Non è facile prevedere cosa succederà nella Repubblica Democratica del Congo dopo l’assassinio di Laurent Kabila. Le modalità della sua spietata esecuzione appartengono all’ormai classico copione replicato da decenni dalla CIA contro i leaders del Terzo mondo che non si adeguano alle regole del nuovo ordine imperialista.
L’insediamento del figlio Joseph a capo dello Stato non significa di per sè continuità con la linea politica del padre.
Con le sue immense risorse minerarie il Congo era e rimane una delle prede più ambite dalle multinazionali. Difficile pensare che, con gli attuali rapporti di forza, I’imperialismo dominante (americano e non) sia disposto a cedere un solo pollice di libertà e di autonomia ad un paese considerato di primaria importanza strategica dall’Occidente. Non è dunque azzardato pensare che, tolto di mezzo Kabila senior, tutti i mezzi di “persuasione” del vecchio arsenale coloniaIista saranno attivati per ammansire Kabila junior e convincerlo a non seguire le orme del padre. Eppure Laurent Kabila non si era comportato in questi ultimi anni e nemmeno in passato da pericoloso bolscevico. Non ha issato la bandiera rossa sul palazzo presidenziale di Kinshasa, non ha confiscato le proprietà private e anzi ha fatto appello agli investitori esteri. Ha solo chiesto alle multinazionali e ai privati, titolari di rendite e profitti astronomici, di ricontrattare le concessioni minerarie su basi più eque in modo da ricavare qualche dollaro in più per rinsanguare le casse dello Stato saccheggiate dalla famiglia Mobutu.
Ma già questa sua pretesa deve essere sembrata un’enormità insopportabile ai dominatori del pianeta se Chester Crocker, responsabile per l’Africa del presidente Bush senior, dichiarava fin dal 7 maggio 1997 al giornale belga Le Soir: “Se Kabila può schiaffeggiarci impunemente rischia di far nascere cattive abitudini (…) Nessuno dimentichi che sono gli Stati Uniti che decidono la legittimità delle soluzioni a livello internazionale. Noi siamo nelle condizioni di poter chiedere ciò che vogliamo e di ammonire chiunque circa il prezzo da pagare in caso contrario”.
La realpolitik del leader assassinato
Va ricordato a questo punto che la seconda liberazione del Congo non è stata vinta con qualche battaglia campale in virtù di una soverchiante superiorità militare dei guerriglieri di Kabila, ma sopratutto per un insieme di fattori politici esterni, del tutto congiunturali, gestiti abilmente dal leader congolese, fin dall’esplodere dell’immane tragedia che ha sconvolto la regione dei Grandi Laghi nella seconda metà degli anni 90. Nessuna collusione di Kabila con la CIA, come è stato più volte insinuato.
II precario rapporto di reciproca diffidenza stabilitosi con l’inviato del presidente Clinton, Bill Richardson, che lo ha tallonato per tutto il tempo della sua campagna militare dal suo osservatorio di Pointe Noire, si era basato su interessi coincidenti, ma provvisori, in una fase politica di breve durata, condizionato dalla fase ascendente di un nuovo grande personaggio politico africano, Nelson Mandela, che, sconfitto l’apartheid in Sud Africa, aveva reso impopolare l’oltranzismo vetero-coloniale delle potenze imperialiste.
La crisi dei rapporti franco-americani, seguita al genocidio ruandese, aveva acuito sensibilmente la competizione tra Parigi e Washington in Africa e convinto la Casa Bianca che quello era il momento di riequilibrare a proprio vantaggio il primato economico e politico nella regione dei Grandi Laghi, fino ad allora appannaggio dell’imperialismo francofono. Laurent Kabila dal canto suo si era reso conto, dopo 30 anni di guerriglia e di tentativi insurrezionali falliti, che il grado di sfacelo del regime di Kinshasa offriva le condizioni per infliggere a Mobutu il colpo finale.
