Quel primato dell’industria pesante

E’ stato assai sintomatico che quando, con l’implosione dell’URSS, anche il sistema di pianificazione centralizzato, che ne aveva caratterizzato la maniera di gestione economica, collassò, nessuno si sollevasse a difenderlo. Precipitato nel discredito, tutti i buoni cittadini sovietici non vedevano l’ora di liberarsene per godere finalmente dei vantaggi della “economia di mercato”. E fu così che la Russia “liberata” è precipitata in quello che Georges Soros, un osservatore al di sopra d’ogni sospetto, ha sinteticamente definito come “un sistema capitalistico di rapina” (Soros, p. 7).
Ma come è stato possibile che l’esperienza della pianificazione sia stata così precipitosamente abbandonata? La risposta è la stessa che vale per la caduta, inaspettata ai più, dell’Unione Sovietica: non ne sappiamo ancora nulla di preciso. O meglio, come ha commentato Sergio Romano, “sappiamo che l’URSS come un aereo in fase di decollo, perdette velocità e precipitò non appena le riforme di Gorbaciov cominciarono a staccarsi dal suolo. Ma sulle vere cause di quell’evento possediamo soltanto ipotesi e supposizioni: l’elezione di un papa polacco nel 1978, la sfida delle guerre stellari lanciata dal presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, nel 1983, i costi crescenti dell’arsenale nucleare e convenzionale, la caduta del prezzo del petrolio nel 1986 e la crisi strisciante dell’economia sovietica negli anni precedenti, i colossali sprechi dell’apparato produttivo e la sua incapacità di adattarsi alla rivoluzione tecnologica dell’era post-industriale. Ma si tratta, per l’appunto, di supposizioni e di ipotesi. Manca così un dato fondamentale. Tutti sanno che la guerra è finita e che l’URSS ha perduto. Ma nessuno conosce le ragioni immediate della sua disfatta” (Romano, pp. 7-8).
Ora, senza alcuna pretesa di fornire la soluzione dell’arcano (che anche a me sfugge), mi si limiterò qui soltanto ad indicare la possibilità di un “vizio organico” interno a quel meccanismo di pianificazione che può aver contribuito, se non proprio al crollo dell’economia sovietica, sicuramente al fatto che quando l’URSS si dissolse come neve al sole nessuno abbia pensato di prenderne le difese.

Ma perché il piano?

Al di là delle contingenze storiche imposte dallo scempio dell’“economia di guerra”, la decisione di passare ad una conduzione centralizzata dell’intera economia della neonata Repubblica sovietica russa non pareva affatto irragionevole sul momento, potendo vantare alle spalle giustificazioni teoriche di prim’ordine che ne garantivano l’assoluta superiorità e, soprattutto, l’ineluttabilità rispetto all’anarchia dell’economia di mercato. E qui è doveroso richiamare innanzitutto la sintesi di Friedrich Engels esposta nell’Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1892) in cui era mostrato come la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti privatistici di produzione avesse ormai raggiunto l’acme provocando crisi sempre più acute. A rimedio potevano soccorrere soltanto i monopoli, così che la concorrenza, bandiera degli economisti della borghesia, si trovava ad essere soppressa dal capitale stesso. Né bastava, ancora perché nella crisi aveva preso ad intervenire sempre più spesso lo stesso “rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato” (Engels, p. 109), costretto ad assumere la direzione d’interi settori produttivi. Ecco perché “se le crisi hanno rivelato l’incapacità della borghesia a dirigere ulteriormente le moderne forze produttive, la trasformazione dei grandi organismi di produzione e di traffico in società per azioni, in trust e in proprietà statale mostra che la borghesia non è indispensabile per il raggiungimento di questo fine” (Engels, pp. 109-110). Naturalmente l’appropriazione statale delle forze produttive non era affatto la soluzione del conflitto tra forze produttive e rapporti di proprietà, che avrebbe potuto presentarsi soltanto qualora “la società s’impadronisse delle forze produttive che sono divenute troppo grandi per subire qualsiasi altra direzione che non sia quella sua”. E solo quando “le odierne forze produttive saranno considerate in questo modo, conformemente alla loro natura finalmente conosciuta, all’anarchia sociale della produzione subentrerà una regolamentazione socialmente pianificata della produzione, conforme ai bisogni sia della comunità che di ogni singolo” (Engels, p.110-11).

