Dopo una breve fase, nella quale è sembrato che l’obiettivo della riduzione del tempo di lavoro avesse finalmente cominciato a godere di un embrione di consenso sociale, la situazione è ben presto tornata a regredire ai pessimi livelli di qualche anno fa, con un fastidio diffuso nei confronti di qualsiasi tentativo di discussione che verta su quell’argomento. Gli stessi sostenitori della proposta, tra i quali molti militanti del Partito della Rifondazione Comunista, sembrano essere stanchi di continuare ad avanzarla, consapevoli dell’impotenza che viene espressa da una rivendicazione ripetitiva che non trova accoglienza. Come rapportarsi a questo stato di cose? Innanzi tutto riconoscendo che esso esprime un fallimento. È infatti evidente che se, tra il 1997 e il 1998, i sostenitori della riduzione del tempo di lavoro sono stati in grado di portare la loro proposta al centro di una possibile strategia alternativa di sviluppo, alle prime difficoltà di collaborazione politica con coloro ai quali era stata imposta, essa è scomparsa dalla scena. Un esito che può essere intervenuto soltanto perché quella proposta è rimasta avvolta da una veste volontaristica. La conclusione della collaborazione con il soggetto che la voleva – appunto Rifondazione Comunista – ha finito cioè col far dissolvere la sola forza che la sosteneva, cioè la volontà dei suoi propugnatori. Chi si avvicina alla prassi sociale in modo ingenuo si chiederà: ma su che cos’altro avrebbe potuto poggiare una simile rivendicazione? La risposta è relativamente semplice: avrebbe dovuto poggiare anche su una capacità, che è invece mancata. In genere il problema della capacità viene inteso in forme semplicistiche. Si fantastica aprioristicamente di grandi masse in grado di sostenere l’iniziativa di lotta, e che finirebbero col far valere il loro peso, imponendo il cambiamento. Tuttavia questa visione “quantitativa” dei cambiamenti sociali non fa giustizia alla storia, perché rimuove il processo attraverso il quale quelle masse riescono eventualmente a riconoscere, nel bisogno che si esprime attraverso l’iniziativa sociale, un loro bisogno, invece di cadere vittime di spinte che muovono confusamente in molte direzioni contrastanti. Essa rimuove cioè un problema centrale dello sviluppo, corrispondente al fatto che, quando interviene, il consenso sociale ha dovuto essere costruito.
Volontà e capacità
“C’era la volontà, ma mancava la capacità”! Con questo incipit Marx inizia molte della riflessioni dedicate ai ripetuti fallimenti del movimento della sua epoca. A che cosa vuol far riferimento? Ai diversi modi di procedere nella lotta sociale. Egli infatti distingue nettamente tra un approccio idealistico, nel quale ci si batte per qualcosa, ma siccome la spinta si esaurisce nella volontà del soggetto, si ha solo l’apparenza del costituirsi di una forza in campo. Con le sue parole: “la cosa posta, invece di confermare se stessa, è soltanto una conferma dell’atto del porre che fissa per un attimo la sua energia in quanto prodotto e le attribuisce in apparenza – ma solo per un istante – la parte di un essere reale e di per sé stante”. Questa forma di manifestazione del bisogno sfocia necessariamente nell’insuccesso, e nella frustrazione che lo accompagna. A questo approccio, Marx ne contrappone un altro, che possiamo definire come materialista. L’elemento centrale che lo distingue dal primo sta nel fatto che il bisogno non si appaga della sua formulazione intuitiva, dell’immediato sentimento positivo di sé, bensì ricerca continuamente delle “manifestazioni determinate e corrispondenti all’oggetto della volontà”. In questo caso il bisogno riesce a farsi valere meno fugacemente, in quanto nel suo manifestarsi ricerca il suo stesso fondamento nelle condizioni materiali dell’esistenza. Solo così “l’atto del porre” riesce a non esaurirsi in se stesso. Ed il soggetto non si appaga della mera estrinsecazione di sé, ma piuttosto ricerca una conferma reale nei mutamenti che riesce a determinare nel mondo circostante, che però esprimono non solo la sua volontà, ma una capacità di anticipare la dinamica in atto nella società. A conferma della tesi di Marx interviene buona parte della storia dei grandi cambiamenti sociali. Prima di diventare egemone, chi propugnava il cambiamento veniva in genere emarginato o, peggio, perseguitato. Basti pensare alla lunga lotta dei cristiani contro i culti prevalenti nell’impero romano, o all’affermarsi, in alcuni paesi del Nord Europa, del protestantesimo contro il cattolicesimo. Ma, a differenza di quello che sta accadendo con la riduzione del tempo di lavoro, là dove gli innovatori riuscivano a dare al proprio bisogno una forma valida, quell’emarginazione e quelle persecuzione finivano con l’accelerare la diffusione del loro messaggio e rafforzare la loro stessa fiducia. Era dunque la negazione altrui a dimostrarsi inconsistente nei confronti di un bisogno che raccoglieva coerentemente istanze generali della società.
