni e di attribuzione alle stesse di consistenti risorse tributarie rispondono alla necessità di conformare le politiche locali alle esigenze del sistema produttivo. In questo approccio è ovviamente implicito l’accrescersi degli squilibri territoriali. Ma la centralità attribuita alle dinamiche competitive, oltre che stimolare processi spinti di autonomizzazione regionale, tende anche a modificare la natura delle politiche locali nel senso che la ripartizione delle risorse tende a privilegiare il sistema delle imprese anziché gli interventi sociali. Non solo, gli interventi complessivi tendono ad essere orientati al perseguimento dell’obiettivo della competizione del sistema produttivo. Ciò vale per il sistema formativo, per la gestione del mercato del lavoro (con i casi estremi dei contratti d’area), per le politiche tributarie, per le scelte in tema di infrastrutture. In questo contesto, le scelte sui servizi sono doppiamente insidiose. Da un lato, infatti, funzioni pubbliche a rilevante contenuto sociale sono piegate alle esigenze delle imprese e dall’altro, la loro dismissione diviene il mezzo per allargare il sistema dell’imprenditoria privata. Col che tende ad affermarsi il principio secondo il quale la cessione di funzioni pubbliche costituisce la condizione per la promozione dei processi di sviluppo locale.
6. Esiste quindi una connessione profonda fra i processi socio-economici in corso ed alcuni assunti dell’attuale proposta di modifica istituzionale. Il caso italiano, a tale proposito, non presenta sostanziali differenze rispetto alle nuove tendenze emerse nel corso di questi anni in Europa. Lo specifico va semmai ricercato nelle scelte operate in tema di forme della rappresentanza. Accanto alla dismissione delle funzioni pubbliche e alla centralità dell’impresa nelle politiche locali, in Italia le riforme istituzionali stanno introducendo un’estesa applicazione del presidenzialismo come forma specifica di governo locale. Ciò si è avuto inizialmente con comuni e province per giungere fino alla soluzione transitoria, che probabilmente diventerà definitiva dopo il varo dei nuovi statuti regionali, dell’elezione diretta del presidente delle regioni. L’opzione presidenzialista completa il disegno istituzionale facendogli assumere dei connotati più radicali di quelli assunti in altri paesi. L’elemento decisivo è rappresentato dalla forte connotazione plebiscitaria che il sistema della rappresentanza istituzionale viene ad assumere. Con ciò tende ad indebolirsi il ruolo dei partiti, si rafforza il potere personale del capo del governo locale e, a smentita di alcuni luoghi comuni sulla possibilità dell’alternanza dei governi locali, il sistema di potere locale tende ad ossificarsi (e ciò a maggior ragione se fosse approvato il terzo mandato per sindaci e presidenti della provincia). In ultima analisi, si può sostenere che la rivendicazione di una maggiore autonomia per le istituzioni locali avanzata nel corso di questi anni da parte di molti amministratori si è tradotta, in larga misura, nel rafforzamento del potere di alcuni di questi mentre la collettività locale è stata progressivamente espropriata di reali possibilità di controllo e sempre più demotivata alla partecipazione.
7. Sulla base di questa ricostruzione degli elementi fondanti il nuovo sistema istituzionale in gestazione viene in gran parte a cadere l’enfasi propagandistica, che ha accompagnato la stagione delle riforme istituzionali, sulla necessità di dare risposta ad una domanda di autonomia frustrata da scelte accentratrici. Nella sostanza, invece, il modello in fieri più che rispondere a queste giuste esigenze costituisce un adattamento alle nuove istanze liberiste. In questo senso esso assume la valenza di un nuovo paradigma istituzionale, fondato sulla riduzione del ruolo pubblico, la subordinazione delle politiche locali alle esigenze del sistema delle imprese e lo svuotamento del sistema della rappresentanza.