Ora è curioso che altri pensatori assolutamente distanti dal marxismo, come ad esempio l’economista Léon Walras, abbiamo – più o meno nello stesso torno di tempo – immaginato che la stessa soluzione, e cioè che un sistema di pianificazione statale dell’intera economia avrebbe potuto essere la soluzione giusta e necessaria davanti alla deriva monopolistica in atto. Anche per Walras si trattava di reagire alla minacciata scomparsa delle piccole imprese davanti ai “big trusts” che avrebbe condotto l’economia al monopolio. Infatti “la produzione in libera concorrenza, dopo essere stata esercitata da un gran numero di piccole imprese, tenderà a dividersi in un numero minore di imprese medie, poi entro un piccolo numero di grandi imprese, per sfociare finalmente dapprima nel monopolio a prezzo di costo, poi nel monopolio a prezzo di guadagno massimo” (Walras, Elementi di economia pura, pp. 626-627). A questo punto i più danneggiati sarebbero risultati i consumatori perché, come dimostravano eleganti teoremi economici, soltanto la libera concorrenza poteva assicurare sia una struttura produttiva capace di ridurre i costi medi al minimo che una struttura mercantile in grado di offrire prezzi di vendita coincidenti con quei costi minimi. Allora le imprese avrebbero chiuso i propri conti in pareggio (“senza fare alcun guadagno né perdita”, come recitava lo slogan walrasiano) e a trarne beneficio sarebbero stati i consumatori e solo loro. Ma se questo risultato veniva contraddetto dal monopolio? Semplice: “se la libera concorrenza non sussiste da se stessa, c’è bisogno di una potenza esterna che la mantenga” (Walras, Correspondence and related papers, p. 467) quale poteva essere soltanto lo Stato. “Così noi riconosciamo allo Stato il diritto di regolamentare la fabbricazione dei prodotti o dei beni capitali d’interesse privato in un caso ben determinato: quando cioè, per la natura delle cose, in questa fabbricazione la libera concorrenza è impossibile ed il monopolio inevitabile, e ciò allo scopo di riportare il prezzo di vendita di questi prodotti o di questi capitali al livello del loro prezzo di costo” (Walras, Etudes d’économie politique appliquée, p. 430). Ma Walras osava spingersi anche oltre immaginando che, di fronte all’estensione generalizzata del “monopolismo“, rimanesse allo Stato l’unica possibilità di farsi “imprenditore unico” di tutte le produzioni (Walras, Elementi di economia politica pura, p. 322) per introdurvi quel comportamento più efficiente della concorrenza perfetta disatteso invece dalla deriva monopolistica in atto. Per questo, a suo dire, “il collettivismo della produzione è materialmente possibile non avendo a rigore nulla di contrario né alla libertà né alla eguaglianza né all’ordine né alla giustizia; si tratta di una semplice questione di utilità sociale”; e siccome poi la condizione salariale avrebbe continuato a sussistere, “il nostro collettivismo non sarebbe affatto comunismo” (Walras, Etudes d’économie politique appliquée, pp. 272-273).
Nel 1908 doveva infine essere il suo allievo Enrico Barone a dimostrare, addirittura algebricamente, che l’allocazione più efficiente delle risorse che si realizzava (teoricamente) nel caso della concorrenza perfetta si poteva conseguire anche in una economia di piano se l’onnipotente “ministro della produzione” che avesse centralizzato tutte le decisioni economiche si fosse comportato razionalmente (distribuendo cioè, per “tentativi ed errori”, tutti i fattori produttivi esistenti nelle diverse produzioni di beni di consumo e di beni capitali in modo di garantire l’equivalenza del prezzo di vendita al costo di produzione minimo). Allora – Barone dimostrava – ” il sis
tema delle equazioni dell’equilibrio collettivista è né più né meno di quello dell’equilibrio della libera concorrenza” (Barone, p. 273). Naturalmente nella pratica non era possibile risolvere a tavolino tutte le equazioni dell’equilibrio (un lavoro che a Barone appariva “enorme, gigantesco”), però “non v’è impossibilità” (Barone, p. 291) e tanto bastava: quel ministro, non avendo alcun modo di determinare a priori i coefficienti di fabbricazione più vantaggiosi economicamente, avrebbe soltanto dovuto “di necessità ricorrere ad esperimenti su larga scala per poi decidere quali siano gli organamenti più vantaggiosi, che conviene conservare in vita e diffondere, per meglio conseguire il massimo collettivo, e quali, invece, conviene di scartare e di considerare come falliti” (Barone, p. 293).
A fronte di tanta dimostrazione (e da un pulpito insospettabile) è ben comprensibile l’estrema sicurezza con cui doveva affrontare il problema, dall’altra parte della barricata, Vladimir Lenin nel suo Stato e rivoluzione. “Registrazione e controllo: ecco l’essenziale, ciò che è necessario per l’avviamento e il funzionamento regolare della società comunista nella sua prima fase(…). Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d’un solo “cartello” di tutto il popolo, dello Stato. Tutto sta nell’ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la stessa misura di lavoro e ricevano nella stessa misura, (ma) la registrazione e il controllo in tutti questi campi sono stati semplificati all’estremo dal capitalismo che li ha ridotti a operazioni straordinariamente semplici di sorveglianza e di conteggio” (Lenin, p. 177).

