Re David e la resistenza irachena

*teologo – comunità cristiane di base

LA LEGITTIMITÀ DI UNA LOTTA DI POPOLO CONTRO L’INVASORE STRANIERO

Potrà sembrare strano iniziare un discorso politico con un riferimento biblico ma mi sembra, da un punto di vista antropologico-culturale, che certe evidenze siano state chiare sempre e a chiunque.
Nella storia di re David si legge che, a un certo punto, il re peccò gravemente di arroganza e decise di fare un censimento dei suoi armati. Il profeta Gad, investito di divina autorità, gli contestò questa mancanza di fiducia nel divino aiuto e lo invitò a scegliere una punizione fra le tre che gli proponeva: una carestia, una pestilenza o un’invasione di un esercito straniero. David non dubitò e preferì qualsiasi cosa ad un esercito straniero sul suo paese. “David rispose a Gad: non ho via di uscita; non voglio cadere nelle mani degli uomini, preferisco cadere nelle mani del Signore, perché grande è la sua bontà. Allora il Signore colpì con la peste…” (2 Samuele 24, 14-15) A parte l’astuta considerazione di David che, mettendosi nelle mani di Dio, tutto sommato catturava dalla sua le autorità religiose, bisogna dire che la sua scelta fu giusta. L’occupazione di un esercito straniero fra l’altro comporta di per sé pestilenza e carestia – Manzoni sarebbe certamente d’accordo – ma vi aggiunge la violenza e gli stupri, la devastazione delle risorse e l’abbattimento delle strutture, la perdita della libertà e della sovranità. Questo è intollerabile.
Lasciando le metafore, bisogna dire che è ormai un coro universale quello che si leva da ogni parte per condannare la guerra anglo-americana all’Iraq, l’invasione del paese, il massacro degli abitanti, il saccheggio delle risorse e la pretesa di istituire un governo “liberamente eletto” ma con i fucili puntati alla nuca. Bisogna ricordare che mentre il presedente americano parla di restituzione della sovranità per il 2005, cioè fra sei mesi, si apprende che 4000 soldati americani verranno spostati dalla Corea all’Iraq e che la sola operazione di spostamento comporta un tempo di quattro mesi. Se ne deduce che gli americani non intendono andarsene se non dopo essersi assicurato un pilastro del loro sistema di potere geopolitico in quell’area che sostituisce l’Iran, venuto meno con la caduta dello Scià. Per rimanere a tutti i costi in Iraq bisogna inventare, di volta in volta, un motivo di copertura.
Se la guerra era cominciata per trovare e distruggere le armi di distruzione di massa, poi si è motivata con l’abbattimento di una crudele dittatura, peraltro a suo tempo ampiamente sostenuta dagli USA con lo scopo di fronteggiare la perdita dell’Iran come pilastro strategico nella regione.
Ora che la dittatura è stata abbattuta e che l’incaricato delle Nazioni Unite Brahimi ha sentenziato che l’unica dittatura che resta in Iraq è quella di Bremer, si è alla ricerca disperata di una nuova copertura.
In questo momento il motivo di copertura dell’occupazione è il varo di un sistema “democratico” , secondo il modello occidentale. Per ottenere il risultato bisogna peraltro fare i conti con la resistenza irachena, che non è assolutamente riconducibile – per recente ammissione dello stesso Bush – né al terrorismo di Al- Qaeda, né a frange di fedelissimi del passato regime di Saddam Hussein. Gli ultimi accorgimenti lessicali dei sostenitore nostrani dell’occupazione e della “svolta” proposta dalle Nazioni Unite ruotano quindi su espressioni come “rivalità tribali”, “estremismo islamico” delle milizie di Al-Sadr, nodo duro della questione dell’autonomia dei curdi ecc. Il più grande – e colpevole – silenzio regna sul movimento di unificazione delle componenti irachene sia religiose che laiche.
Nel mese di aprile si è costituita la “Conferenza degli studiosi contro l’occupazione” che ha raccolto l’adesione di imam sciiti, di ulema sunniti, di docenti universitari laici, di autorevoli capi tribù delle popolazioni del deserto, di caldei cattolici e anche di curdi.
La conferenza è attualmente presieduta dall’imam Javad Al Kalisi e minaccia con pacata fermezza di dover ricorrere alla forza qualora gli occidentali non se ne andassero subito senza lasciarsi dietro un governo fantoccio sostenuto, col guinzaglio allungato, da presenze militari attestate su basi del tipo di quelle che gli americani hanno disseminato in tutto il mondo che essi hanno “liberato”, da Giappone alla Germania e da Guantanamo all’Italia.
Compito dei pacifisti occidentali, sostenuti, è auspicabile, dalle forze democratiche di sinistra, è quello di far conoscere i progetti, le prospettive e le risorse della resistenza irachena all’occupazione, senza farsi ingannare dal falso problema se la nuova risoluzione delle Nazioni Unite rappresenti per Chirac o per Berlusconi, o per Schroeder o per Putin una “svolta”.
Se si possa considerare esaurita la fase dell’occupazione, devono dircelo i rappresentanti della resistenza irachena, dai moderati ai militanti, dal Consiglio degli ulema alla Conferenza degli studiosi.
Compito che solo una politica irachenocentrica e non eurocentrica potrà assolvere.
Poiché è prevedibile che la liberazione dell’Iraq dall’occupazione e il processo di autodeterminazione in Iraq abbia tempi lunghi, è necessario muoversi a livello nazionale ed europeo per costruire in occidente una sponda di interlocutori che diffonda una corretta informazione ed esprima concreta solidarietà.