“Alla fine degli anni ’90 la competizione industriale sui mercati occidentali si fa più serrata. L’invasione in Europa dei prodotti del Sud est asiatico viene bilanciata da Fiat con un ritorno alla strategia originaria di attenzione ai mercati emergenti. (…) Alla svolta del 2000, il Gruppo Fiat afferma così il proprio orgoglio di industria italiana e internazionale, fortemente consolidata sul mercato mondiale e ricca di un centenario bagaglio di esperienza e di innovatività.”
Così, l’11 luglio 1999, Fiat celebra il centenario della sua fondazione.
Nel giorno del suo centesimo compleanno Fiat opera in 61 paesi del mondo con 803 società che impiegano circa 220.000 lavoratori (di cui 88.000 all’estero) e 185 stabilimenti produttivi (100 all’estero). In Italia si realizza circa il 60% del valore della produzione e il 40% del fatturato.
L’attività, organizzata in differenti settori, da quello dell’auto e dei trasporti a quelli dell’energia, dell’editoria, delle assicurazioni viene gestita da finanziarie controllate dalla famiglia Agnelli.
All’inizio del 2000 il gruppo dirigente della Fiat auto fa una previsione secondo la quale le vendite sarebbero avvenute per il 50% fuori dall’Europa occidentale.
Allora, quando le strategie industriali erano considerate ancora importanti perché collegavano mercato, prodotto e produzione, vengono fatti investimenti e collocati gli stabilimenti nei mercati che si pensavano in espansione: Polonia, Brasile, Turchia.
Poco dopo Fiat comincia a dichiarare gravi problemi di ordine finanziario: le sue attività sono in perdita. Il deficit si aggrava giorno per giorno e, nella primavera del 2002, le cifre della crisi finanziaria appaiono drammatiche: a fine marzo l’indebitamento netto è di 6,6 miliardi di euro (13.000 miliardi di vecchie lire); i debiti finanziari totali ammontano a 35,5 miliardi di euro (70.000 miliardi di lire) di cui circa 19 miliardi di euro a carico del sistema bancario italiano (sono il Banco di Roma, IntesaBci e San Paolo Imi gli istituti maggiormente interessati).
Nel marzo del 2000 l’americana General Motors acquista il 20% delle azioni di Fiat auto e incassa un diritto di opzione su eventuali future vendite di quote azionarie.
In Europa la casa americana è proprietaria di Opel, marchio che produce vetture di piccola e media cilindrata assai simili per target a quelle Fiat.
General Motors, attraverso Opel, costituisce con Fiat due società paritarie (50% Opel, 50% Fiat) per la produzione dei motori e dei cambi, cioè della parte importante dell’auto.
L’alleanza non porta i risultati sperati.
A quel punto il management Fiat rende nota la sua strategia: concentrare l’attività sul cosiddetto “core business” (in questo caso l’auto), e vendere tutto ciò che gli sta intorno cioè tutte quelle attività che, pur non avendo a che fare strettamente con l’assemblaggio delle vetture, sono strategiche per poter pensare e produrre un’auto di qualità, concorrenziale, ecologicamente compatibile.
Facendo l’elenco di ciò che vuole vendere, Fiat commette un “piccolo” errore mettendo sul mercato aziende in perdita oppure scarsamente interessanti dal punto di vista della redditività immediata.
La prima della lista è la Magneti Marelli (azienda di elettronica e componentistica) strategica tanto più oggi, quando tra le innovazioni nel settore dell’auto ci sono la guida satellitare e il controllo elettronico di molte funzioni, ma bisognosa di cospicui investimenti per essere competitiva nei settori della ricerca, della progettazione e della ingegnerizzazione dei nuovi prodotti.
Nel frattempo il sistema bancario fornisce a Fiat la liquidità necessaria per proseguire l’attività ma non interviene sulla struttura del debito. Non abbiamo più a che fare con Mediobanca governata da Cuccia: il sistema bancario finanzia Fiat imponendole però la vendita immediata delle attività di maggior valore e l’abbattimento del debito.
A quel punto, pressata dalle banche, Fiat comincia a perdere aziende che hanno mercato e prospettive.
La Fiat ferroviaria, uno stabilimento di circa duemila dipendenti in provincia di Cuneo, diventa di proprietà della multinazionale francese Alstom.