Possibile ruolo educativo dei fallimenti
Che cosa fa la differenza? Il fatto che, per il modo in cui era espresso, il bisogno riusciva a cogliere le condizioni di uno sviluppo sociale che, seppure in forma occulta, erano già date all’interno della società, ed i sostenitori del cambiamento erano stati in grado di rappresentare la necessità di quella evoluzione esprimendola in maniera coerente. La libertà di pensiero e di parola, ad esempio, non ha senso là dove non è ancora stata introdotta la stampa. Ma là dov’è stata introdotta la stampa, la libertà di pensiero e di parola si presenta come una necessità, che può essere fatta valere come “nelle cose”. In tal caso, la veste universale che i borghesi hanno attribuito a quel bisogno, trattandolo come un diritto, esprimeva la consapevolezza, del cambiamento del mondo del quale erano praticamente portatori. Per questo, in alcuni casi, essi erano in grado di sopportare perfino il martirio, il quale rappresentava null’altro che la forma estrema della convinzione del sussistere di una coerenza tra vita la umana in formazione e il bisogno del quale si rivendicava la soddisfazione. (Uno splendido esempio di ciò si ha ne Il formaggio e i vermi, di Ginsburg, dove si descrive come un mugnaio del ‘500 abbia difeso la sua “lettura” fino alla morte). All’opposto, quando un bisogno prende corpo in maniera idealistica, non gode di un’energia capace di autosostenerlo, cosicché le difficoltà che eventualmente emergono sulla via della sua soddisfazione finiscono col caricare il soggetto di una stanchezza, che gli fa sentire estraneo lo stesso obiettivo per il quale poco prima si era battuto. Chi ricorda, ad esempio, con quanta determinazione la CISL rivendicava, ad inizio anni ’80, il “lavorare meno, lavorare tutti”? E come raffrontare quella rivendicazione con le assurde prese di posizione sull’orario e sulla flessibilità del suo leader attuale a poco più di quindici anni di distanza? Dovremmo forse concludere che tutti i militanti di quel sindacato sono stati colpiti da una grave forma di amnesia, o piuttosto che quel bisogno era malamente incollato alla loro individualità sociale, ed i dirigenti, nel tentativo di imporlo strumentalmente, resistettero a qualsiasi tentativo di radicarlo più saldamente? Di fronte al fallimento si danno dunque tre vie. La prima è quella peggiore, corrispondente alle negazione di quanto è successo, e al perseguimento coattivo di una pratica che si è dimostrata inefficace. In tal caso il soggetto non impara nulla dal succedersi degli eventi; esteriorizza la negazione, imputandone la responsabilità ad altri – che non vogliono capire – ma sarà condannato a subire continue frustrazioni, o a piombare in una dinamica distruttiva, appunto perché la forma del bisogno non corrisponde alla forma di vita che cerca di far venire alla luce. La seconda, di poco migliore, corrisponde solo alla presa d’atto del proprio fallimento, che però viene considerato anche come una disconferma della validità sociale del proprio bisogno. È la storia del PCI dopo il 1989. Ma, al pari della CISL, può essere anche la storia della rivendicazione del bisogno di una riduzione del tempo di lavoro oggi. La terza, indubbiamente più complessa, muove dal riconoscimento della validità sociale del proprio bisogno, connessa però all’accettazione di una inadeguatezza del modo in cui è stato formulato. Nel primo caso il soggetto conferma se stesso contro il quadro sociale con il quale si confronta; nel secondo prende atto delle condizioni imposte dal quadro sociale e le accetta, ma contro i suoi stessi bisogni; nel terzo mantiene fermo sia il suo bisogno che il quadro sociale che ostacola la sua soddisfazione, ma ciò lo pone nella situazione difficilissima di riconoscere che il problema che ha di fronte è innanzi tutto un suo problema. Si apre così lo spazio per imparare ad agire diversamente da come si è precedentemente fatto. I fallimenti possono in tal caso costituire una guida per mutare il proprio precedente comportamento, nel tentativo di dare al proprio bisogno una forma adeguata. Ma, nel caso specifico della riduzione dell’orario, che cos’è che ha determinato il fallimento?
