Riflessioni sul tema delle liberalizzazioni del mercato del lavoro

Ad oggi sono circa 4 milioni (fonte ISTAT/ISFOL) i lavoratori assunti con dei contratti che si possono definire “atipici”. La media delle loro retribuzioni non supera i 15.000 Euro lordi annuali, mentre il 58% di loro rimane al di sotto della soglia dei 10.000 Euro lordi all’anno.
Le cose vanno ancora peggio per le donne, che riportano una retribuzione media annuale di 6.800 Euro lorde, e la differenza non deriva dal fatto che le donne utilizzino più frequentemente dei contratti part-time, poiché è oramai pacifico che le lavoratrici di sesso femminile guadagnino, in media, dal 25 al 30% in meno rispetto ai loro colleghi uomini.
I due terzi di questi lavoratori sono lavoratori “a progetto” che nella quasi totalità dei casi si traduce in condizioni di lavoro senza malattia, molto spesso senza ferie pagate, senza tutela e con dei contributi previdenziali del tutto insufficienti a garantire, anche dopo 40 anni, una pensione dignitosa.
Recentemente, la circolare Damiano ha aumentato i contributi previdenziali a carico di questi lavoratori con l’effetto immediato di avere ridotto ulteriormente il netto in busta ma senza incidere significativamente sull’entità della pensione futura che, con ogni probabilità, non arriverà a 400 Euro mensili.
La manovra però andrà a copertura parziale (ben 4,4 dei 10 milioni di Euro) della proposta di legge correttiva dello “scalone” Maroni, i cosiddetti “scalini”, che costituirà uno dei principali argomenti scottanti in discussione nel prossimo autunno politico.
Un lavoratore a progetto ha in media tra i 36 ed i 40 anni, questo significa che non si tratta di giovani al primo impiego e che spesso la condizione di lavoratore atipico, senza garanzie, diventa una gabbia più o meno permanente, dalla quale risulta sempre più difficile uscire.
L’80% di loro lavora a tutti gli effetti come lavoratore subordinato, con compiti precisi da svolgere in orari determinati e senza la possibilità di avanzare pretese sul proprio salario. Ancora una volta non si capisce quale sia la ratio che permetta una differenziazione così netta tra coloro che, pur svolgendo lo stessa tipologia di lavoro (subordinato), possano godere delle tutele previste dal nostro sistema e invece, altri, debbano rimanere esclusi.
In Italia, la possibilità di essere assunti a queste condizioni deriva dalla l. 196 del 1997, meglio conosciuta come “pacchetto Treu”, elaborata all’epoca del primo governo Prodi, con l’accordo di tutto il Sindacato, CGIL compresa.
Le ragioni economiche della riforma sono da ricercare nell’ideologia neoliberista molto in voga fin dagli anni Ottanta. In particolare una teoria, conosciuta con i nomi di “Translatantic Consensus” o “Unified Theory” proponeva la soluzione per i principali problemi delle economie avanzate: la disuguaglianza salariale negli USA e nel Regno Unito, e la disoccupazione elevata nell’Europa Continentale.
Nell’ambito della letteratura economica, si sono individuate due cause principali: la Globalizzazione, da un lato, in particolare per via del commercio con i Paesi in via di sviluppo ed il cambiamento tecnologico dall’altro.
La spiegazione tecnologica ha ricevuto molta enfasi da parte degli studiosi negli ultimi vent’anni, anche se, all’interno del dibattito economico, l’interessamento circa gli effetti del progresso tecnologico sulla composizione quali-quantitativa dell’occupazione non è nuovo, avendo costituito un punto centrale dell’analisi degli economisti Classici, tra cui lo stesso Marx.
Negli ultimi decenni si è sostenuto che la rapida diffusione dei microprocessori, dei computers e delle nuove tecnologie della comunicazione (ICT, Information and Comunication Technologies) abbia causato uno slittamento della domanda di lavoro verso i lavoratori laureati, considerati più adatti all’interazione con le nuove tecnologie.