Ma occorreva accumulare un potenziale politico e militare capace di garantire la copertura dei 2000 km di marcia che separano i confini orientali del Kivu dalla capitale. Potenziale che solo la efficiente macchina bellica del Fronte popolare ruandese di Paul Kagamè, saldamente insediato a Kigali, poteva garantire. Erano noti il suo disprezzo verso gli hutu, le sue ambizioni bonapartiste e le sue amicizie israeliane, ma era il solo che poteva mobilitare militarmente i banyarnulenge di origine ruandese del Kivu.
Invasione e guerra, le tragiche dimensioni della tragedia congolese
Pur non avendo mai provato nè pensato di sovietizzare il Congo, il nazionalismo lumumbista e antimperialista di Kabila e stato subito considerato incompatibile con il “nuovo ordine” ed un pessimo esempio per tutta l’Africa. Washington ha perso rapidamente la pazienza ed il pressing contro l’incauto sfidante si è fatto via via più pesante: Ruanda e Uganda, legati al guinzaglio dal Presidente Clinton durante il suo tour africano del 1998, hanno perciò presentato il conto del loro sostegno militare alla liberazione del Congo. La risposta di Kabila è stata molto chiara: tante grazie, ma il Congo non e in vendita. Da quel momento il suo destino era segnato. Si susseguono i tentativi di rovesciarlo: vengono accesi focolai di ribellione contro il potere centrale nelle provincie dell’Equatore e del Kasai, qualche suo ministro viene corrotto e comprato a suon di dollari, il Fondo Monetario chiede il rimborso immediato dei 14 miliardi di dollari del debito estero (giacenti nelle banche francesi sui conti della famiglia Mobutu), si riaccendono i conflitti etnici, si susseguono i tentativi di colpi di stato, fino al cruciale 2 agosto del 98, giorno in cui, in coincidenza con la sollevazione pilotata dei banyamulenge in Kivu, si gioca la carta decisiva dell’invasione militare ruando-ugandese-americana che avrebbe dovuto sollevare il paese contro Kabila ed occuparlo nel giro di pochi giorni. Ma come all’epoca della Baia dei Porci, le ottimistiche previsioni degli agenti CIA sguinzagliati nel paese si sono dimostrate infondate.
Il popolo non insorge ma combatte, sebbene in condizioni difficili, solo in parte alleviate dal sostegno militare e politico di tre paesi amici: Angola, Zimbabwe e Namibia. Kinshasa è salva, ma quasi metà del territorio congolese cade nelle mani degli invasori. Kabila fa quello che ogni capo di stato responsabile avrebbe fatto al posto suo: sebbene la disparità militare col nemico sia incolmabile, non gli resta altra scelta che quella di combattere per salvare il paese dalla disintegrazione.
Nel giro di tre anni la RDC ripiomba nel clima terrificante di una guerra intercalata da feroci pulizie etniche, questa volta di segno contrario: sono gli hutu anziché i tutsi a farne le spese maggiori.
Il bilancio è tragico: un paese smembrato e saccheggiato e tre milioni di morti falciati dal piombo, dalla fame e dalle malattie. Cento volte peggio della guerra Nato per il Kosovo, senza che una sola immagine di questo genocidio annunciato sia mai stata inquadrata da una telecamera delle nostre “umanitarie” cittadelle bianche di capitalismo avanzato.
E senza una parola di indignazione della ineffabile signora Carla del Ponte. Pressoché muta l’Europa, subalterna peraltro delle ambizioni vetero coloniali di Parigi e Bruxelles ansiose di ricuperare gli spazi ceduti negli ultimi anni, nella regione dei Grandi Laghi, al più dinamico e aggressivo imperialismo americano.
Il disimpegno internazionalista della sinistra
Anche la sinistra ha manifestato un indice di interesse molto basso per la tragedia del popolo congolese e la sorte di Kabila. Anziché cogliere il carattere oggettivamente antimperialista della sua lotta, non a caso sostenuta dai movimenti progressisti dell’Africa australe e dalla sinistra di classe del Belgio, si è spesso lasciata condizionare dai luoghi comuni scagliati dai media occidentali contro il malcapitato liberatore del Congo. Si è continuato a guardare l’Africa con altezzosa supponenza e con una desolante noncuranza verso ciò che si svolge fuori dagli schemi proposti da Amnesty International. La bandiera dei “diritti umani”, sommata all’assenza di una prospettiva strategica di autentica liberazione antimperialista, sembra diventata l’opzione autoconsolatoria che supplisce al pesante riflusso politico e ideale consumatosi in questi anni.
