Quattro considerazioni sull’imperialismo nel XXI Secolo

Il dibattito che ci propone l’Ernesto sulla questione dell’imperialismo è estremamente stimolante. Con altri militanti e studiosi marxisti italiani e stranieri sono ormai cinque anni che abbiamo cercato di rimettere mano a questa categoria decisiva per l’analisi della realtà in cui viviamo (1). Non è uno scandalo rilevare che sono moltissimi ad aver rimosso tale categoria dal dibattito e dall’elaborazione politica e teorica della sinistra. Esistono molti iconoclasti nella sinistra europea ed alcuni si definiscono anche comunisti, ma le categorie di Marx e Lenin ci sembra che colgano ancora meglio di altre la sostanza dell’imperialismo e si rivelino ancora insuperate. L’imperialismo – è bene sottolinearlo ancora una volta – non è infatti una politica commerciale particolarmente aggressiva né l’ostentazione degli strumenti militari, l’imperialismo è uno stadio particolare dello sviluppo capitalistico ed a questo stadio ci sembra che le principali economie capitaliste (incluse quelle europee e quella italiana) e gli “Stati finanziariamente più forti” ci siano arrivate da tempo. In questi anni, il mito della globalizzazione sembra aver messo in ombra processi come la competizione intercapitalista o le relazioni internazionali fondate sulla Triade USA, Europa, Giappone. La stessa mitica Commissione Trilaterale è apparsa in difficoltà nel dare una visione organica di una nuova realtà che minerebbe alle fondamenta anche una istituzione potente e parallela a quella delle maggiori potenze capitaliste del pianeta nata per fronteggiare con la concertazione trilaterale la minaccia comunista. “L’inarrestabile affermarsi della globalizzazione rischia di provocare almeno una vittima, quella logica tripolare che durante la guerra fredda vedeva USA, Europa occidentale e Giappone accesi concorrenti economici ma forti alleati politici” sottolinea un osservatore interno riassumendo la discussione della riunione di Parigi nel marzo 1999 “Ora che la guerra fredda non c’è più, ciascuno si sente con le mani libere, mentre i nuovi soggetti che si affacciano sulla scena economica e strategica sparigliano gli scenari tradizionali delle alleanze, delle priorità e delle convenienze” (2). Il feticcio della globalizzazione sembra ormai soddisfacente anche a molti “neomarxisti” per spiegare il mondo attuale, le nuove relazioni internazionali e i nuovi rapporti di forza. Eppure la categoria della globalizzazione è molto imperfetta e sotto certi aspetti deviante, sarebbe più appropriato parlare di “competizione globale” perché tale è, a mio avviso, l’epoca che stiamo vivendo, un’epoca in cui la competizione economica e quella politica tra le economie più forti e/o i poli imperialisti tenderà ad accentuarsi più che a comporsi.

1. L’imperialismo e il ruolo dello Stato

Nell’epoca di Lenin – nonostante la compiutezza di un mercato mondiale – la base statuale-nazionale del capitalismo era ancora dominante. Nei rapporti finanziari era dominante la banca mista che aveva sostituito le Borse per il reperimento dei capitali e il capitale finanziario era strettamente legato allo Stato (il capitalismo monopolistico di Stato). Oggi l’imperialismo non è più organizzato sulla base dello Stato nazionale ma su poli dentro cui si coordinano vari Stati tendenzialmente sempre più omogenei sul piano economico, finanziario, valutario. Ed è profondamente errato ritenere che gli Stati non abbiano più una funzione determinante. Lo Stato si è allargato a livello regionale (ad esempio l’Europa) ma mantiene la sua funzione di sostegno politico ed economico all’accumulazione capitalistica sia attraverso la politica fiscale e di bilancio, sia attraverso la politica commerciale ed internazionale verso le altre aree e gli altri poli imperialisti. Infine, ma non per importanza, attraverso lo strumento militare che abbiamo visto all’opera almeno due volte in questo decennio di fine secolo. Anche se è vero che dallo stesso FMI erano venuti inviti espliciti a frenare la liberalizzazione totale dei capitali alla luce delle crisi finanziarie internazionali del 1997 e 1998, non è stato affatto trascurabile il ruolo dello Stato francese nel bloccare in sede OCSE l’approvazione dell’AMI o il ruolo degli Stati nel fallimento delle trattative dell’OMC a Seattle. La funzione dello Stato nell’imperialismo dipende innanzitutto della natura dello Stato : esistono Stati “disgreganti” (forti) e Stati “disgregati” (deboli). In modo molto pertinente Eric Hobsbawm sottolinea come “una delle grandi questioni che sta di fronte al XXI Secolo è l’interazione tra il mondo dove lo Stato esiste e il mondo dove non c’è” (3). Il processo di disgregazione statuale avviato dai poli imperialisti più forti (USA ed Europa) contro l’Europa dell’Est ma anche contro l’Africa “decolonizzata” o l’Asia non più baluardo antisovietico (vedi l’Indonesia e in prospettiva India e Cina), confermano che questa “interazione” è uno dei tratti caratteristici dell’imperialismo moderno.