Nell’ambito dell’Economia del Lavoro si è arrivati a stimare un “College Premium”, ossia un premio in denaro tradotto in un maggior salario per i laureati, che vantavano anche una domanda di lavoro crescente, mentre l’occupazione risultava in calo per i lavoratori che avevano titoli di studio inferiori e, almeno in USA e nel Regno Unito, il loro salario si abbassava.
Questa è la spiegazione della disuguaglianza salariale che, nell’ambito di una visione perfettamente concorrenziale del mercato del lavoro si risolve da sé, diventando allo stesso tempo un incentivo per investire in educazione da parte di coloro che, non avendo le capacità (skills) adeguate al nuovo scenario del mercato del lavoro, sono costretti a tornare sui banchi di scuola.
In Europa, per via delle rigidità del mercato del lavoro (presenza di Sindacati, contrattazione collettiva, maggiori tutele ecc.) lo squilibrio tra domanda e offerta, in presenza di salari rigidi, si traduceva in disoccupazione.
La teoria quindi sosteneva che, una volta eliminate le rigidità, ossia una volta permesso ai salari di variare in base alla nuova domanda si sarebbe creata quella stessa disuguaglianza che poi diventava incentivo per i lavoratori non laureati ad accrescere le proprie capacità e a ripresentarsi in seguito sul mercato del lavoro.
La preoccupazione derivante dalle trasformazioni del sistema produttivo legate al cambiamento tecnologico ed al cambiamento strutturale (Pasinetti) non è infondata, e anzi costituisce un interessante ambito di ricerca, ma la fiducia in meccanismi basati sull’ideologia della libera concorrenza è contestabile.
Un mercato perfettamente concorrenziale richiede una serie di assunzioni (o restrizioni) che non appartengono al mondo reale, uno fra tutti la perfetta informazione. In assenza anche soltanto di uno di questi requisiti il funzionamento di autoregolazione del mercato risulta inevitabilmente compromesso.
Nel mondo reale, le liberalizzazioni del mercato del lavoro rischiano di tradursi esclusivamente in un contenimento dei salari più bassi proprio per la natura stessa del mercato, che per definizione, è caratterizzato dalla presenza di importanti asimmetrie informative e non solo.
Gli studi più recenti stanno mettendo in luce come, nel pieno dell’era dei computers, soltanto una parte delle nuove occupazioni riguarda lavori ad alto contenuto di conoscenza come programmatori, analisti, professionisti e managers, mentre dall’altra parte la nuova occupazione si sta spostando verso i servizi, ed in particolare i servizi alla persona.
Tra le occupazioni in maggiore crescita negli ultimi anni troviamo badanti, facchini, camerieri, addetti alle pulizie, assistenti commerciali, commessi, lavoratori nei call-centers ecc.
Uno scenario aggravato dalla perdita di lavoratori nelle occupazioni tipiche del manifatturiero, dove era tradizionalmente impiegata la classe media italiana: operati specializzati, semi-specializzati e impiegati.
La fotografia attuale della variazione dell’occupazione è quindi la fotografia di una crescita polarizzata, dove un certo numero di “vincenti” raggiungono le occupazioni al top della distribuzione, mentre un numero sempre maggiore di lavoratori sono relegati nei lavori poco qualificati e a basso salario, soprattutto nei servizi.
Negli USA alla segregazione delle occupazioni si accompagna la segregazione razziale: i “bianchi” distribuiti principalmente al top-end nei lavori qualificati e gli altri gruppi etnici impiegati spesso come “servi” che accudiscono, puliscono e servono i vari “professionals” ricchi e con sempre più esigenze da soddisfare e poco tempo libero.
Bene che Bertinotti abbia avanzato la proposta di un nuovo studio sul mercato del lavoro, ma in realtà di studi ne esistono già in gran numero e ne esistevano anche nel 1997, all’epoca della riforma Treu.
Se la teoria economica dominante sosteneva la visione del “Transatlantic Consensus” e in quegli anni gli USA vantavano dati di “piena occupazione” è altrettanto vero che gli economisti “fuori dal coro” ed i bravi sociologi denunciavano già da allora le ombre del sistema.
