Questione sindacale e Congresso Cgil

Da più parti il modello contrattuale e delle relazioni sindacali che ha improntato di sé gli anni ‘90 viene messo in discussione:
L’accordo del 23 Luglio viene attaccato innanzitutto dalla Confindustria e dal mondo della finanza, a partire da quel Padoa Schioppa, banchiere italiano alla Banca Centrale Europea, che definisce addirittura “nociva” la contrattazione nazionale.
L’obiettivo della Confindustria è evidente. La strategia industriale che persegue il padronato è quella della competitività giocata essenzialmente sull’innovazione di processo: salvo rare, lodevoli eccezioni, si punta a stare sui mercati forzando sull’organizzazione produttiva e, quindi, sui costi del lavoro; la ricerca, l’innovazione di prodotto, l’intervento con investimenti in settori tecnologicamente avanzati ed innovativi sono ridotti al lumicino; abbiamo la più bassa percentuale in Europa; stiamo scomparendo del tutto dai settori strategici.
L’ossessione della Confindustria per il costo del lavoro, la flessibilità del mercato del lavoro in entrata ed in uscita – nonostante la magra figura in occasione del referendum sui licenziamenti – l’abbattimento della previdenza pubblica per ridurre seccamente i contributi sociali, la vicenda dell’abbattimento dell’Irpeg la dice lunga sulla strategia padronale.
In questo contesto la contrattazione è un impaccio, quella nazionale quando si discute di contratti nazionali, quella aziendale quando si discute di contratti aziendali!
La vertenza Fiat ne è una testimonianza esemplare: l’Azienda ha sistematicamente rinviato l’apertura della contrattazione integrativa negando ogni disponibilità – e le Organizzazioni Sindacali nazionali ci hanno messo del loro con ritardi e lungaggini nella predisposizione della piattaforma – per arrivare alla scadenza del 2° biennio contrattuale e così congelare il tutto con la motivazione della sovrapposizione dei due livelli!
In realtà è proprio la contrattazione che non si vuole, per conquistare in via definitiva un ruolo ed una gestione totalmente unilaterale nell’azienda, nella gestione del salario come dell’impresa; salvo che i lavoratori non si pieghino in via definitiva ad uno schema di contrattazione aziendale modellato esclusivamente sulle esigenze produttive: redditività, presenza, orario di lavoro totalmente elastico etc.
Ma non ci sono solo i padroni ad attaccare l’attuale modello contrattuale: ci si è messa anche la Cisl con la sua “trilogia”:
• contratto nazionale “minimo”;
• azionariato dei lavoratori ed aziendalismo contrattuale;
• contrattazione territoriale all’insegna della flessibilità salariale e normativa.
Si potrebbe pensare che ci sia così spazio per i lavoratori sul territorio, in modo più democratico.
In realtà non è cosi: già oggi ci sono intere regioni del Paese che sono sotto i contratti nazionali e che se venissero affidate ad una contrattazione territoriale, questa non avverrebbe in aumento, ma in diminuzione del salario e dei diritti, mentre nelle realtà aziendali l’azionariato legherebbe i lavoratori, mani e piedi, alle strategie d’impresa.
Fin qui le critiche al 23 Luglio da “destra”.
Ma i lavoratori e le lavoratrici? Che ne pensano? Che succede nelle Aziende, nelle categorie, nella stessa Cgil?
Sempre più spesso i lavoratori si rendono conto che la politica contrattuale del sindacato non li tutela più!
Non con il contratto nazionale perché redistribuisce aumenti miseri, di gran lunga ormai inferiori all’inflazione reale, o, peggio perché, in più circostanze, riduce diritti già acquisiti; non con la contrattazione aziendale quando questa avviene all’insegna della flessibilità, delle compatibilità aziendali o della “redditività” aziendale.
Il modello dei tetti vincolati del 23 Luglio porta le maggiori responsabilità di questa caduta di tutele: ma non tutto è ascrivibile al modello.
C’è anche, purtroppo, una caduta di pratica sindacale, un’assuefazione alle logiche dominanti del profitto e dell’impresa, un’accettazione anche culturale del punto di vista dell’avversario, una incapacità ed una scarsa volontà di interpretare i bisogni dei propri rappresentati.
C’è una ritualità perfino burocratica, un distacco dalla realtà, un’insistenza quasi “ideologica” nel voler perseguire una strada che da’ risultati essenzialmente alle imprese.
Perché al di là della propaganda padronale o delle stesse dichiarazioni rassicuranti che la Cgil da’ a sé stessa nelle riunioni dei gruppi dirigenti, i dati parlano chiaro, parlano la cruda verità delle cifre e dimostrano che il forte malessere che c’è tra i lavoratori è più che fondato.
Basta fare alcune comparazioni.
Dal ’93 al ’99 l’inflazione effettiva è stata del 22,5 %; quella programmata del 18,8%; le retribuzioni al 1° livello di contrattazione hanno raggiunto il 21,1%; con la contrattazione di 2° livello si è raggiunto il 24,3%. Ma la crescita del Pil è stata di ben il 10% ed è andata per oltre il 70% alle imprese.