Questa funzione disgregante e riaggregante intorno ai poli principali da parte degli Stati più forti è ormai visibile anche ad occhio nudo:

* La funzione degli Stati Uniti rispetto all’area del NAFTA è evidentemente una funzione centralizzatrice ed egemonica sia nei confronti degli altri paesi integrati nel blocco (Messico, Canada) sia nei confronti dell’area di influenza del blocco stesso (America Latina).

*In questo quadro non possiamo sottovalutare la funzione degli Stati Uniti nelle “terre di nessuno” (oggetto aperto di competizione e spartizione economica e geo-politica) come l’Africa o l’area petrolifera dell’Asia centrale (vedi il Caucaso e l’area del Caspio). L’Africa – ad esempio – resta il teatro di uno scontro aperto tra Stati Uniti e Francia mentre nelle repubbliche asiatiche dell’ex URSS lo scontro con la Russia si va facendo sempre più pesante.

* Il Giappone non ha la stessa forza centralizzatrice e disgregante degli Stati Uniti. Non solo non ha una capacità di egemonia complessiva sul resto dell’Asia (pur mantenendo una solidissima penetrazione economica) ma deve competere con un nascente Stato forte come la Cina che ha dimostrato di avere ormai un ruolo strategico per la stabilità economica dell’Asia. Né può essere trascurato il peso di una media potenza nucleare come l’India.

* Il polo imperialista europeo – pur seguendo un processo che rimane più complesso – ha visto crescere la sua funzione centralizzatrice intorno all’asse franco-tedesco e la sua funzione disgregatrice verso l’Europa dell’Est (dalla crisi jugoslava, alla deflagrazione dell’URSS, alla secessione ceco-slovacca).

Si rivela ancora forte un limite di questo processo : in Europa fino ad ora è andata avanti la centralizzazione economica ma è andata avanti più lentamente quella politica. La Gran Bretagna si muove ancora molto più in sintonia con gli USA con la UE . Ma questo ritardo viene recuperato in tempi sempre più stretti. L’allargamento continuo dell’Unione Europea a Est e a Sud inglobando nuovi Stati (e nuovi mercati) viaggia ormai parallelamente all’organizzazione di un efficiente esercito europeo e di un esecutivo più dinamico.

La funzione determinante dello Stato nell’imperialismo non si limita però agli aspetti geo-politici e della conquista dei mercati internazionali. Anche sul piano dell’accumulazione e del mercato interno, la funzione dello Stato si conferma decisiva in settori fondamentali.

– La scienza, intesa come forza produttiva – anche se i suoi risultati vengono monopolizzati dal profitto privato – richiede forti investimenti di capitale e possibilità di ammortizzazione dei costi che ancora oggi possono essere assicurati solo dallo Stato. Il caso delle biotecnologie è, in tal senso, emblematico. I due ultimi governi tedeschi (democristiano prima e socialdemocratico poi) hanno lanciato un ambiziosissimo piano di sviluppo dell’industria e della ricerca biotecnologica. Nonostante in Germania ci siano ben tre delle prime cinque multinazionali chimiche-farmaceutiche del mondo, senza l’intervento economico dello Stato non avrebbero potuto reggere la competizione con le transnazionali USA.

– La formazione del capitale umano adeguato e funzionale alle nuove esigenze della accumulazione flessibile, è un compito che viene svolto in larga parte dallo Stato. La gestione di scuole, università, centri di formazione possono privatizzare la riproduzione e la gestione del comando (l’insegnamento) ma continueranno ad affidare gran parte dei costi sociali allo Stato;

– La stabilità del mercato interno continua a vedere un ruolo centrale dello Stato. Anche se le privatizzazioni hanno via via ridotto la presenza statale nell’economia, l’andamento dei flussi della domanda interna richiedono ancora e massicciamente l’intervento statale senza il quale, il “mercato” si è dimostrato incapace di assicurare i margini di profitto all’accumulazione capitalistica. La vicenda della rottamazione delle automobili, i progetti di cablaggio delle grandi aree metropolitane, la ristrutturazione delle reti energetiche e l’estensione di quelle dei trasporti, dimostrano che i padroni in realtà vogliono ” più Stato per il mercato”.

