Rifondazione Comunista è morta. Viva la Rifondazione Comunista!

1. Il compagno Achille Occhetto, dopo la riunione romana che ha dato l’avvio alla cosiddetta “Cosa rossa”, ha sensatamente dichiarato: “Si realizza quello che ho proposto con la svolta: togliere la falce e martello e fare una sinistra unita. Solo che ci si arriva con venti anni di ritardo.” (L’Unità , 9 dicembre 2007). Non mi risulta – posso sbagliare – che i dirigenti di Rifondazione abbiano risposto con sdegno a una simile tesi. Anzi Fabio Mussi, interrogato dal “Manifesto”, ha rafforzato quell’affermazione: “La falce e martello finisce? (…) Io il problema l’ho risolto nel 1989.” (Il Manifesto, 9 dicembre 2007). Ciò sta a indicare che almeno la “destra” della “Cosa rossa” (nel clima vigente l’appellativo di “destro” non ha nulla di offensivo) ha dunque ben presente il senso storico-politico di ciò che sta avvenendo, lo rivendica apertamente e lo mette in rapporto diretto (ripeto: sensatamente) con lo scioglimento del PCI la nascita del PDS[1]. Ma la “sinistra” della “Cosa rossa” in via di costituzione non ha niente da dire a tale riguardo? La “Cosa rossa” è veramente la realizzazione di ciò che Achille Occhetto aveva proposto nel 1989 (“togliere la falce e martello e fare una sinistra unita”), una realizzazione che, per giunta, avviene con venti anni di ritardo? Qualcuno ricorda che proprio quella proposta occhettiana risultò a molti talmente intollerabile da determinare una frattura organica nel popolo comunista (una frattura strategica e con caratteristiche di massa) e la nascita di Rifondazione?

2. Poche cose – a me sembra – danno il senso del livello di degradazione a cui è giunto il dibattito politico in Rifondazione quanto l’assordante silenzio del gruppo dirigente in merito al problema della rifondazione comunista in quanto tale. Intendo dire che in politica si può anche verificare che un’ipotesi risulti, alla prova dei fatti, infondata e impraticabile; facciamo politica immersi nella storia umana e nella lotta di classe, non realizziamo escatologie promesse dal Cielo, dunque la smentita delle nostre ipotesi ad opera dei fatti deve essere messa nel conto delle cose possibili; tanto più una simile smentita può e deve essere messa nel conto quando si tratta (come si trattava nel caso della rifondazione comunista) di un progetto ambizioso, inedito, difficilissimo. Ma in tal caso un gruppo dirigente responsabile avrebbe il sacrosanto dovere di annunciare ad alta voce la smentita della propria ipotesi, di spiegarne i motivi ai militanti ed alla base del partito, di analizzare approfonditamente i termini di un tale scacco, e ciò proprio per poter ripartire – se è il caso – da questa analisi autocritica. Si potrebbero fare decine di esempi di dirigenti comunisti che dimostrarono, in circostanze politiche anche più difficili delle attuali, una simile capacità, una simile onestà politica e intellettuale. Altri tempi o, forse, altra tempra etico-politica di dirigenti. Eppure quelli di noi che si accinsero al compito della Rifondazione comunista avevano ben presente (e lo scrivemmo in mille documenti) il carattere problematico e processuale del fatto politico nuovo che andavamo determinando: un pro – cesso, appunto, quello della rifondazione, che andava seguìto con cura, auto-valutato momento per momento, corretto in itinere, costantemente “monitorato” (per usare una parola alla moda), giacché fra le tante cose che il fallimento del PCI e del socialismo sovietico ci aveva insegnato c’era anche l’osservazione del buon senso secondo cui “un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte”; e dunque – fuori di metafora – si trattava di cogliere subito il manifestarsi di processi degenerativi e di correggerli prima che si consolidassero portando al fallimento del progetto. Nulla di tutto questo accade nel PRC, e (a dire la verità) questa mancanza non risale solo a oggi o a ieri. Senza un tale bilancio del nostro recente passato, e anche del presente, a me sembra del tutto impossibile parlare del futuro.