A pochi mesi dalla vendita le Ferrovie dello Stato italiane commissionano ad Alstom la costruzione di nuovi pendolini con un ordine di centinaia di miliardi e nuove commesse vengono firmate anche con le Ferrovie Inglesi.
Da tempo si discute della necessità di produrre veicoli con motori a propulsione ad idrogeno, e sia il nuovo motore che la struttura dell’auto necessitano di materiali molto leggeri, in particolare leghe di alluminio.
Proprio quando si apre concretamente la possibilità di costruire auto compatibili con l’ambiente, Fiat si “libera” della Teksid che produce principalmente alluminio, mantenendone solo lo stabilimento dove si lavora la ghisa, materiale sempre meno utilizzato: il gruppo abbandona il prodotto del futuro e tiene il prodotto che non ha mercato.
La Questor Management Company, fondo americano, rileva la Teksid per il 99%: la transazione, del valore di circa 460 milioni di euro, porta nelle casse della Fiat 290 milioni di euro (580 miliardi di lire).
Ma un fondo, per sua natura, non ha alcun interesse ad investire sull’azienda: la sua funzione è realizzare il maggior ricavo possibile nel più breve lasso di tempo. Più un’azienda è competitiva più sarà veloce la sua destrutturazione con conseguenze devastanti.
Anche Comau, azienda che si occupa di automazione di processo, è destinata ad essere acquisita da un fondo americano o inglese.
Questa è in sintesi la fotografia della Fiat auto nel 2002: il 20% del pacchetto azionario è di proprietà della General Motors; le parti complesse della struttura dell’auto, il motore e il cambio, sono Fiat solo al 50% (il restante 50% è Opel, ossia General Motors); Magneti Marelli, Teksid, Fiat Ferroviaria, Comau sono state vendute o stanno per esserlo.
Si fanno insistenti anche le voci di una cessione di Iveco (la cui produzione di camion non registra problemi di mercato) con l’unico obiettivo di incassare denaro per finanziare l’esorbitante debito.
Contemporaneamente Fiat scorpora il marchio Alfa creando una società a parte, operazione che prelu-de alla vendita di quella che, assie-me alla Ferrari (di cui buona parte del pacchetto azionario non è più Fiat) è un segmento importante del settore auto.
L’Alfa di Arese è il luogo dove, timidamente, Fiat aveva tentato di ricercare, progettare e costruire vetture con emissioni non inquinanti.
Mentre in tutto il mondo occidentale si lavora ad un prodotto nuovo che risponda all’esigenza di compatibilità ambientale e di spazio delle congestionate metropoli, la Fiat si pone definitivamente fuori dalle prospettive del futuro.
Cosa resterà tra breve dei fantastici proclami con cui il management Fiat aveva salutato i cento anni della storica azienda?
Alcuni stabilimenti di montaggio, in particolare nel mezzogiorno: cioè stabilimenti dove arrivano pezzi che altri hanno ideato, elaborato, progettato e prodotto e che vengono assemblati.
Rimane un marchio che, bene che vada, può tentare di competere su mercati a basso valore aggiunto, perché è evidente che i maggiori margini di guadagno e le migliori prospettive future sono delle case automobilistiche che hanno al proprio interno la tecnologia e l’innovazione.
Per questo è fuorviante discutere se con il suo 20% di azioni General Motors indirizzerà oppure no Fiat auto verso un destino americano. Il nodo non è questo, ma l’esistenza o meno nel nostro paese un’industria automobilistica autonoma: l’Italia si sta trasformando in un supermercato o, al massimo, in una sede di assemblaggio.
Siamo di fronte ad una destrutturazione generale del sistema, ad un crac industriale, finanziario e commerciale di proporzioni enormi.
La nascita della Fiat rappresentò ed accompagnò l’industrializzazione del Nord; quello che sta accadendo oggi ha la stessa portata di quell’evento, ma con un segno opposto.
Anche il mezzogiorno, da sempre penalizzato, viene interessato da processi di ristruttturazione che prevedono cassa integrazione e chiusura degli stabilimenti, da Cassino a Sulmona, a Termini Imerese.
Così, per appianare un deficit ormai clamoroso, si arriva all’estate del 2002 in una accelerazione di operazioni di scorporo e vendita che non impediscono al titolo di subire pesanti flessioni in borsa.
Fiat continua a perdere fette di mercato in Italia e in Europa Occiden-tale.