Se a questo aggiungiamo il drenaggio fiscale e l’aumento vertiginoso della produttività del lavoro, constatiamo come il divario percentuale tra capitale e lavoro aumenta ancor più a sfavore del lavoro. Ma è nel 2000 che il sistema contrattuale crolla definitivamente: a fronte di rinnovi contrattuali che hanno calcolato un’inflazione programmata 2000 sull’1,2%, siamo ad un’inflazione reale che rischia di andare oltre il 2,7%!
Siamo di fronte ad un generale e sistematico trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale!
E non perché il movimento operaio, il sindacato, i lavoratori perdono in uno scontro epocale ed in una battaglia impari: semplicemente perché il sindacato ha deciso di mantenere una linea perdente e suicida!
Non che sia facile ribaltare i rapporti di forza, che non sono favorevoli ai lavoratori; certamente le sconfitte degli anni passati pesano ed il quadro politico – governo di centro-sinistra compreso – non è certo dei più facili per il movimento sindacale.
Ma è evidente che o si esce da questo modello contrattuale per decisione propria o lo farà il padronato, nel modo peggiore, con i lavoratori privati di un terreno di iniziativa proprio.
Del resto, oltre al dato salariale, anche sul versante dei diritti le cose non vanno affatto bene: si firmano sempre più spesso contratti – cito solo la Gomma Plastica, le Telecomunicazioni, gli Autoferrotranvieri – in cui si crea, di fatto, una rottura salariale e normativa tra vecchi e giovani!
Sull’orario non si ottiene risultato alcuno; nella difesa delle condizioni di lavoro men che meno!
Ci sono poi realtà in cui, 23 Luglio o no, non si riesce nemmeno a discutere del contratto nazionale, come il settore delle Pulizie o in cui il secondo livello contrattuale è bloccato in molte realtà regionali, come i lavoratori dell’Artigianato.
Il dato devastante degli infortuni del lavoro la dice poi lunga sul risultato immediato del peggioramento delle condizioni di lavoro.
Così pure sul versante del mercato del lavoro, vecchie e nuove precarietà accerchiano sempre più quel nucleo di lavoratori “stabili” che sono sempre più in difficoltà nell’esprimere un elevato livello di protagonismo aziendale.
Eppure…
Eppure laddove si lotta e si fanno piattaforme costruite con i lavoratori e che cercano di intercettarne i bisogni, i risultati ci sono; delle potenzialità si esprimono qua e là; c’è voglia ancora di lottare, di dire la propria.
Ci sono segnali forti, anche di natura simbolica:
• la lotta vincente alla Zanussi – Electrolux contro il lavoro a chiamata;
• gli scioperi riusciti alla Fiat, dopo anni di difficoltà e pur su una piattaforma per nulla entusiasmante;
• il voto massiccio dei lavoratori contro il contratto Telecom;
• la mobilitazione nella Scuola, per salari europei e contro la privatizzazione – regionalizzazione dell’Istruzione;
• il dibattito fortemente rivendicativo nella Fiom sul 2° biennio contrattuale, che rimette al centro l’idea di una redistribuzione nazionale di quote della produttività;
• l’emergere di lotte significative delle giovani generazioni nei Mc Donald’s;
• gli immigrati, i nuovi proletari nell’era della globalizzazione, che attraversano l’Italia in una Carovana per i Diritti.
E la Cgil che fa?
Invece di aprire un profonda discussione, invece di ragionare sulle cose per quelle che sono, invece di ascoltare i segnali che vengono dai lavoratori e lavoratrici, invece di andare ad un Congresso di verità sul bilancio della linea congressuale del ’96 con i propri iscritti, si autorassicura che tutto va bene, che gli iscritti ci sono, che l’organizzazione è in salute.
Quante organizzazioni di massa della sinistra che erano in ottima salute sono crollate in poche settimane od in pochi mesi?
In una parola, invece di fare il Congresso subito, come atto di democrazia, va ad un Congresso formalmente aperto ma sostanzialmente rinviato.
Perché?
È indubbio come la Cgil, almeno nella sua maggioranza, consideri il rapporto con la politica e con le istituzioni un elemento fondamentale del proprio ruolo e della propria legittimazione e, quindi, su questo livello si sta misurando, non sulla fase delicata che attraversa il rapporto con i propri rappresentati.
Il confronto con la leadership del centro-sinistra – al di là anche di cose giuste affermate in tema di Irpeg e di federalismo – è oggi l’interesse primario e prevalente del gruppo dirigente ed un Congresso, oggi, per questo non serve; basta ed avanza Cofferati che , infatti, parla ed agisce sempre più spesso a nome della Cgil anche al di là del reale dibattito nell’organizzazione.
La sinistra sindacale in Cgil deve tentare, invece, di dare voce ai movimenti reali dentro il variegato fronte del lavoro; deve rivendicare il Congresso subito ma, ancor più, deve rivendicare un cambiamento subito, nelle linee di politica contrattuale, nel confronto con il Governo – per nulla risolto da qualche provvedimento di restituzione della finanziaria, a parte il dato forte dell’abolizione dei Tickets, – nell’iniziativa sociale sul tema dei diritti, nel contesto di un’Europa che tende ad affermare innanzitutto quelli dell’impresa capitalistica.
Una battaglia di contenuti, quella della sinistra sindacale in Cgil, che è anche battaglia di democrazia e di autonomia sindacale perché è davvero ora di ridare la parola ai lavoratori!