3. C’è qualcuno che ricorda ancora che cosa affermammo di voler tentare quando, in non pochi, demmo vita a Rifondazione comunista? (Sia detto fra parentesi: forse anche l’attuale rarità di “soci fondatori”, cioè l’altissimo numero di compagni e compagne che ha lasciato Rifondazione dopo averla promossa, costituisce un problema che andrebbe messo a tema). Ebbene: quale era l’obiettivo che tutti noi, magari con accenti diversi, ci demmo come compito politico nel 1990-91? Noi dicemmo una cosa chiara, anche se non semplice, e la dicemmo con piena convinzione: volevamo rifondare, qui e ora (cioè nello spazio geografico dell’Occidente capitalistico e nel tempo della vittoria del capitalismo reale) un nuovo partito comunista di massa: né più né meno. È da notare che la scommessa, evidentemente assai ardita anzi del tutto controcorrente, era dunque duplice: anzitutto si proponeva un Partito, cioè si scommetteva sul fatto che la forma-partito non fosse necessariamente impraticabile in quan to tale e che invece si potessero superare i difetti profondi dei partiti del movimento operaio che erano già stati fatti oggetto di critica radicale da parte di una illustre tradizione del marxismo rivoluzionario (una tradizione che si era espressa vitalmente anche in Italia, specie nel ’68 e nel ’77). Insomma noi scommettemmo anche sul fatto che la forma-partito fosse, per dir così, recuperabile, e anche dell’esito di questa scommessa occorre oggi dare conto (ma su questo ritornerò più avanti). In secondo luogo si proponeva un partito comunista, non un partito genericamente progressista o democratico o laburista o socialista, non un partito qualsiasi, ma un partito che si voleva definire e si definiva comunista. Ciò voleva dire che il partito comunista nuovo, da rifondare appunto, aspirava a riprendere la grande storia del comunismo, e in particolare di quello italiano, tuttavia ricercando, individuando e correggendo profondamente i gravi errori che avevano portato alla catastrofe dell’URSS e anche alla fine ingloriosa del PCI. Derivava da qui quella che a me pare essere stata la novità teorica (e politica) più rilevante di Rifondazione comunista: il rifiuto del banale rinnegamento liquidazionista del comunismo à la Occhetto non si traduceva per noi in una mera conservazione di qualche brandello residuale della tradizione comunista ma ci impegnava in una ricerca teorico- pratica sul comunismo stesso, evidentemente non priva di elementi autocritici nel merito di questa nostra grande storia (era proprio qui – ripetemmo spesso – la decisiva differenza fra il concetto di “rifondazione” e quelli di “restaurazione” o di “conservazione” del comunismo). Ma allora una tale ricerca permetteva, e anzi richiedeva, che venissero chiamate a uno sforzo comune tutte le correnti e le diverse tendenze della tradizione comunista e rivoluzionaria, nessuna esclusa a priori; a tutti veniva chiesto semplicemente – (semplicemente? Ecco ancora una volta qualcosa di semplice ma difficile a farsi, come dice Brecht del comunismo stesso) – di non arroccarsi nella propria identità settaria ma di rimettersi in questione nella ricerca teorico-pratica (cioè politica) da condurre tutti insieme, collettivamente, senza primogeniture, senza recinzioni e senza garanzie. Dunque un grande sforzo comune di innovazione e, al tempo stesso, di sintesi, per meglio dire di ricerca e costruzione di una nuova, inedita sintesi politica. Confesso che sotto questo aspetto il primo anno della segreteria Garavini mi appare, nel ricordo, un periodo politicamente straordinario (altri, e diversi, ne furono i limiti); era in effetti straordinario vedere discutere “fra compagni”, fianco a fianco e spesso su posizioni incrociate, nelle prime riunioni che costruivano il PRC, compagni che provenivano dal PCI e da DP, compagni trotzkisti e compagni di tradizione stalinista o maoista, giovani del movimento alle prime esperienze e partigiani, ex autonomi e compagne femministe, sindacalisti della CGIL e delle RDB e dei Cobas, etc. Forse durò poco (daterei alla morte di Libertini il punto di crisi di tale fase) ma, ripeto, fu straordinario e anche molto utile. Ci furono momenti nei quali (forse ingenuamente) io pensai che stavamo procedendo davvero sulla buona strada, ad esempio quando vedevo affluire compagne e compagni nuovi e diversi, che apportavano alla Rifondazione il loro bagaglio di idee e di entusiasmo, o quando mi ritrovavo nello stesso partito con compagni dai quali mi avevano separato per anni aspre incomprensioni (se non veri e propri odii), oppure quando un compagno autorevole come Armando Cossutta, parlando del movimento del ’77, dichiarò pubblicamente che a suo tempo non aveva capito nulla di quel movimento e che ora sentiva la necessità di ridiscuterne a fondo.