Non solo il debito non è diminuito, non solo segmenti strategici sono stati ceduti, ma anche le previsioni sui prodotti si sono rivelate errate: è il caso della Stilo, auto di media cilindrata che avrebbe dovuto entrare in concorrenza con Volkswagen e Renault, che rimane invenduta nei parcheggi degli stabilimenti mentre la Panda, di cui più volte i vertici Fiat avevano deciso di interrompere la produzione, rimane una delle autovetture più richieste dal mercato.
Nello stabilimento di Cassino, luogo di produzione della Stilo (il nuovo modello che avrebbe dovuto invadere il mercato), così come in altri stabilimenti, iniziano le fermate produttive, a centinaia di giovani lavoratori interinali non verrà riconfermato il contratto, mentre per oltre mille lavoratori assunti a tempo indeterminato è prevista la cassa integrazione a zero ore.
In una situazione che si fa di giorno in giorno più critica, il management decide di mostrare i muscoli e ricorre al più stantio ed inefficace degli strumenti: il taglio della manodopera.
Nel maggio del 2002 Fiat dichiara circa 3500 lavoratori in esubero nei propri stabilimenti. Ma i lavoratori a rischio, per ammissione dello stesso Paolo Fresco, presidente della Fiat, saranno più di 10.000 se si comprendono gli occupati delle medie e piccole fabbriche dell’indotto.
A giugno di dimette Paolo Cantarella: l’ex amministratore delegato della Fiat riceve una liquidazione da 19,3 milioni di euro (37 miliardi di lire) per i suoi sette anni di impegno nel condurre la più grande industria italiana ad un passo dalla crisi, mentre i 3500 lavoratori espulsi dagli stabilimenti riceveranno una buona uscita di 1000 euro (due milioni di lire) per ogni anno passato in fabbrica.
Nei primi giorni di luglio il Consiglio dei Ministri approva una serie di incentivi a sostegno dell’industria dell’automobile: si tratta di misure (quasi una beffa) che spingono all’acquisto di auto nuove e catalitiche. L’effetto è risibile.
Il 24 luglio dopo settanta giorni di finta trattativa tra azienda e sindacato sulle espulsioni dei lavoratori l’accordo viene siglato senza il consenso della Fiom: Fim e Uilm avvallano la mobilità per 2.887 dipendenti Fiat e sottoscrivono un documento che non contiene alcuna garanzia né per gli stabilimenti né per gli occupati che restano, accettando così il principio secondo cui i lavoratori sono un costo da tagliare nei momenti di difficoltà e non una risorsa fondamentale per l’azienda.
La Fiom non firma e denuncia le insidie contenute nel piano Fiat: il via libera ad ulteriori future dismissioni, la possibilità per l’azienda di procedere ad ennesime, pesanti ristrutturazioni, ai tagli delle linee di montaggio negli stabilimenti torinesi, alla chiusura di Arese e di Termini Imerese, alla riduzione dell’occupazione nelle altre fabbriche del Sud oltre che all’applicazione delle forme di flessibilità più selvaggia nelle realtà dove la produzione continua.
Infatti, mentre si chiudono intere realtà produttive, nello stabilimento di montaggio di Melfi si intensifica l’utilizzo degli impianti ed aumentano i turni di lavoro. A Melfi, oggi, si lavora di notte, al sabato, alla domenica con ritmi insostenibili, come non accade in alcun altro stabilimento automobilistico europeo.
La stagione degli accordi separati, inaugurata proprio nel settore metalmeccanico, è ben lontana dall’essersi conclusa. La firma di intese che i lavoratori non hanno la possibilità di ratificare con il voto tra imprese e organizzazioni sindacali compiacenti diventa prassi.
Ma anche questa odiosa prova di forza dei vertici Fiat non commuove i mercati tanto è vero che la società torinese, strangolata da ulteriori perdite di bilancio, è costretta a ridimensionarsi dopo il nuovo grande investimento effettuato pochi mesi prima: l’acquisto della società americana Case che produce macchine agricole e che oggi si trova in gravi difficoltà.
Nel frattempo all’interno della Fiom, insieme alla consapevolezza della drammaticità di una crisi che rischia di travolgere la più grande industria italiana comincia a farsi strada l’idea che non sia sufficiente una pur rigorosa linea sindacale difensiva, che il classico “non vogliamo che i lavoratori vengano espulsi, vogliamo difendere il loro posto e il loro salario” non basti più, che sia necessaria una proposta inedita, dirompente.