“Schemi di riproduzione” e beni-capitali

Si sa che i pianificatori sovietici, nella determinazione delle proprie linee di condotta economica, si sono però richiamati agli “schemi di riproduzione” esposti nel secondo libro del Capitale, finendo per accordare la supremazia allo sviluppo della produzione dei beni-capitali (la cosiddetta “industria pesante”) rispetto alla produzione dei beni di consumo (l’industria “leggera”). Ma come è venuta a cristallizzarsi questa “regola” di pianificazione?
Il riferimento d’obbligo è agli “schemi di riproduzione”, dove però Marx aveva solo dimostrato che per avere una crescita equilibrata dell’economia complessiva, suddivisa nella produzione di beni-capitali (I settore) e di beni di consumo (II settore), era necessaria una certa proporzione di destinazione delle risorse produttive esistenti. E quale proporzione? Nell’ipotesi dell’impiego di tutto il plusvalore prodotto nell’aumento di capitale costante (mezzi di produzione) e capitale variabile (forza-lavoro), la condizione d’equilibrio (esattamente formulata da Nikolaj Bucharin nel 1925, dato che Marx l’aveva appena suggerita) diceva soltanto che il sistema economico avrebbe potuto crescere senza patire alcuno squilibrio se la maggiore occupazione del I settore fosse risultate equivalente ai maggiori beni-capitali del II settore: soltanto così, spiegava Bucharin, sarebbe stata data “la possibilità di un equilibrio tra le differenti parti della produzione sociale da un lato, e dall’altro la possibilità di un equilibrio tra produzione e consumo” (Bucharin, p. 13). Ma per garantirsi questo sentiero di crescita equilibrata si sarebbe dovuti partire dalle decisioni d’accumulazione (in occupazione) del I settore oppure da quelle (in beni-capitali) del II settore? Marx non aveva detto nulla di preciso al proposito, o meglio aveva mostrato la reciproca dipendenza delle due decisioni per cui, data una decisione, era ricavabile l’altra e viceversa. Pure nello scritto giovanile di Lenin A proposito della cosiddetta questione dei mercati (1893) era confermata l’impossibilità di “trarre alcuna conclusione circa la preponderanza della categoria I sulla II: in questo schema entrambe si sviluppano parallelamente” (Lenin, p. 78). Tutto quello che si poteva dedurre era solo che, a causa del progresso tecnico, la produzione dei mezzi di produzione sarebbe cresciuta “più rapidamente della produzione dei beni di consumo” (Lenin, p. 81).
In effetti, se si vuol ritrovare un ascendente teorico al “primato” dell’industria pesante, ci si deve rivolgere a Rosa Luxemburg che nell’Accumulazione del capitale (1913) aveva sottolineato, premessa la reciproca dipendenza delle decisioni d’investimento, che però “si tratta di una dipendenza di una natura tutta particolare (perché) l’accumulazione parte dalla sezione I e la sezione II non fa che seguirne il movimento” (Luxemburg, p. 108). Che poi la Luxemburg potesse sostenere questa sua affermazione con esempi numerici tratti dal Capitale era cosa dovuta alla semplificazione di Marx di svolgerli partendo, per comodità, dalla fissazione delle grandezze del I settore per ricavare quelle dell’altro; sarebbe infatti bastato partire da decisioni d’accumulazione del II settore per dedurre quelle del primo, con l’effetto di dimostrare che adesso era il secondo settore a dettar legge). Come che sia, per la Luxemburg “l’intero moto dell’accumulazione è diretto e attivato da I e subìto passivamente da II” (Luxemburg, p. 113), sebbene ella avesse scrupolosamente confinato questo “primato” alla sola realtà capitalistica, dato che in un’economia socialista la relazione di dipendenza avrebbe operato all’incontrario – e perciò la questione avrebbe dovuto essere “affrontata partendo non dalla sezione I, ma dalla sezione II” (Luxemburg, p. 116) – dato che la motivazione socialista non poteva più essere la “produzione per la produzione”, bensì il consumo (e quindi la soddisfazione) crescente delle masse.