Sarebbe un grave errore sottovalutare la forza di questo disegno che si propone di trasformare profondamente gli assetti sociali locali. I tratti di tale trasformazione sono peraltro già parzialmente riconoscibili. Essi vanno ricercati: nella disgregazione sociale per effetto non solo dei nuovi processi di trasformazione produttiva (ad esempio la crescente precarizzazione del lavoro e lo sviluppo della nuova imprenditoria sociale), ma anche dell’indebolimento della rete di protezione sociale che a sua volta sollecita la ricerca di soluzioni individuali (quando non alimenta forme più o meno occulte di pratiche clientelari); nell’indebolimento delle identità collettive per effetto delle trasformazioni del sistema della rappresentanza locale (di cui si è fatto cenno in precedenza) con la connessa crisi dei partiti, per l’esaurirsi, accanto al deperimento delle forme dello stato sociale di significative aggregazioni di interessi collettivi e per i processi di segmentazione sociale prodotti dalle differenziazioni nelle condizioni di vita; infine, nell’emergere di culture di ispirazione localista alimentate dai processi di disgregazione sociale e fondate sulla ostilità nei confronti del diverso (sia esso l’immigrato o l’emarginato). Più in generale, questi processi costituiscono potenti incentivi per la formazione di comunità locali autoreferenziali, cementate da culture politiche interclassiste, ripiegate su opzioni individuali e propense alla delega.
8. Il riconoscimento di queste tendenze di fondo non implica l’assoluta automaticità degli esiti. La prospettiva prima tratteggiata è certamente inquietante, ma sarebbe sbagliato considerarla ineluttabile. La ragione sta nel fatto che sussistono elementi di contraddizione sui quali è possibile agire. Molto sommariamente, essi possono essere individuati sia sul fronte istituzionale, in senso stretto, sia su quello sociale. A livello istituzionale, un’applicazione estrema del federalismo fiscale incontra difficoltà obiettive nell’esigenza di garantire comunque una coesione nazionale, imprescindibile anche nella attuale fase della competizione globalizzata e di riconfermare la funzione delle grandi organizzazioni politiche. In secondo luogo, il processo di autonomizzazione delle regioni si sta traducendo in una nuova forma di centralismo non meno devastante del precedente. A farne le spese sono in primo luogo i comuni e le province che rischiano di finire in balia delle scelte dei governi regionali, senza poter contare come in precedenza su un quadro normativo e su indirizzi politici omogenei. Ne deriva un elemento di conflittualità difficilmente componibile.
Infine, il ridimensionamento delle funzioni pubbliche attraverso la “commistione pubblico/privato” e le pratiche di “sussidiarietà orizzontale” tendono a perdere ogni legittimità nel momento in cui cominciano a diventare evidenti gli svantaggi sociali di simili operazioni, ma, soprattutto, il contenimento della spesa finisce con il pregiudicare la stessa agibilità delle istituzioni locali che vedono compromesse le possibilità di praticare politiche locali efficaci.
9. A livello sociale le contraddizioni non sono meno rilevanti. Esse sono particolarmente evidenti in ambiti locali circoscritti. In primo luogo, le contraddizioni di classe tendono a riemergere, anche in forme nuove. Non si tratta più di proiezioni a livello territoriale del tradizionale conflitto capitale lavoro ma dell’emergere di una crescente differenziazione dei redditi, determinata, oltre che dalle dinamiche salariali, dall’accrescersi dell’imposizione fiscale locale e dalla riduzione di quel salario indiretto garantito, sino ad ora, da un’efficiente rete di servizi sociali. Questa contraddizione è tanto più significativa in quanto consente una connessione fra lavoratori dipendenti, pensionati e fasce sociali svantaggiate. Nell’ambito del lavoro dipendente emergono inoltre fatti nuovi. Ciò che ci interessa qui evidenziare non sono tanto i tratti generali di quel disgelo sociale che si comincia ad intravedere, quanto i fenomeni che direttamente si connettono con i processi in atto a livello locale. Mi riferisco, a tale proposito, al fatto nuovo rappresentato dalla terziarizzazione del conflitto che è direttamente connessa al deperimento dello stato sociale. A tale riguardo assai significative sono state alcune esperienze di lotta dei lavoratori dei servizi sociali locali, per molti versi la punta di diamante delle mobilitazioni contro le privatizzazioni dei servizi. Vi è infine un terzo ambito dove si aprono nuove contraddizioni. Mi riferisco alla crescita di nuovi squilibri a livello urbano. Il divario fra luoghi ad alto pregio e periferie sta crescendo e con questo la condizione di marginalità sociale in alcune aree. Ma vi è anche una condizione più generale di declino della città prodotta dal venir meno di una funzione regolatrice con le ricadute negative che ciò ha significato in termini di peggioramento della condizione di vita urbana. Su questo terreno si sviluppano conflitti sporadici, ma non meno interessanti.