Nel corso degli anni più volte gli italiani hanno “comprato” la Fiat attraverso azioni più o meno esplicite di finanziamento pubblico (solo negli ultimi dieci anni lo Stato ha “aiutato” Fiat con più di 11.000 miliardi di vecchie lire, senza contare i contributi che la collettività ha pagato alla casa torinese per l’apertura di nuovi stabilimenti e nuove linee produttive).
Oggi è indispensabile che cinque grandi attori entrino in scena: lo stato italiano e quattro regioni, il Piemonte (patria della Fiat), la Campania (sede del più importante stabilimento, l’Alfa di Pomigliano), la Lombardia (il più grande e congestionato sistema metropolitano, dove è indispensabile sperimentare un sistema di trasporto compatibile con l’ambiente), la Sicilia dove è ubicato lo stabilimento di Termini Imerese.
Lo stato italiano, che negli anni ha più volte finanziato Fiat surrettiziamente, lo deve fare esplicitamente acquistandone, assieme alle quattro regioni interessate una quota significativa di azioni (attorno al 20-30%).
Questa operazione deve servire a finanziare e rilanciare la produzione in Italia e sul mercato mondiale di mezzi di trasporto su strada compatibili ecologicamente e spazialmente.
Lo Stato francese detiene consistenti quote della Renault, mentre lo Stato della Bassa Sassonia, con circa il 20%, è l’azionista di riferimento della Volskwagen: queste due aziende sono riuscite contemporaneamente a migliorare i prodotti, incrementare le vendite ed affrontare le ristrutturazioni con strumenti diversi dalla riduzione di manodopera.
Negli stabilimenti Volskwagen, ad esempio, sono stati sperimentati modelli di flessibilità innovativi, come la settimana lavorativa di quattro giorni o le 28 ore settimanali più la formazione laddove si verificava un cambiamento dell’organizzazione del lavoro e del prodotto, oltre a forme di solidarietà salariale. Si tratta comunque di modi per affrontare le trasformazioni che partono dall’idea che il lavoratore, l’operaio, l’impiegato, il tecnico, rappresentano una risorsa che l’azienda non può permettersi di perdere.
Accanto al sostegno che stato e regioni devono garantire ad un serio piano industriale, il sindacato deve pretendere che le necessarie ristrutturazioni avvengano attraverso strumenti simili a quelli “collaudati” in Volskwagen e deve battersi perché i marchi, la ricerca, la progettazione non finiscano nelle mani di fondi che non hanno alcun interesse industriale.
Nel settembre del 2002 viene siglato l’ennesimo accordo separato che prevede una massiccia espulsione di manodopera. La Fiom si rifiuta di avvallare un’operazione che non porterà al rilancio dell’azienda.
Nei giorni successivi la situazione finanziaria della Fiat si aggrava, il debito si aggira ormai sui 100 mila miliardi di lire ed il crollo in Borsa si fa inarrestabile.
Agli inizi di ottobre la società torinese presenta un nuovo piano di ristrutturazione che prevede l’allontanamento dalle fabbriche di 8.100 lavoratori: a Torino la cassa integrazione e la mobilità interesseranno 3.650 lavoratori; 1000 saranno messi in mobilità all’Alfa di Arese dove cesseranno le lavorazioni; 1.200 saranno i lavoratori espulsi da Cassino dove una delle linee di montaggio verrà fermata; a Termini Imerese gli impianti verranno bloccati totalmente e 1.820 operai verranno lasciati a casa; altri 50 lavoratori subiranno la cassa integrazione straordinaria all’Alfa di Pomigliano, cui si aggiungono altri 500 lavoratori interessati dalla mobilità.
L’annuncio del nuovo, impressionante ridimensionamento del numero degli occupati negli stabilimenti Fiat e l’assenza di garanzie per il loro futuro conferma il drammatico errore compiuto dalle organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto gli accordi separati mentre la Fiom conquista agli occhi dei lavoratori una autorevolezza che le deriva dall’aver dimostrato capacità critica e fermezza nei confronti dell’azienda.
Da Termini Imerese e dall’Alfa di Milano partono le prime, dure reazioni dei lavoratori che poi si estendono ad ogni realtà del gruppo.