Ascesa e caduta del “primato” dell’industria pesante

È’ stato con Stalin che le questioni teoriche di cui sopra sono diventate drammaticamente concrete: la pianificazione centralizzata era stata impiantata in Unione Sovietica e adesso si trattava di decidere quale direzione d’accumulazione intraprendere. Partendo dall’occupazione del I settore o dai mezzi di produzione del II? Stretto dalle potenze imperialistiche, a Stalin appariva evidente che ci si dovesse dotare al più presto di quella base industriale che ancora mancava e fu così che la “linea di condotta” divenne la crescita accelerata del I settore. La questione era stata posta davanti al Comitato Centrale nel novembre 1928 (L’industrializzazione del paese e la deviazione di destra nel PCS(b)): “il punto di partenza delle nostre tesi è la constatazione che un ritmo rapido dello sviluppo dell’industria in generale, della fabbricazione dei mezzi di produzione in particolare, è la base di tutte le basi, la chiave dell’industrializzazione del paese, della trasformazione di tutta la nostra economia sulla base dell’evoluzione socialista. Ora cosa significa questo ritmo rapido dello sviluppo industriale? Che bisogna investire più capitali nell’industria” (cit. in Boffa, p. 147). Era questa la prima indicazione di quella “linea del metallo”, contrapposta alla “linea del tessile”, che doveva rivelarsi la più formidabile combinazione di economia, politica ed ideologia escogitata per assicurare la costruzione accelerata di quel “socialismo in un paese solo” che si sarebbe poi dimostrato in grado di reggere l’urto tremendo dell’aggressore nazista. La scelta del “primato” dell’industria pesante nasceva quindi assolutamente costretta, ma pure quanto mai opportuna se l’anticomunismo preconcetto non vela il giudizio storico. D’altra parte c’erano alternative ad una simile decisione? Il che naturalmente non significa nascondere i costi di tanta trasformazione industriale, ma nemmeno dimenticarne gl’indiscutibili risultati. Dove mai s’era fatto di meglio partendo da equivalenti condizioni di arretratezza?

Come che sia, è stata questa supremazia accordata all’industria pesante a spingere all’elaborazione di piani particolareggiati espressi in termini fisici, ed alla cui realizzazione doveva essere sacrificata ogni altra forma d’investimento, il che era peraltro favorito dal fatto che i bilanci degli altri settori erano invece espressi in termini monetari, imputandovi prezzi “amministrativi” del tutto arbitrari ma funzionali alle scelte di priorità prestabilite. Quando poi, esaurita la “guerra calda”, sopravvenne la “guerra fredda”, questo primato non poté essere dismesso, finendo per essere addirittura “canonizzato” a legge universale di sviluppo da parte dello stesso Stalin nel suo ultimo scritto Problemi economici del socialismo nell’URSS del 1952, dove si affermava che “gli schemi marxisti della riproduzione non si esauriscono affatto nel riflesso del carattere specifico della produzione capitalistica, ma contengono in pari tempo tutta una serie di tesi fondamentali della riproduzione che hanno valore per tutte le formazioni sociali, quindi anche in particolare per la formazione sociale socialista”; dopo di che tra queste tesi spiccavano quella della divisione della produzione sociale in mezzi di produzione e beni di consumo e quindi “la tesi dell’aumento prevalente della produzione dei mezzi di produzione nella riproduzione allargata” (Stalin, p. 144). Come sopra s’è detto, ciò non avrebbe dovuto significare che le decisioni d’accumulazione dovessero partire inevitabilmente dall’industria pesante, né tanto meno che la “regoletta” valesse per economie alternative al capitalismo, ma questo è quanto…