E’ di quegli anni la coniazione di termini come “Working poors”, riferito a quei lavoratori americani che, nonostante lavorassero fino a 60-70 ore a settimana percepivano salari talmente bassi da non riuscire a pagarsi un affitto, mentre, con il termine “McJobs” si volevano indicare le nuove occupazioni nei servizi a bassa qualifica e a salario minimo (passato da 7 Dollari all’ora negli anni Settanta, a 5 Dollari all’ora nel 2000).
Verso la fine degli anni Novanta, gli USA avevano una distribuzione dei redditi regredita ai livelli degli anni ’20, ossia prima delle grandi riforme progressiste e a tutela dei lavoratori più deboli, che hanno contribuito a lanciare lo sviluppo americano.
Se questi dati non si trovavano spesso sui quotidiani più diffusi e tanto meno all’interno dei vari telegiornali, erano comunque raggiungibili da parte dei nostri politici e dei loro consulenti.
Sarebbe finalmente giusto chiedersi il perché non sia mai stata aperta una discussione seria sull’argomento e intanto l’ideologia neoliberista avanzava e diventava una sorta di verità scientifica incontestabile, anche per molta parte della sinistra.
All’inizio degli anni Novanta, i Sindacati hanno accettato gli accordi sulla moderazione salariale e l’abrogazione definitiva della Scala Mobile in cambio di una contropartita fatta di nuovi investimenti da parte delle imprese.
Investimenti che già allora erano non solo necessari, ma in ogni caso eravamo in ritardo rispetto agli altri Paesi avanzati. Ad oggi questi investimenti attendono ancora e uno dei dati più allarmanti riguardanti l’Italia implica le condizioni del sistema produttivo che per molti versi è obsoleto.
Nel manifatturiero si sono progressivamente persi i settori strategici e, per via di certe gestioni imprenditoriali colluse con la politica, il caso Telecom costituisce l’esempio di come si possa mandare in rovina un monopolio.
In tutto questo, anche la sicurezza sul lavoro è stata trascurata e ogni giorno le statistiche sui nuovi morti collidono con la pretesa di un Paese che si vanta essere una delle potenze mondiali. Se Caruso ha utilizzato parole sbagliate, in ogni caso ha sollevato un problema reale parlando di “omicidi”del lavoro.
Regali alle imprese ne sono stati fatti, se si guarda alla distribuzione funzionale del reddito, ossia alla quota del PIL che va a remunerare i fattori della produzione si vede che molto hanno conquistato profitti e rendite immobiliari e finanziarie, mentre la quota spettante ai salari è in calo. Nel 2003 eravamo gli ultimi in Europa per il potere d’acquisto dei salari e anche oggi siamo tra gli ultimi.
Eppure parte del famoso Tesoretto andrà ancora alle imprese, forse come premio per avere la produttività più bassa d’Europa?
Se certe teorie economiche spericolate e i politici hanno le loro responsabilità, anche i lavoratori stessi non possono esimersi dal fare certe riflessioni: in Francia sono scesi in piazza 3 milioni di persone per manifestare contro un contratto di primo impiego che riguardava i giovani sotto i 26 anni. In Italia, all’epoca del pacchetto Treu non si ricordano scioperi o proteste.
La mancanza di solidarietà sociale, e anche di una certa lungimiranza ha fatto sì che, soprattutto i giovani abbiano affrontato da soli le riforme che hanno cambiato non solo gli stili di vita ma anche le prospettive per il futuro, e alla fine hanno intaccato anche i diritti di chi si sentiva al sicuro dietro un contratto a tempo indeterminato. Basta pensare all’introduzione dei turni, al part-time “elastico” e alle altre forme di flessibilità.
Il referendum sull’art. 18 è fallito per mancato raggiungimento del quorum e il dibattito sulle 35 ore è stato affossato anche dall’ostilità che i lavoratori hanno dimostrato.
In ultimo la riforma delle pensioni e il referendum di consultazione che si terrà a Settembre. Sarebbe bene ricordare che, almeno una parte delle pensioni di chi, seppur con qualche anno di ritardo, si ritirerà nei prossimi anni dal mercato del lavoro, è pagata dai lavoratori atipici, e che, sempre sui giovani si sta scaricando l’onere di interventi ancora una volta affrontati senza tenere in considerazione tutte le variabili in gioco e senza risolvere la questione redistributiva.