4. Qual è, 17 anni dopo, il bilancio di quel tentativo, di quel progetto, di quelle due scommesse? (A proposito: faccio notare che 17 anni sono un tempo storico, non solo politico: sono, tanto per farsi un’idea, la distanza che intercorre fra l’Ottobre sovietico e il VII Congresso dell’Internazionale, o fra l’avvento del fascismo e lo scoppio della II Guerra mondiale, o fra la Costituzione e la morte di Togliatti, e così via). Io direi, in estrema sintesi, che in 17 anni abbiamo costruito un partito che, se somiglia a qualcosa, somiglia semmai di più a un piccolo PSI che non a un PCI migliorato e corretto. Noi avevamo detto di voler costruire un partito comunista di massa e, 17 anni dopo, questo partito è fermo sotto al 6% dei voti, quelli che prese alla prime elezioni in cui si presentò (una percentuale di voti probabilmente fisiologica, che forse prenderebbe qualsiasi falce e martello stampata su una scheda elettorale), e i partiti comunisti sommati fra loro non raggiungono neppure i voti che aveva Rifondazione prima della scissione; quel che forse conta (o dovrebbe contare) ancora di più: gli iscritti sono in continuo calo e, soprattutto, il nostro insediamento sociale è risibile, specie nella nostra classe, l’influenza del partito è vicina allo zero nei sindacati e pressoché inesistente nei nuovi settori del conflitto sociale (penso, ad esempio, agli immigrati e ai giovani precari). Noi avevamo detto di voler innovare la teoria e la pratica comunista e, 17 anni dopo, non abbiamo dato vita a nessuna seria ricerca teorica attorno alla rivoluzione in Occidente; l’inchiesta, cioè il vero e indispensabile motore di ogni ricerca marxista che voglia partire dal conflitto di classe e dalle sue nuove forme, si è da tempo arenata, giacché ad essa non credono i gruppi dirigenti né vi partecipano; i tratti di innovazione teorica sono stati solo degli strappi che, comunque li si giudichi, sono venuti tutti e solo dall’alto (dal compagno Bertinotti); non abbiamo dato vita né a una nuova teoria rivoluzionaria né ad alcuna forma di intellettualità collettiva, né a un sistema di scuole quadri e di auto-formazione, né a centri di studio e ricerca, e neppure (questo mi sembra davvero clamoroso) a una casa editrice o almeno a una rivista del partito. Il quotidiano comunista del partito, che il partito finanzia e che i militanti comunisti del partito sostengono con il loro lavoro gratuito nelle Feste, non solo rivendica il proprio diritto di non essere comunista, ma si impegna disinvoltamente in campagne anticomuniste, come quella recente contro Cuba e la sua rivoluzione. Noi avevamo detto di voler fare nel nuovo partito comunista una sintesi vitale fra le diverse culture comuniste e rivoluzionarie, che superasse le antiche contrapposizioni contaminandosi reciprocamente: abbiamo dato vita ad un partito di fatto federativo, diviso (ormai, dal 5° Congresso, anche ufficialmente) in correnti- partito, cioè in diversi piccoli partitini, incomunicabili e in conflitto fra loro. Anzi ormai accanto alle correnti vere e proprie si assiste a qualcosa di peggio ancora (ebbene sì: ammetto che c’è qualcosa di peggio delle correnti), cioè al dilagare e al consolidarsi di lobbies personalistico- familistiche attorno ad alcuni compagni istituzionali i quali si trasformano talvolta in “signori delle tessere”. Non solo: ogni momento di svolta (anzi, riflettiamo su questo punto: ogni scelta politico-parlamentare sul tema del Governo) ha segnato una scissione; le scissioni si sono succedute e si succedono con ritmo costante per un totale (ma è difficile contarle) di cinque o sei; e non è finita qui! Si noti che nessuna di queste scissioni ha comportato nel PRC processi di rettifica o, almeno, momenti di riflessione o iniziative volte a sanare la ferita; al contrario, esse sono state vissute di solito dai gruppi dirigenti con un bel sospiro di sollievo: “Meglio meno ma meglio!”. D’altra parte il 4° Congresso provvide esplicitamente a espungere il concetto di “ricerca della sintesi” dallo Statuto, e una volta mi fu spiegato da un’autorevole compagna che quel Congresso era stato fatto proprio contro il concetto di sintesi fra le differenze presenti nel PRC. Fu ascoltando quell’intervento che cominciai a capire (con un imperdonabile ritardo di cui faccio qui pubblica autocritica) che eravamo perduti. Noi avevamo detto di voler costruire un partito comunista che innovasse anzitutto sul terreno della democrazia interna, un partito che (traendo lezione dalle tragiche esperienze del passato) fosse anzitutto impegnato nella lotta contro la burocrazia e l’istituzionalismo: abbia- mo invece dato vita al partito forse meno democratico di tutta la recente storia della sinistra italiana, si veda l’epurazione sistematica delle voci critiche (a meno che non fossero garantite e blindate dalle correnti) e la totale chiusura di “Liberazione” alla discussione e al dissenso; un partito in cui non sono mancati, e non mancano, perfino fenomeni vistosi di leaderismo carismatico, particolarmente insopportabili in un partito che si riempie quotidianamente la bocca della critica allo stalinismo; un partito in cui il dibattito interno è un optional e le norme democratiche dello Statuto sono vissute dal gruppo dirigente centrale come dei semplici consigli che è possibile, anzi del tutto normale, calpestare; insomma un partito in cui se lo Statuto crea – come dire? – degli impacci, ebbene allora esso viene “sospeso” dal CPN (è successo, incredibilmente ma significativamente, a proposito delle regole che ponevano limiti alle candidature del gruppo dirigente al Parlamento[2]); un partito in cui se un Congresso già convocato promette male per il gruppo dirigente, ebbene quel Congresso…si rinvia senz’altro a tempi migliori. Non c’è da sorprendersi che i gruppi dirigenti selezionati in questo modo (cioè sostanzialmente sulla base del criterio della fedeltà e dell’ubbidienza, mai in base al criterio della verifica delle capacità e del lavoro politico svolto) siano nel loro complesso (diciamocelo francamente e coinvolgendoci tutti) molto al di sotto della necessità e talvolta anche al di sotto della decenza. Si conferma così, ma non ci voleva molto a saperlo, che il comunista più obbediente non è quasi mai il comunista più capace e più rivoluzionario.