Dimenticata la pesante lezione su bita dai sandinisti in Nicaragua, anziché schierarsi con, si é paradossalmente scagliata contro Kabila colpevole, di non avere indetto il giorno dopo la liberazione di Kinshasa elezioni politiche generali aperte a tutti, ricchi e poveri, speculatori di borsa e minatori, banchieri, mendicanti, trafficanti di diamanti e disperati delle bidonville, latifondisti e contadini miserabili; e, quel che é peggio, con le fatiscenti strutture statali dell’ex Zaire ancora in mano ai ras locali, a burocrati corrotti e con i vertici della chiesa cattolica obbediente agli imput filo mobutisti del papa polacco.
Questa campagna stroncatoria è proseguita nei tre anni successivi toccando il suo apice nell’agosto del 98 quando sembrava che l’invasione militare ruando-ugandese, concordata alcuni mesi prima con lo staff di Clinton a Kampala, dovesse concludersi in pochi giorni con la conquista della capitale e la liquidazione di Kabila.
Le collusioni della chiesa del Kivu con il secessionismo
Mentre si è sorvolato sul dolore espresso dai due milioni di congolesi che hanno partecipato alla cerimonia funebre del loro leader a Kinshasa, il 2 marzo scorso Liberazione informava, con eccitato compiacimento, di un grande simposio della pace, con 200 mila partecipanti, organizzato dalla chiesa cattolica a Butengo, nel Kivu, la regione orientale del Congo occupata da più di due anni dalle truppe dei due paesi invasori, Uganda e Ruanda, e dalle ‘milizie tutsi ribelli obbedienti al quisling locale, Jean-Pierre Bemba, presidente del cosiddetto Fronte di liberazione del Congo telediretto e finanziato dai governi di Kampala e Kigali per conto di Washington. La manifestazione è stata indetta, con una singolare (e sospetta) sequenza temporale, 45 giorni dopo l’assassinio di Laurent Kabila. Inoltre, la sconcertante dichiarazione fatta in quella circostanza dal presidente della Chiesa di Cristo in Congo Jean-Luc Kuye-Ndond, secondo il quale “ruandesi, burundesi e ugandesi sono solo dei vicini e non degli aggressori”, lascia intravedere quali siano i reali obbiettivi di questa improvvisa offensiva pacifista della chiesa nella regione dei Grandi Laghi: ratificare de jure e de facto il processo di spartizione della RDC compiuto in questi tre anni con l’invasione militare mantenendo intatto il primordiale meccanismo di sfruttamento economico e i diritti di proprietà delle sue immense risorse minerarie, sottraendole definitivamene alla sovranità del governo di Kinshasa.
L’accoppiata chiesa-secessionisti ha colto al volo l’occasione congiunturale favorevole per tentare un curioso “dialogo intercongolese”, sempre respinto da Kabila (e persino da Kofi Annan!) che anziché restituire al negoziato le dimensioni di un affare interno di uno stato sovrano, le allarghi invece a tutti i soggetti esterni (Ruanda, Uganda, Stati Uniti, multinazionali) coinvolti militarmente e politicamente nella guerra di aggressione che ha dilaniato la RDC provocando tre milioni di vittime. Dunque una soluzione in perfetto stile balcanico che, come e avvenuto in Jugoslavia, conferisce di fatto agli aggressori il potere negoziale di dettare alle vittime le condizioni di una pace possibile.
Per ora Kabila junior, sostenuto dai paesi amici dell’Africa australe e centrale, è sembrato determinato a respingere questa interpretazione assassina del “dialogo intercongolese” che sanzionerebbe la disintegrazione dello Stato.
Al vertice di Lusaka del 15 febbraio scorso il nuovo presidente ha annunciato, con il sostegno di Kofi Annan, due decisioni che potrebbero (il condizionale è d’obbligo) far avanzare il processo di pace: accettare l’ ex presidente del Bostwana, Masise, quale presidente di un negoziato di pace più equo e il dispiegamento sul terreno di 2400 caschi blu dell’ONU e di 550 suoi osservatori. Ma si è dimostrato inflessibile sulla condizione preliminare: il ritiro incondizionato degli aggressori ruando-ugandesi da tutti i territori occupati.