Nel mese di ottobre si susseguono a Roma frenetiche riunioni dei vertici sindacali della Fiom per predisporre una proposta alternativa a quella avanzata dalla Fiat e l’analisi della situazione appare sempre più condivisa con il passare dei giorni: siamo di fronte al più grande crack industriale e finanziario mai registrato dal dopoguerra che può coinvolgere anche importanti istituti bancari; Fiat non ha più un prodotto concorrenziale anche per l’assenza di processi produttivi e tecnologie innovative, tanto che nell’area torinese i migliori tecnici impiegati nella ricerca e nello sviluppo del prodotto passano alla concorrenza; calano le vendite sia sul mercato italiano che europeo; il bilancio Fiat ha un debito che neppure chi l’ha prodotto riesce più a controllare; il piano presentato dalla Fiat, intervenendo solo sul debito, ha l’unico scopo di salvare gli azionisti e la famiglia Agnelli e le banche coinvolte insistono nell’affermare che quella presentata dalla società è l’unica proposta possibile perché se dicessero la verità prenderebbe il via una catena incontrollata di fallimenti; appare sempre più evidente che l’accordo con la General Motors avrà come conseguenza la liquidazione totale di un sistema autonomo di produzione dell’auto in Italia e che il processo di ristrutturazione porterà alla chiusura di tutti gli stabilimenti con l’eccezione, per il momento, di Melfi, Prato la Serra e Pomigliano.
In questa situazione nella compagine governativa prevale l’idea di non intervenire, lasciando che azienda e lavoratori si scontrino in un conflitto mortale, come se i rapporti di forza fossero equilibrati.
L’esigenza di avanzare una proposta fuori dal comune diventa maggioritaria all’interno della Fiom.
A fine ottobre l’Assemblea nazionale dei delegati della Fiom decide che gli interventi necessari per rilanciare il settore auto in Italia (ricerca, innovazione di prodotto, ecc.) “richiedono ingenti risorse finanziarie che rendono necessarie la ricapitalizzazione ed un nuovo assetto proprietario della società. Ricapitalizzazione cui deve concorrere in primo luogo la Fiat. In quest’ambito va previsto un intervento di capitale pubblico realizzato attraverso finanziarie pubbliche con l’eventuale coinvolgimento delle regioni dove esistono gli stabilimenti del gruppo. L’intervento pubblico ed il nuovo assetto societario devono essere esplicitamente accompagnati da un nuovo piano industriale che garantisca l’occupazione negli stabilimenti”.
Per rilanciare il settore è necessaria una nuova società che abbia come attori gli azionisti, che devono essere coinvolti nel risanamento del debito con tutti i beni in loro possesso, le banche che devono trasformare il debito Fiat in azioni, lo stato e le regioni.
Questa società deve rispondere ad un nuovo piano industriale che abbia come obiettivo lo studio, la progettazione e la realizzazione entro tre anni di nuovi modelli che rispondano ai criteri di compatibilità ambientale.
In questi tre anni va garantita l’attività in tutti gli stabilimenti, esclusa la cassa integrazione a zero ore ed attivati tutti gli strumenti legislativi che consentano ai lavoratori di rimanere all’interno delle fabbriche.
Tra fine ottobre e gli inizi di novembre si susseguono le mobilitazioni dei lavoratori: gli operai dell’Alfa di Arese bloccano più volte l’autostrada e la stazione ferroviaria di Milano, e mentre a Termini Imerese è un intero paese che si muove, che protesta e che manifesta si moltiplicano i blocchi della produzione anche negli stabilimenti che non vengono interessati da cassa integrazione e mobilità.
Il 18 ottobre, lo sciopero generale della sola Cgil in difesa dei diritti si carica di una valenza in più: alla testa dei cortei che si snodano nella principali città del paese ci sono i lavoratori della Fiat.
Il 13 novembre a Napoli i sindacati metalmeccanici, convenendo sull’impossibilità di effettuare qualsiasi trattativa sul piano industriale proposto da Fiat, annunciano per il 26 novembre lo sciopero generale dei dipendenti Fiat con manifestazione a Roma.
Il 15 novembre con lo sciopero generale unitario i metalmeccanici rivendicano un nuovo piano industriale ed un intervento diretto dello Stato per il rilancio del settore.
La questione Fiat diventa un problema politico generale di cui il Governo, le opposizioni e le forze sociali del paese sono costrette ad occuparsi.
Il 5 dicembre del 2002 il Governo si inchina alla Fiat, avvia le procedure per la mobilità e la cassa intergazione a zero ore, benedice la chiusura definitiva dello stabilimento di Arese.