5. Vorrei sottolineare che questo bilancio, per negativo che possa sembrare e sia, è largamente condiviso dai compagni e dalle compagne del PRC: penso che in una riunione libera e sincera fra compagni/e oltre il 90% sottoscriverebbe la fondatezza di tale bilancio negativo; e tuttavia queste critiche non riescono mai a manifestarsi con la forza politica necessaria né a trasformarsi in spinte correttive e positive. Proprio questa mi sembra essere la questione cruciale, una questione che tende a far scomparire il punto interrogativo alla domanda “Rifondazione comunista è finita?” che ci ponemmo nel giugno 2006[3]. Quando si verificano dei processi degenerativi, e di tale portata, la domanda che i compagni si debbono porre è infatti una sola: esistono all’interno del partito possibili meccanismi di auto-correzione? Può insomma funzionare per salvare il PRC la democrazia interna che fallì nel PCI e, prima ancora, nel PCUS? Per rispondere a questa domanda occorre capire, senza pregiudizi ma anche senza indulgenze, quale sia la “Costituzione materiale” – chiamiamola così – che governa di fatto Rifondazione (e, lo sappiamo bene, non sempre le Costituzioni materiali coincidono con quelle formali, o legali, nel nostro caso con le forme democratiche previste nonostante tutto dallo Statuto). A me sembra che la “Costituzione materiale” di Rifondazione sia descrivibile come il dominio incontrastabile di un’alleanza fra i vertici istituzionali e quelli burocratici del par – tito, largamente intercambiabili e strettamente intrecciati fra loro in “famiglie”; una tale alleanza svuota e umilia gli organi di dibattito e direzione politica collettiva del partito, dai CPF al CPN (e il correntismo rafforza e legittima questa situazione). Succede così che il centro possa comandare stabilmente sulla periferia, il vertice sulla base, e, soprattutto, gli istituzionali comandino a tutti i livelli sulle istanze del partito corrispondenti, e non viceversa (insomma è la coda che muove il cane e non il cane che muove la coda). Fa parte di tale “Costituzione materiale” il fatto che nessuno degli eletti del PRC (scendendo dal Parlamento europeo fino al livello di consigliere regionale) provenga direttamente dal lavoro produttivo[4], che oltre il 90% dei fondi del PRC (con punte del 95%!) derivi dal finanziamento pubblico, che oltre un quarto del bilancio finisca nel pagamento di stipendi ai funzionari, per una cifra che è salita dai 268.000 euro del 1991 fino ai 2,4 milioni di euro nel 2004[5] (a cui sono da aggiungere gli stipendi pagati direttamente dalle istituzioni agli eletti e ai loro apparati), che nel 2006 la percentuale dei “politici di professione” [6] fra i compagni eletti superi l’80%[7]. Mi rendo conto che il mio punto di vista “romano” è fortemente deformato in pejus, e che non tutte le Federazioni del PRC in Italia sono come quella di Roma, ma sarebbe davvero stupido non tenere conto del peso preponderante che esercita in un partito relativamente piccolo la presenza di decine e decine (forse centinaia) di funzionari a tempo pieno stipendiati dalla Direzione nazionale e da “Liberazione”, dei parlamentari europei, dei senatori, dei deputati, dei consiglieri regionali, provinciali, comunali e municipali (e dei relativi apparati), più gli impiegati dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, di Regione, Provincia, Comune e Municipi, con relativi ministeri, sottosegretariati, assessorati, a cui sono da aggiungere ormai anche i compagni desi- gnati dal partito nelle strutture pubbliche, nei Consigli di Amministrazione, e così via. D’altra parte fra funzionari-burocrati (li chiamo così senza offesa, perché il burocrate di partito è, tutto sommato, una figura nobile della tradizione rivoluzionaria) e i compagni nelle istituzioni non esistono rilevanti contraddizioni, sia perché i secondi garantiscono il finanziamento di cui i primi hanno necessità, sia perché i ruoli possono scambiarsi e, addirittura, assommarsi nella stessa persona (è assai notevole che le cautele e gli espliciti divieti al riguardo, pure assai presenti nei primi Statuti del PRC, siano stati prima disattesi nella pratica poi cancellati anche dalle norme scritte). È del tutto evidente che questo piccolo ma accanito ceto burocraticoistituzionale governa saldamente il partito e che chi osa scontrarsi con esso è sconfitto in partenza, anche perché – senza voler considerare il “potere” di cui questi compagni dispongono – la burocrazia-istituzionale del PRC di cui parliamo (come accade da sempre per tutte le burocrazie di partito) può dedicare alla lotta politica interna tempo, strumenti ed energie ben superiori di quelli che possono permettersi “normali” compagni/e e militanti (tanto più se lavoratori, o, peggio ancora!, donne), e soprattutto (circostanza davvero decisiva) occorre considerare che in una tale lotta tutti questi compagni difendono, oltre che le loro convinzioni politiche e i loro ideali, anche il proprio status e …il proprio posto di lavoro. Essi insomma, messi di fronte a qualsiasi minaccia di destituzione, difenderanno con le unghie e con i denti cose come il mutuo da pagare e il futuro dei loro figli; e per questo risulteranno invincibili. Sarebbe tuttavia ingenuo, oltre che ingiusto, mettere sul conto delle colpe individuali dei nostri dirigenti (colpe che pure non mancano) tutto ciò: esiste una base materiale di questa situazione, cioè esistono delle profonde ragioni che spiegano tali esiti, e su questo occorre assolutamente riflettere, anche se fosse troppo tardi per correggere gli errori nel PRC almeno per evitare di commettere sempre, e ripetutamente, i medesimi errori.