Decolonizzazione e sovranità degli stati nazionali contro la globalizzazione imperialista
La tragedia del Congo suggerisce anche a noi comunisti spunti di riflessione su due questioni cruciali del nostro dibattito politico-teorico: sovranità degli stati nazionali e contraddizioni interimperialiste, nozioni che alcuni danno per superate dai processi di globalizzazione in atto. Sebbene la maggior parte dei paesi del terzo mondo siano oggi percepiti dal senso comune come stati indipendenti, ufficialmente membri a pieno titolo delle Nazioni Unite, la loro sovranità è ancora un processo incompiuto.Per molti stati africani era e rimane una tappa strategica fondamentale della lotta antimperialista.
I leaders che hanno operato a nord e a sud del Sahara si sono resi conto fin dall’inizio quanto lungo e difficile fosse il cammino per ridare un senso compiuto sul piano storico, politico, economico e sociale alla dimensione di sovranità nazionale dei loro Stati liberati dal dominio coloniale, ma non ancora decolonizzati.
L’indipendenza non è stata la fine del regime coloniale ma l’inizio di un lungo percorso, molto spettacolare senza dubbio, ma in fin dei conti il più superficiale.
Le esperienze compiute dai leaders storici delle indipendenze africane dimostrano quanto profonde siano state le diversità e le ispirazioni ideali, e quanto queste abbiano pesato sui percorsi e sulle scelte strategiche dei lunghi e sanguinosi processi di liberazione di ciascun paese. Amilcare Cabral, Kwame Nkrumat, Sekou Turè in Africa occidentale, Patrice Lumumba, Pierre Mulele, Laurent Kabila in Congo, Agostino Netho, Julius Nyerere, Robert Mgabe, Nelson Mandela, Sam Nujoma, Eduardo Dos Santos, Joaquim Chissano in Africa australe, Ben Barka, Muhammar Gheddafi, Ben Bella nel Magreb. Un coacervo di nazionalismo, di marxismo, di leninismo, di pensiero giacobino, di maoismo, di utopie socialiste ispirate dal Corano: tutte scelte difficili da capire e da decifrare fuori dal contesto nazionale in cui sono state elaborate, ma che hanno concorso a mettere in moto su basi antimperialiste enormi masse di popolo in cerca di liberazione. Anziché indugiare sulle critiche a Kabila, dissertando su suoi presunti abbandoni ideali (marxismo, maoismo, ecc.) sarebbe bene interrogarsi e riflettere sulle ragioni politiche che, a seguito dei cambiamenti dei rapporti di forza su scala mondiale, hanno indotto, non solo lui ma anche altri movimenti, ad “aggiustare’ e rivedere le precedenti priorità strategiche. Che dire della lunga serie di inevitabili compromessi e di arretramenti politici e sociali accettati dai leaders delle rivoluzioni anticoloniali in Angola, Mozambico, Zimbabwe e Namibia, paesi troppo giovani e troppo deboli per vincere la sfida con l’imperialismo il “giorno dopo” l’indipendenza ?
Che dire del presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki, successore di Nelson Mandela, che a metà degli anni 80 esce dal PC sudafricano, abbandona il marxismo, abbandona la lotta armata e se ne va ad Oxford per dedicarsi agli studi economici ? Dobbiamo per questo negargli il ruolo svolto nell’ANC nella lotta contro l’apartheid?
Il giorno dell’indipendenza (e quello della fine dell’apartheid) non e stato l’ultimo ma il primo di un lungo e tortuoso processo di decolonizzazione e di formazione di entità nazionali unitarie che solo una lunga marcia potrà portare a compimento. Lunga marcia segnata peraltro da risultati altalenanti, da avanzate e da ritirate, da vittorie e da sconfitte che confermano quan to fondate fossero lungimiranti le
previsioni di Lenin (un passo avanti e due indietro) insite in ogni processo rivoluzionario e più che mai congenite in un continente come I’Africa devastato da cinque secoli di dominazione coloniale.