“Il piano di Fiat Auto – si legge nell’accordo di programma stilato su carta intestata della Presidenza del Consiglio dei Ministri – oltre che allo sviluppo di nuovi prodotti attraverso un impegno significativo di investimenti è orientato nel breve a ridurre la strutturalità dei costi e ad abbassare il punto di pareggio e, pertanto può essere condiviso (…)”.
E’ il segno più evidente della crisi profonda di idee e proposte di una intera classe dirigente imprenditoriale e politica. “I lavoratori sono un costo da tagliare in caso di crisi”: non hanno altra ricetta da proporre anche se questa, ormai, ha mostrato la sua inefficacia oltre alla sua crudeltà.
E’ come se, dopo anni passati con lo sguardo rivolto oltre oceano nel tentativo sciocco di imitare “gli americani” oppure a crogiolarsi nel “piccolo è bello”, gli imprenditori nostrani non sapessero più misurarsi con la realtà in cui operano e pensare “in grande”. Non è più la capacità di inventare nuovi prodotti e nuovi modi per produrli, non è più la competenza nel gestire un’impresa in grado di trasformarsi senza entrare in crisi il criterio di selezione della classe dirigente imprenditoriale.
Così, mentre si susseguono le mobilitazioni e gli scioperi dei lavoratori e un po’ di teste vengono tagliate ai vertici della Fiat inizia una sorta di telenovela: banchieri, speculatori finanziari, personaggi più o meno discutibili si candidano a “salvare” la Fiat sulla base di piani di ristrutturazione che provocano reazioni altalenanti delle borse ancor prima di essere presentati.
E’ una sorta di gioco a carte coperte tra i vertici delle banche, la famiglia Agnelli, la General Motors ed i personaggi di turno, gioco dal quale i lavoratori e il sindacato sono esclusi.
C’è una preoccupante costante in questo susseguirsi di voci e di progetti fantasma: il predominio dell’aspetto finanziario su quello industriale e l’estromissione del sindacato persino dalla possibilità di accesso alle informazioni.
Peccato che proprio la decisione di trascurare strategicamente progettazione, ricerca e innovazione di prodotto per indirizzare e bruciare ingenti risorse in acquisizioni che niente avevano a che vedere con il settore dell’auto ed in speculazioni finanziarie sia la causa maggiore del tracollo che ci troviamo a fronteggiare.
Peccato che proprio lo scollamento tra l’economia reale e lo spostamento di denaro all’unico scopo di “produrre” altro denaro sia uno dei motivi principali di un debito che ormai neppure chi l’ha prodotto
riesce più a controllare.
Proprio per questo ha fatto bene la Fiom a rivendicare una gestione trasparente della crisi Fiat interrogan-do tutti gli organismi di controllo nazionali ed europei (dalla Consob, alle società di revisione del gruppo Fiat, dal Ministero delle attività produttive alla Banca D’Italia, alla Commissione Europea) perché tutta la documentazione relativa ad accordi e contratti (non ultimo quello con la General Motors), la situazione patrimoniale e quindi i bilanci del gruppo Fiat e delle società collegate, i piani finanziari e industriali presentati vengano resi pubblici ed accessibili.
La vittoria dell’impresa ha portato il sindacato ad essere estromesso dai luoghi e dai momenti decisionali: uno degli strumenti più efficaci per togliere potere ai lavoratori ed ai loro rappresentanti è stato proprio il negargli le informazioni indispensabili per capire e intervenire sui processi ed il metterli a conoscenza di scelte già prese, magari dall’altra parte del mondo.
Questo ha costretto l’organizzazione dei lavoratori a muoversi al buio, a ragionare su un quadro che era già mutato, a rincorrere gli eventi.
Conoscere è il primo passo per riportare la gestione della vicenda Fiat sul terreno industriale evitando che si trasformi in mera speculazione e in una lotta per spartirsi il potere e per ribadire che la crisi può avere un esito diverso dalla liquidazione di un patrimonio di capacità e saperi solo se si investirà nella ricerca, nella progettazione e se i lavoratori verranno considerati una ricchezza anche per l’impresa e per la collettività.
La faticosa battaglia per affermare il valore del lavoro in Fiat si intreccia con la vertenza del rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici cui, per la prima volta in quaranta anni, le organizzazioni sindacali si sono presentate con tre distinte piattaforme.