Perché la società sente estraneo il problema della riduzione del tempo di lavoro?
Com’è noto, fino ad un paio di decenni or sono, la base dello sviluppo è stata rappresentata dalla continua riproduzione del lavoro. Si è trattato di uno sviluppo reale, corrispondente ad una profonda modifica delle condizioni materiali di esistenza delle società economicamente avanzate. In quell’ottica lo spazio per la riduzione dell’orario di lavoro era ristretto alla necessità di ricondurre la durata della giornata lavorativa entro limiti che avrebbero consentito una fisiologica riproduzione degli individui che lavoravano, una conquista che richiese più di un secolo per essere realizzata. Ma una volta che era stata conquistata una giornata lavorativa normale, si doveva procedere alla riproduzione su scala allargata del rapporto di lavoro salariato, appunto perché a quella riproduzione corrispondeva un processo di arricchimento reale. I keynesiani, nel corso della grande crisi degli anni ‘30 si batterono alacremente contro i suggerimenti di riduzione dell’orario al di sotto delle otto ore, appunto perché erano convinti che i problemi di saturazione dei mercati non giustificavano ancora una riduzione del lavoro complessivo. Essi tuttavia aggiunsero che il lavoro addizionale del quale c’era bisogno non avrebbe potuto essere creato dal capitale, il quale poneva la condizione che alla sua erogazione corrispondesse un profitto. Per questo proposero un sistematico intervento dello stato nell’economia finalizzato a creare direttamente o indirettamente lavoro aggiuntivo. Chi sa anche solo i rudimenti della storia recente, sa che essi ebbero pienamente ragione, e che le loro politiche mediarono uno sviluppo incomparabile con quelli di tutte le epoche precedenti. Ma com’è quasi sempre accaduto nella storia dell’umanità, proprio il procedere dello sviluppo ha favorito l’instaurarsi di una situazione, che possiamo esprimere con il concetto di “naturalizzazione” delle forme dell’esistenza che garantivano il particolare livello di vita conquistato. Si finì cioè col ritenere che, se la riproduzione del lavoro salariato aveva garantito lo sviluppo fino alla fine degli anni ’70, avrebbe potuto garantirlo anche in futuro? Ma lo stesso Keynes si era ben guardato dal prospettare un’evoluzione così lineare. Ed aveva anzi sostenuto che, se fosse stata attuata con successo una politica del pieno impiego, nel giro di due o tre generazioni le società sviluppate si sarebbero scontrate con una nuova difficoltà di creare lavoro in misura sufficiente a compensare il lavoro reso superfluo dal progresso tecnico. Insomma lo sviluppo sarebbe corrisposto al riemergere della disoccupazione di massa, con l’imporsi, ora sì, della necessità di redistribuire il lavoro complessivo, che continuava ad essere una condizione della soddisfazione dei bisogni ereditati dal passato, ma non anche una condizione della soddisfazione dei bisogni in formazione. Tutto ciò per la semplice ragione che i nuovi e superiori bisogni non avrebbero più potuto essere formulati come domanda. Chi vuol sostenere la proposta di ridurre l’orario di lavoro al fine di redistribuire il lavoro tra tutti deve necessariamente lavorare a comprendere che cosa, nel concreto, tutto ciò significhi. Certo si scontrerà con coloro che, anche a sinistra, negano che sia intervenuta una difficoltà di riproduzione del rapporto di lavoro salariato. Sarcastici nei confronti delle forme ingenue di rappresentazione di questa difficoltà, espresse dalle cosiddette teorie della “fine del lavoro”, questi ultimi cercano di perseguire forme arcaiche di lotta, convinti che il mondo sia poco diverso da quello di cento o di cinquant’anni or sono. Ma molta della debolezza della quale soffriamo consegue proprio dal fatto che prestiamo troppo orecchio alle loro analisi conservatrici.