6. Siamo così arrivati nel nostro ragionamento a doverci misurare con ciò che poco fa (cfr. supra, all’inizio del punto 3) abbiamo definito come la prima parte della “scommessa di Rifondazione”, quella che riguardava la praticabilità della forma-partito. Per cercare di affrontare questo problema occorre preliminarmente chiedersi che cosa sia il partito, intendo dire cosa sia un Partito nella sua essenza, in quanto tale, al di là dei diversi modelli storici di partito (prima operaio, poi socialista, poi comunista, etc.) che si sono succeduti nella storia del movimento operaio (e il “modello leninista”, ormai lo sappiamo bene, è solo uno di tali modelli, e forse non il più interessante, anche in considerazione dei suoi esiti politici diretti, cioè dello stalinismo e dello Stato sovietico). Io credo che nella sua essenza il partito si possa definire come un rap – porto stabile, un “patto”, fra la classe dei subalterni (chiamiamola per ora genericamente così) e i suoi intellettuali; la classe affida a suoi intellettuali il compito di darle omogeneità e coscienza di sé, organizzazione e autonomia; gli intellettuali – a loro volta – ricevono dalla classe per lo svolgimento di questo compito, assolutamente necessario, varie forme di compenso, a volte scarso ma altre volte assai notevole (esenzione dal lavoro produttivo, riconoscimento del ruolo di direzione, privilegi varii, etc.). In questo senso si potrebbe dire che una classe neppure esiste senza i suoi intellettuali, e (usando il concetto in accezione generalissima senza) senza un suo “partito”, cioè senza un atto fondativo di separazione e di autonomia che le consenta di riconoscersi appunto come “parte” contrapposta all’altra parte, quella dominante (e, nei tempi nostri, al sistema del capitale); tutto ciò ci deve aiutare a capire una volta per tutte che l’esistenza di una classe non è affatto un dato sociologico, essa è, al contrario, la posta in gioco di una lotta politico- culturale, una lotta dura e continua e dagli esiti incerti, che trasforma un oggetto in un soggetto, l’oggetto-salariati (cioè la merceforza lavoro, che in quanto merce è mera passività, variabile dipendente del capitale) in soggetto politico, che cioè trasforma i subalterni in classe dirigente. Ciò può avvenire solo materialisticamente, attraverso quel processo di liberazione reale che è il conflitto, sociale e sindacale prima, politico poi, fino al punto più alto di un tale processo rappresentato dalla rivoluzione, la quale è da intendersi (secondo una bella espressione gramsciana) come l’“autonomia integrale” della classe. Ma se questo è vero, ecco che appare la difficoltà grande (forse troppo grande?) con cui la Rifondazione comunista doveva misurarsi: la classe subalterna è oggi come non mai dispersa, frammentata, serializzata (si noti: ad opera delle stesse forme attuali della produzione capitalistica), e su tale frammentazione può lavorare, a devastare ancora di più, il formidabile apparato passivizzante dei mass-me – dia del capitale. Ciò renderebbe necessario un sforzo soggettivo inaudito, straordinario per ampiezza e per capillarità, un “processo mole- colare” capace di “fare società” nella classe subalterna nuotando controcorrente, cioè di portare connessione, coesione, coscienza di sé e organizzazione in ciò che il capitalismo rende ogni giorno una “grande disgregazione sociale” (è l’espressione che Gramsci usò per il Meridione d’Italia e che oggi si deve riferire, mi sembra, all’intero corpo sociale proletario). Ciò significa che alla base del problema del partito c’è una drammatica contraddizione reale: quanto più il partito è necessario tanto più è difficile da costruirsi. Insisto sul fatto che il partito è frutto di un rapporto a due, non di un atto puro idealistico, esso si fonda su una dualità che era apertamente riconosciuta (e per così dire “contrattata”) all’inizio del movimento operaio: “social-democratico” stava a significare proprio la presenza di questi due elementi, quello sociale (dei subalterni, della classe operaia o dei contadini), e quello democratico (degli intellettuali transfughi dalla borghesia), due elementi diversi fra loro, che sceglievano tuttavia di mettersi assieme, di allearsi stringendo un “patto”. È questo un aspetto decisivo, che le impostazioni anti-marxiste ed idealiste non per caso hanno via via occultato, con conseguenze politicamente nefaste, obbedendo proprio agli intellettuali i quali amano definire se stessi come “puro spirito”, come esseri del tutto privi di determinazioni e interessi materiali e di classe (per paradosso: è precisamente questa rivendicazione idealistica di purezza in-condizionata che costituisce la sporca ideologia corporativa degli intellettuali). Da questo punto di vista appare sotto una luce più chiara la prospettiva gramsciana in ordine alla necessità per la classe operaia di dotarsi di suoi propri intellettuali, di “intellettuali organici” appunto, i quali essenzialmente sono per Gramsci quelli che provengono dalla produ – zione, anzi dalle forme di produzione organiche a ciascuna classe; dunque nel caso della classe operaia, che lui aveva sperimentato durante l’esperienza torinese e l’occupazione delle fabbriche, si trattava in sostanza dei quadri “ordinovisti”, dei più bravi operai di mestiere, i quali nella stessa loro attività produttiva (che per Gramsci – non si dimentichi mai questo punto – è sempre carica di elementi di intellettualità) avevano potuto affinare le proprie capacità connettive, organizzative e creative, in una parola: intellettuali. Questa originale proposta gramsciana può essere letta come il tentativo di stabilire un nuovo “patto”, più avanzato, fra classe e intellettuali, dopo il fallimento del vecchio “patto” socialdemocratico (che aveva portato al ricorrente trasformismo dei deputati socialisti, cioè alla corruzione giolittiana del PSI), e soprattutto dopo che l’Ottobre aveva indicato un terreno più avanzato praticabile per la classe operaia di tutto il mondo.