Però nel frattempo quella supremazia aveva prodotto i suoi “portatori sociali” (la lobby dei cosiddetti “mangiatori d’acciaio”), che rappresentavano all’interno dell’apparato di partito e di piano un centro d’interesse difficilmente condizionabile. La conseguenza è stata che, sull’ammontare complessivo della produzione industriale, la percentuale dei beni capitali è cresciuta in URSS dal 65.9% del 1946 al 73-74% degli anni ’70. Soltanto Georghij Malenkov, nel suo breve periodo di governo, si provò ad invertire la tendenza, ma venne subito destituito (febbraio 1955). E altrettanto capitò a Nikita Kruscev non appena lanciò l’idea che ormai si potesse abbandonare la via staliniana del metallo: la lobby dei “mangiatori d’acciaio” non ci mise molto a deporre anche lui (ottobre 1964). Chi invece non ci pensò mai ad intaccare la supremazia dell’industria pesante fu Leonid Breznev, che così poté chiudere gli occhi alla guida dell’URSS (novembre 1982). Nel frattempo però l’economia sovietica era precipitata in una stagnazione che, nel rapporto tra i due settori, si manifestava nel fatto che occorrevano sempre più beni capitali per produrre un equivalente ammontare di beni di consumo, conseguenza di un preoccupante ribasso della produttività. E siccome il saggio di crescita degli investimenti aveva anch’esso preso a calare, pure i beni di consumo erano andati progressivamente diminuendo, mostrando un’insufficienza che, se in occidente avrebbe preso l’aspetto dell’aumento dei prezzi, in Unione Sovietica si manifestava invece sotto la forma delle odiose code davanti ai negozi.

Spettò a Mikhail Gorbaciov provarsi a risolvere lo scompenso con la sua “perestroika”, ma non ci fu verso: il sistema, cristallizzato nelle sue priorità, pareva ormai immodificabile. E quando, a partire dal 1988, tutto precipitò in quella “katastroika” che tanto deliziava i commentatori occidentali (è qui che sfuggono le cause reali, tra le quali però bisognerebbe inserire anche il nome, terribile come Hiroshima, di Chernobyl), s’immaginò che soltanto approdando al mercato (al massimo in 500 giorni, come si diceva) si sarebbe potuto risolvere la questione dei beni di consumo. “Ci occorre il mercato”, annunciò così Gorbaciov nel maggio 1990, chiudendo clamorosamente la storia dell’economia di piano in Unione Sovietica. Dopo di che è pensabile che la “lobby dell’acciaio”, messa in discussione, abbia provato a ritentare il colpo riuscito nel 1955 e nel 1964. Ma ormai il seguito popolare pencolava dalla parte contraria, sicché dal golpe dell’agosto 1991 (talmente “finto” che avrebbe potuto rappresentare anche una trappola…) è uscito vincitore Boris Eltsin che ha subito provveduto a licenziare Gorbaciov, a liquidare Pcus e Unione Sovietica e a procedere, a tappe forzate, alla svendita al miglior offerente del grande impero delle imprese pubbliche. Al popolo, che lo aveva sostenuto, aveva promesso il consumismo al posto del comunismo; che cosa poi il popolo abbia ottenuto lo descrive in dettaglio Giulietto Chiesa in Roulette russa. Cosa succede al mondo se la Russia va in pezzi, Milano, 1999.

Bibliografia citata

E. Barone, Le opere economiche, vol. I, Bologna, 1936.
G. Boffa, Per conoscere Stalin, Milano, 1970.
N. Bucharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale, Bari, 1972.
F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Roma, 1970.
V. Lenin, Opere complete, vol. I, Roma, 1955.
V. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, 1966.
R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Torino, 1968.
S. Romano, La pace perduta, Milano, 2001.
G. Soros, La minaccia capitalistica, Milano, 1997.
J. Stalin, Problemi economici del socialismo nell’URSS, Bari, 1976.
L. Walras, Correspondence and related papers, vol. II, Amsterdam, 1965.
L. Walras, Elementi di economia politica pura, Torino, 1974.
L. Walras, Etudes d’économie politique appliquée, Lousanne-Paris, 1936.