Il 3 luglio del 2001 Fim e Uilm siglarono con Federmeccanica un accordo per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro che i diretti interessati non avevano potuto approvare con il voto. La Fiom si oppose.
Tre giorni dopo migliaia di lavoratori aderirono allo sciopero generale indetto dalla sola Fiom e manifestarono per rivendicare salari dignitosi, condizioni di lavoro umane ma, soprattutto, per ribadire la loro esistenza. Quell’evento segnò l’irrompere sulla scena di un soggetto sociale che anni di cedimenti, di sconfitte, di delusioni, di impotenza avevano rischiato di cancellare.
“Signore e Signori, nell’aprire l’odierno incontro credo sia utile e doveroso da parte mia evitare formalità e preliminari ed affrontare subito la questione centrale che, ad avviso di Federmeccanica, grava sul rinnovo del contratto nazionale di categoria. La questione è costituita dal rispetto delle regole che attualmente presiedono ai nostri rapporti contrattuali, definendone obiettivi, procedure e strumenti; il rispetto, cioè, del Protocollo del 23 luglio 1993.” Così, il 20 gennaio 2003, il presidente di Federmeccanica Alberto Bombassei, inizia il suo intervento nel primo incontro per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Otto smilze paginette solo per affermare che delle tre piattaforme sindacali “una di esse, quella della Fiom, si caratterizza per radicalità, onerosità e, soprattutto distanza dalle regole del Protocollo di luglio; una piattaforma, lo dico subito, sulla cui base ci pare impossibile pervenire ad un accordo che stia nel perimetro del Protocollo e che, pertanto, darebbe vita ad una trattativa sterile dal punto di vista del risultato contrattuale ed utile soltanto a marcare le differenze ed alimentare il conflitto”.
E’ un’ode al 23 luglio l’intervento di Bombassei. Stravagante dal momento che Pininfarina, suo predecessore alla guida di Federmecca-nica, dichiarò testualmente nel marzo del 2001 (registrando i rapporti di forza decisamente favorevoli alle imprese): “Il grande accordo del luglio ’93 sembra aver esaurito le sue potenzialità dal momento che è espressione di un’altra epoca e di un’altra realtà economica. Lo scenario di politica del lavoro del nuovo secolo presenta problemi e dimensioni che non sono più riconducibili a quello schema di relazioni industriali”. Cosa è successo?
Che la piattaforma “più onerosa”, quella della Fiom, avanza precise rivendicazioni salariali che hanno come obiettivo l’adeguamento dei salari all’inflazione reale e la tutela del loro potere d’acquisto (cosa, peraltro, che figurava tra gli obiettivi dello stracitato Protocollo), la lotta alla precarietà e perché le assunzioni avvengano con contratti a tempo indeterminato; che dal 16 marzo 2001, giorno in cui, con grande enfasi, Confindustria presentò a Parma le sue “”Proposte per lo sviluppo del paese” che avevano per parole chiave competitività, flessibilità, liberalizzazione, privatizzazione, il quadro è radicalmente mutato così come i rapporti di forza.
Un movimento vasto e composito, oggi, mette in discussione proprio i cardini del modello di società basato sul primato dell’impresa ed avanza proposte alternative, mentre i rappresentanti dell’impresa non sanno fare altro che individuare come unico nemico il costo del lavoro. Federmeccanica infatti, per bocca del suo presidente parla di perdita di competitività dell’industria e dell’insieme del sistema paese ma non spreca una parola per metterne a fuoco le cause e considera la vicenda Fiat nulla più di una crisi che “si inserisce in un contesto di difficoltà per l’intera industria metalmeccanica” mentre i redditi dei lavoratori, secondo il pallottoliere confindustriale, sarebbero addirittura cresciuti.
E’, in sintesi, con un cumulo di banalità e di bugie che Federmecca-nica si è presentata al confronto con le organizzazioni dei lavoratori ed è inquietante l’assenza totale di analisi che caratterizza la posizione del gruppo dirigente dell’impresa.
Dopo anni di sacrifici subiti dai lavoratori in nome di un futuro migliore e di promesse disattese i sostenitori della supremazia del mercato sono in difficoltà.