7. Questo schema elementare (della cui estrema semplificazione mi scuso) varia nei diversi luoghi e tempi: nella forma storica del Partito italiano che abbiamo conosciuto esso si era arricchito e complicato assai originalmente. Intanto il “modello” togliattiano del PCI articolava il momento della soggettività (chiamamolo così) non solo nel binomio “classico” partito-sindacato, ma anche in una “terza dimensione” (le organizzazioni di massa, l’UDI, l’ARCI, la UISP, le Case del popolo, etc. e, poi anche i movimenti); inoltre esso si incontrava con la democrazia rappresentativa (conquistata e difesa proprio dalla classe operaia a direzione comunista), ciò che consentiva di selezionare e di collocare dirigenti politici provenienti dai ceti ex-subalterni[8] a tutti i livelli delle istituzioni (dal Parlamento nazionale fino ai più piccoli enti locali); infine quel modello di partito si dimostrava capace di incorporare nel proprio progetto egemonico anche gli intellettuali stricto sensu (registi, pittori, scrittori, etc.) che sono quelli di cui normalmente si parla definendoli come “intellettuali organici” [9]. Il PCI teneva assieme questo complicato sistema, garantendo tuttavia in qualche modo (anche se sempre più insufficiente) una certa forma di connessione fra classe e intellettuali dirigenti del partito e, per dir così, il rispetto di quello che abbiamo definito “patto”, cioè una sorta di positivo disciplinamento (non voglio dire di subordinazione) dei quadri intellettuali e dirigenti agli interessi fondamentali della classe ex-subalterna e delle masse popolari. Assumo come indicatori di un tale disciplinamento degli intellettuali dirigenti al proletariato, ancora efficace nel vecchio PCI, alcune cose parziali eppure molto significative, che elenco qui di seguito quasi alla rinfusa: ad esempio (a) lo sforzo costante dedicato dal PCI alla produzione e alla selezione di quadri dirigenti dal seno stesso della classe e del popolo (il grande sistema delle “scuole quadri”, dalle Frattocchie fino alla più sperduta sezione, un sistema che, non per caso, Rifondazione si è ben guardata dal tentare di ricostruire); (b) il connesso sforzo di mandare nelle istituzioni compagne e compagni direttamente provenienti dalla produzione, talvolta addirittura con “andata e ritorno”; (c) i limiti economici assai drastici posti ai compagni istituzionali, i quali versavano interamente i loro stipendi al partito ricevendone in cambio uno stipendio egualitario, corrispondente al salario degli operai qualificati; (d) la costante e indiscussa prevalenza del partito sugli istituzionali; (e) il cursus hono – rum dei dirigenti, cioè la loro carriera, che prevedeva sempre anche incarichi in posti scomodi o lontani dal centro e, comunque, si basava sempre sulla verifica delle loro capacità, del loro “saper fare”; e questo elenco potrebbe continuare. Il PCI è stato essenzialmente questo straordinario nesso vitale fra intellettuali e masse popolari, qualcosa di cui la nostra storia nazionale non aveva conosciuto precedenti[10]. Occorre dire che contribuiva fortemente alla tenuta del PCI e del suo “patto”, anzitutto il quadro politico internazionale, che non solo forniva formidabili strumenti di autonomia ideale e politica alle masse dei subalterni ma che determinava anche la collocazione del personale politico comunista (volente o nolente) all’opposizione. Sotto questa luce la coincidenza cronologica dello scioglimento del PCI con il crollo dell’URSS, un fatto di per sé inspiegabile oltre che ingiustificabile, appare invece del tutto consequenziale: è come se il gruppo dirigente del PCI si fosse finalmente scisso dalla propria base, non appena la situazione politica internazionale glielo ha consentito; anche le dichiarazioni piene di disprezzo di D’Alema per i compagni impegnati nelle feste dell’ “Unità” (ricordate la definizione dalemiana di “salsicciari”?) appaiono da questo punto di vista illuminanti, come accade talvolta ai lapsus. In altre parole la vicenda PCI-PDS, ma anche oggi l’involuzione del PRC, deve essere letta non solo come un episodio della tradizionale dialettica fra “destra” e “sinistra” ma anche come l’esito di un’altra dialettica (nascosta ma assolutamente decisiva), quella che si potrebbe definire fra il “sopra” e il “sotto”, cioè fra i politici-intellettuali e la massa ex-subalterna degli iscritti e degli elettori proletari. D’altra parte questa scelta di liberarsi – per così dire – della propria stessa base (o meglio: del suo peso politico, della sua volontà di contare nelle scelte) corrisponde perfettamente allo sforzo costante del PDS per la soppressione della proporzionale, che segnò una svolta clamorosa[11], di 180°, rispetto alla gloriosa tradizione comunista di difesa intransigente della Costituzione e della proporzionale (si pensi solo alla vittoriosa battaglia contro la “legge truffa”): si trattava ora, finalmente, per il gruppo dirigente pidiessino di determinare una situazione istituzionale in cui il ceto politico potesse definitivamente autonomizzarsi dalle masse ed essere votato da queste (diciamo così) per forza, come male minore rispetto al berlusconismo, ma impedendo agli elettori ogni vera scelta[12]. Questa brutale rivendicazione di “autonomia del politico” (e dei politici) è la vera e profonda ragione di tutta la vicenda della sinistra italiana post-’89, e anche però della sua sconfitta finale (sfociata oggi nel PD); e questo esito di annichilimento della sinistra non deve sorprendere, perché l’autonomia del politico reca inevitabilmente con sé, come per contrappasso, l’autonomia del sociale, cioè la frammentazione di ogni aggregato collettivo, la passivizzazione di massa, la disperazione del micro-corporativismo, il “si salvi chi può” dell’individualismo, del razzismo e del clientelismo, insomma la riduzione del proletariato a “ggente”, e, in una parola, la “berlusconizzazione” politico- culturale della società italiana. Ora le anime belle piangono sulla riduzione del paese a “mucillagine” (come si esprime il recente rapporto Censis) ma si dimentica che tale situazione di sfarinamento è il frutto di una serie di scelte, che essa è stata perseguita intenzionalmente per decenni, e purtroppo con successo, dalla parte maggioritaria della ex sinistra. E Rifondazione si è opposta a questi processi? Li ha almeno denunciati? Ne è stata almeno cosciente? C’è dunque un “pieno” durissimo dietro l’apparente “vuoto” delle sciocchezze in libertà che pronuncia Veltroni, c’è questa terribile pesantezza dietro l’apparente leggerezza del Partito Democratico: la distruzione del partito e dei partiti è in realtà, assai più radicalmente, la distruzione della politica, perché il trionfo della “governabilità” a-democratica serve per consegnare tutti i poteri, senza più impacci e contraddizioni, al Potere, al potere unico e vero del capitale; insomma la distruzione della politica serve a determinare un situazione in cui, come è stato detto, le banche decidono, i burocrati governano e i politici … vanno in televisione. Da questo punto di vista il silenzio della “Cosa rossa” in merito alla legge elettorale, e anzi la presenza al suo stesso interno (!!!) di aficio – nados del maggioritario e del premio di maggioranza, mi sembra che rappresenti una contraddizione strategica ancora più rilevante di quelle, pur non trascurabili, che dividono il futuro partito su temi come la pace e il lavoro precario.