10. La situazione, per quanto compromessa, non è quindi da considerarsi immodificabile. Ma il punto è che occorre fare chiarezza sul modello di governo locale su cui si vuole puntare. Ora, il punto di partenza non può che essere un rifiuto esplicito dell’impianto federalista e la proposizione, in alternativa, di un modello statuale in cui la garanzia di diritti universali e di condizioni di sviluppo omogeneo sul territorio nazionale si connetta alla massimizzazione delle capacità di autogoverno delle comunità locali. Sulla base di tale impostazione, risulta abbastanza evidente che la condizione preliminare è una svolta di politica economica che ridia centralità alla funzione pubblica, che pertanto destini risorse adeguate agli enti locali e che restituisca alle istituzioni locali funzioni rilevanti sul piano della programmazione e della gestione. Ciò significa, in primo luogo, una profonda revisione delle politiche sui servizi locali restituendo al pubblico una funzione decisiva ed ampliando le tutele sociali. Ma significa anche una diversa concezione dell’uso delle risorse locali, imboccando decisamente la strada delle redistribuzione delle risorse a favore delle fasce a basso reddito e garantendo agli enti locali fondi certi, svincolati dalle capacità di imposizione fiscale locale e modulati in modo tale da garantire la possibilità di uno sviluppo equilibrato. E significa anche garantire una capacità di programmazione sul piano delle politiche territoriali per superare le condizioni di marginalità e disagio che spesso si traducono in nuove forme di “segregazione”.
11. È a partire da questa impostazione che acquista particolare significato la questione delle forme della rappresentanza locale. L’ampliamento della sfera delle competenze degli enti locali è un fatto importante ma a condizione che gli stessi enti locali si caratterizzino per il massimo di pluralismo politico, di decentramento di poteri e di partecipazione democratica. Non si può superare un federalismo fortemente segnato da logiche separatiste con un anacronistico e altrettanto pericoloso “federalismo municipalista”. L’autoreferenzialità di una comunità in competizione con le altre non è una soluzione auspicabile. Per questo va respinto ogni approccio presidenzialista e va garantito un’effettiva capacità di controllo delle assemblee elettive nei confronti degli esecutivi. Non solo, va anche previsto un esercizio più efficace delle forme di democrazia diretta (come nel caso dei referendum o di altre forme di consultazione) e va arricchita la possibilità di iniziativa dei cittadini, a partire dagli organismi di controllo sui servizi pubblici. Così come va esteso il decentramento dei poteri specie nelle città maggiori, senza escludere la possibilità di forme di consultazione vincolante sulle grandi scelte, dai bilanci ai piani regolatori. Ma questo percorso democratico passa in primo luogo attraverso la ripresa di un conflitto locale. I segnali di ripresa che sono stati prima richiamati costituiscono una premessa interessante. Il punto è che allo stato attuale questi elementi di effervescenza sociale si presentano spesso in modo episodico e non sempre coerente. Quello che manca è un riferimento generale capace di indirizzare gli elementi di conflitto, estenderli e, soprattutto, inquadrarli in una prospettiva di cambiamento delle politiche e dei governi locali. Ma questo dovrebbe essere, per l’appunto, il compito di un partito.