Il liberismo che si è imposto come modello economico, politico e sociale a livello mondiale mostra oggi il suo fallimento proprio laddove più fedelmente sono state applicate le sue leggi: ai disastri sul piano economico, ambientale, sociale e culturale si aggiunge oggi un blocco dello sviluppo. La vicenda dell’Ar-
gentina piuttosto che dell’insieme dell’America Latina; le speculazioni finanziarie e il crollo delle borse; la distruzione di grandi società americane (da Enron a Worldcom, aTime Warner e ad altre) dimostrano che il sistema che ha teorizzato la scomparsa della soggettività dei lavoratori (e quindi delle loro organizzazioni) e il primato della finanza vive oggi una inedita crisi di proposta.
In questa situazione, se è vero che la guerra rischia di diventare l’unica risposta delle classi dominanti per imporsi nuovamente e rimettere in moto un’economia in stallo, è vero anche che, dopo anni di pensiero unico, si aprono varchi per chi è portatore di un’altra visione della società: per chi rivendica salari dignitosi, la certezza dell’impiego, un modo diverso di produrre e migliori condizioni di lavoro; per chi da tempo ragiona di consumi equi, di sviluppo compatibile, di nuovi prodotti; per chi si oppone alla guerra, comunque venga declinata.
Il dialogo da qualche tempo in corso tra movimento dei lavoratori e chi vuol dimostrare “che un altro mondo è possibile” comincia a dare i primi frutti: la presenza non solo della Fiom ma di tutta la Cgil a Firenze durante i tre giorni del forum sociale, i giovani che hanno manifestato accanto ai lavoratori dell’Alfa di Milano, a quelli di Termini Imerese, sono il segno che le diffidenze sono state superate, che un rapporto positivo si è costruito, che pezzi di analisi possono tradursi in ragionamento comune, fermo restando “competenze” e ruoli differenti.
Al movimento dei lavoratori, al sindacato, tocca anzitutto il compito di sfatare il luogo comune secondo cui nel mercato globalizzato l’impresa che regge è quella che impone ai suoi lavoratori salari da fame, flessibilità, precarietà.
Non è cancellando i diritti dei lavoratori, facendoli lavorare di notte, pagandoli poco, facendoli vivere nell’incertezza che si scongiurano le crisi e si sviluppa un’impresa; non è gareggiando al ribasso che si sviluppa l’economia di un paese.
Di questo potrebbero convincersi anche gli imprenditori se solo smettessero di ripetere falsi e comunque inefficaci slogans e cominciassero a guardare la realtà.
La nostra proposta sulla Fiat e la piattaforma per il rinnovo del contratto di lavoro partono proprio da un’analisi della realtà, cioè dalla consapevolezza che senza investire su un serio piano industriale, senza cercare di recuperare il terreno perduto nei settori della ricerca e della progettazione, senza cominciare a ragionare su nuovi prodotti il declino dell’intero settore industriale italiano sarà inevitabile, così come senza permettere ai lavoratori di vivere serenamente il presente e pensare senza angoscia al futuro difficilmente l’impresa potrà reggere e svilupparsi nel medio e lungo periodo.In un rapporto diretto e democratico con i lavoratori, abbiamo deciso di aprire un conflitto aspro non solo per difendere migliaia di posti di lavoro, non solo per garantire salari che permettano alle donne e agli uomini di vivere dignitosamente, ma perché siamo convinti che le nostre rivendicazioni e le nostre azioni costituiscano un tratto del disegno di una società diversa, più giusta.
Non possiamo stabilire ora i tempi e l’esito di questa lotta, e sarebbe un grave errore raccontare ai lavoratori qualcosa di diverso, come troppe volte nel passato il sindacato ha fatto.
Abbiamo idee e proposte serie, concrete, fattibili: questa è la verità. Vorremmo si affermassero: questa è la scommessa. Insieme ad altri ci stiamo provando: questa è la straordinaria novità.In questo quadro si inserisce la questione dell’estensione alle realtà lavorative con meno di quindici dipendenti dei diritti che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori porta con sé.
Il referendum che si svolgerà a primavera è una prova che non possiamo permetterci di perdere. Se quello a non essere licenziati senza giusta causa è un diritto fondamentale ora abbiamo l’occasione per cancellare un’intollerabile ingiustizia e per sottrarre migliaia di lavoratori al ricatto di perdere il posto di lavoro senza un valido motivo.
Soluzione della crisi Fiat, rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici, lotta alla precarietà, estensione dei diritti: su questi tre nodi inizieranno a ridisegnarsi i confini tra destra e sinistra sociale e politica.