8. Dunque, in conclusione, i punti politici del fallimento di Rifondazione mi sembrano essere stati due: l’incapacità di collegarsi organicamente al proletariato e alle classi subalterne (nelle nuove e complicate forme in cui essi si presentano oggi), e il prevalere di meccanismi di autonomizzazione burocraticoistituzionale dei gruppi dirigenti; due problemi che sono, a ben vedere, un problema solo. Resta così del tutto aperto, e irrisolto, il problema di costruire una soggettività politica autonoma della classe (l’autonomia ideale e pratica della classe noi la chiamiamo: comunismo), che sia in grado di contrastare la disgregazione sociale e la passività politica indotte dal dominio capitalistico. Certo è che la costruzione di una tale soggettività (sia che essa scelga di svolgersi dentro la “Cosa rossa” come presenza comunista organizzata, oppure al di fuori di essa) dovrà tenere nel massimo conto l’esperienza del PRC, non fosse altro che come exemplum negativum. Intendo dire che nessun nuovo tentativo potrà fare a meno di mettere al centro il tema dell’auto-organizzazione diretta degli ex-subalterni, a cominciare della formazione e promozione sistematica di quadri e di dirigenti dalle fila del lavoro subordinato e produttivo e della ex-subalternità. E meno che mai potrà fare a meno di normare con estremo rigore la presenza nelle istituzioni: penso a cose (che è possibile e sarà necessario definire meglio, certo in altra sede) come l’egualitarismo assoluto delle retribuzioni (che di per sé risolverebbe molti problemi, assottigliando di colpo la schiera dei candidati); il ricorso generalizzato al lavoro politico gratuito (da intendersi come la forma normale del funzionariato); la rotazione obbligatoria degli eletti dopo un periodo massimo di 5 anni; l’ineleggibilità dei funzionari e dei dirigenti nelle istituzioni; la proibizione, senza eccezione alcuna, del cumulo delle cariche, a tutti i livelli; l’intreccio fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa (non eravamo noi per la “democrazia partecipativa”?) che comporta, ad esempio, la designazione pubblica e collettiva in assemblee popolari dei/delle candidati/ e (da cui deriva coerentemente anche il problema dei problemi, cioè la revocabilità del mandato su decisione eventuale di quelle stesse assemblee popolari); la pratica di forme di “diritto ineguale” per garantire a tutti i livelli, nel partito e nelle istituzioni elettive, la parità assoluta dei sessi e la presenza preponderante dei settori antagonisti più “deboli” (penso agli immigrati, ai giovani precari, etc.) e dei lavoratori in produzione, e così via. Il fallimento nostro ripropone inoltre drammaticamente – a me sembra – il problema di sapere se lo sforzo per determinare la necessaria organizzazione soggettiva di massa della classe ex-subalterna possa assumere ancora la forma di un partito; così come resta aperto il problema, ancora più drammatico, del rapporto che intercorre fra un tale sforzo e la presenza dei dirigenti nelle istituzioni dello Stato, se cioè un tale strumento (la presenza nelle istituzioni) non si sia rivelato, una volta di più, contraddittorio rispetto al fine dichiarato (contribuire all’auto- organizzazione liberatrice delle masse subalterne).

Note

1 Si potrebbe anche notare (ma il discorso ci porterebbe lontano) che questi compagni, al contrario di altri, non sottovalutano affatto l’importanza politica del simbolo della falce e martello.

2 Ricordo che un compagno come Gianni Alasia denunciò con forza questa inaudita violazione dello Statuto senza ottenere neppure che la sua lettera fosse pubblicata da “Liberazione”.

3 Si tratta di un documento di discussione a firma di chi scrive datato giugno 2006, inviato per la pubblicazione on line alla Federazione romana del PRC e (naturalmente) mai pubblicato; tuttavia quel documento conobbe una certa significativa diffusione tramite la rete.

4 Traggo queste notizie dal libro di R. Massari – A. Marrazzi – M. Bontempelli – A. Furlan – M. Nobile, I forchettoni rossi. La sottocasta della “sinistra radicale”, Bolsena, Massari, 2007: si tratta di un libro tanto sgradevole per il settarismo che lo ispira quanto utile per i dati che propone a una necessaria discussione.

5 È del tutto evidente come le elezioni del 2006 e la partecipazione al Governo abbiano incrementato ancora, e assai massicciamente, queste cifre.

6 Questa circostanza è più decisiva di quanto non possa sembrare: significa che i compagni in questione, non avendo altro mestiere che la politica non hanno soluzioni alternative per la loro vita, e dunque dipendono materialmente dai vertici del partito, a cui dunque non possono mai opporsi.

7 Secondo Michele Nobile, nel PRC tale percentuale oscillerebbe tra il 76% e l’89%; cfr. L’antipolitica della “sinistra radicale”, in “Cassandra”, n. 21 (novembre 2007), p. 12.

8 La formula “ex-subalterno” non è bellissima, eppure mi sembra concettualmente necessaria e non facilmente sostituibile: ci riferiamo infatti a settori delle masse popolari che, diventando comunisti, hanno almeno avviato in modo determinante un processo reale di fuoruscita dalla subalternità (se dicessimo “subalterno” ci riferiremmo invece a chi è ancora immerso nella passività e nella disgregazione che caratterizzano la subalternità: il subalterno – come ci assicura Spivak – non può neanche parlare).

9 Tale definizione è tuttavia del tutto erronea, perché in termini gramsciani costoro sono invece “intellettuali tradizionali” (non dunque “intellettuali organici”), cioè intellettuali prodotti e provenienti da altre classi, e semmai “assimilati”, o in via di assimilazione, da parte della classe che si avvia all’egemonia.

10 Solo la vicenda della Chiesa cattolica italiana, letta gramscianamente anche come un formidabile apparato di selezione e gestione degli intellettuali, sarebbe confrontabile, ma (come è ben chiaro) i tratti diversificanti fra le due strutture sono troppo rilevanti per rendere utile un simile paragone.

11 Non sembri troppo polemico far notare che fu quella la vera “svolta” di Occhetto.

12 Un trend istituzionale, definibile, alla lettera, come a-democratico, che fu inaugurato dal micidiale referendum contro la proporzionale promosso da Segni e Occhetto, e che ha trovato il suo compimento nel sistema elettorale vigente, e in particolare nel premio di maggioranza e nell’abolizione del voto di preferenza (ciò che consente alle segreterie dei partiti di fare eleggere, o piuttosto di nominare, chiunque esse vogliano); è da considerare che tale decisivo disegno a-democratico aspira a prolungarsi e a compiersi nella proposta presidenzialista e di democrazia mediatica e plebiscitaria all’americana (personalizzazione della politica, centralità del “capo”, primarie, etc.); è questo il vero punto di accordo strategico (strategico, si badi, non tattico) ieri fra D’Alema e Berlusconi, oggi fra Veltroni e Berlusconi e Fini (e sarebbe un capitolo assai interessante da sviluppare, il verificare se, e quanto, e con quale convinzione i partiti della sinistra, a cominciare dal PRC, si siano davvero opposti a tutto ciò).

*Ringrazio l’ernesto, e soprattutto il suo direttore compagno Fosco Giannini, per avermi chiesto di scrivere questo intervento, in un momento così delicato ed aspro del nostro dibattito interno, senza chiedermi preventivamente nulla a proposito delle mie posizioni e senza sottoporre ad alcuna censura ciò che ho scritto. Fra compagni comunisti, io credo, si discute così.