2. Competizione o concertazione tra i poli imperialisti?

Il rapporto tra il nascente polo imperialista europeo con gli altri due poli della triade (USA, Giappone) è sicuramente di competizione. Secondo l’economista statunitense Martin Feldstein (ex capo dello staff economico di Reagan e di Bush) l’introduzione dell’Euro potrebbe addirittura portare alla guerra tra USA ed Europa. È curioso sottolineare come anche l’ex cancelliere tedesco Khol, un anno prima di Feldstein, avesse dichiarato che “L’integrazione economica europea è una questione di pace o di guerra nel XXI Secolo” e che anche recentemente abbia ribadito tale concetto in una intervista al Corriere della Sera.

La prima vera guerra competitiva tra due poli imperialisti è stata sicuramente quella scatenata dagli Stati Uniti contro il Giappone nella seconda metà degli anni ’90 e conclusasi con la vittoria degli USA che hanno applicato nuovamente – con sistemi diversi – il metodo dell’ammiraglio Perry e costringendo così il Giappone ad aprire il suo mercato interno alla penetrazione delle multinazionali statunitensi (ed anche europee come nel caso della Renault-Nissan. Un secolo e mezzo fa questo risultato fu ottenuto con le cannonate delle navi americane giunte nella baia di Tokio, alla fine del XX Secolo è stata utilizzata la crisi finanziaria delle tigri asiatiche e la sopravalutazione dello yen sul dollaro con il conseguente crollo delle esportazioni giapponesi sulle quali si reggeva gran parte della struttura del capitalismo giapponese. Giorgio Gattei ha definito questo conflitto come la “seconda guerra del Pacifico”. Le ambizioni giapponesi manifestate negli anni ’90 da Akio Morita (“Il Giappone che sa dire”) o dalla dottrina Miyazawa che voleva il Giappone al centro di un nuovo sistema di sicurezza in Asia, sono state frustrate da un conflitto giocato a tutto campo e che ha messo in ginocchio il polo giapponese (4). Su un altro scenario, quello strategicamente più rilevante, le tensioni tra Europa e Stati Uniti sul rapporto di cambio tra dollaro ed euro (dal quale dipenderanno sia i nuovi equilibri sui mercati finanziari sia l’andamento delle rispettive bilance commerciali), il fallimento delle trattative dell’OMC a Seattle o l’uso sistematico delle crisi geopolitiche nei Balcani (fino ad arrivare alla guerra contro la Jugoslavia) come contraddizioni gettate contro l’Europa, sono esempi concreti di una competizione ormai abbastanza evidente. E come dovremmo leggere la fusione tra Aereospatiale (Francia), British Aerospace (Gran Bretagna), Dasa (Germania) Finmeccanica (Italia) per dare vita ad un polo della produzione militare, aereonatutica ed aereospaziale per la competizione con i colossi statunitensi in un mercato strategico sul piano economico, tecnologico e geo-politico ? O la fusione delle maggiori aziende europee di elettronica avanzata per dare vita ad un polo missilistico autonomo dagli USA? E ancora, come spiegarsi l’impressionante accelerazione con cui in meno di un anno si è arrivati alla costituzione dell’esercito europeo? Uno scrupoloso studioso marxista dell’imperialismo USA come Malcom Sylvers ha segnalato in un suo recente ed interessantissimo libro come “Si può senz’altro ipotizzare che sia la natura concorrenziale del capitalismo sia la struttura degli Stati tendono ad impedire il raggiungimento di accordi stabili tra le potenze che contano. Eppure, lo scenario della conflittualità con possibili forti aumenti della tensione internazionale non si dispiega come un’alternativa diretta al coordinamento; esistono elementi di entrambe le tendenze anche se nel panorama contemporaneo ci sono ben più evidenza della prima”. Nelle pagine precedenti aveva messo bene in evidenza l’impressionante aumento delle spese militari statunitensi, ma Sylvers aggiunge una considerazione che merita estrema attenzione quando nega qualsiasi tentazione “isolazionista” degli USA verso i partner europei e che – al contrario – “una lettura attenta delle pubblicazioni ufficiali del Pentagono e degli specialisti militari dà tutt’altra impressione : esse indicano come rivali potenziali in conflitti armati non solo la Cina e la Russia ma anche gli altri paesi appena nominati : il mondo è sempre più turbolento e le minacce “vanno al di là del tradizionale antagonismo est-ovest” (5). Ma questa competizione coesiste anche con un rapporto di collaborazione “trasversale” tra le transanazionali europee e statunitensi. Le fusioni e gli incroci azionari sono ormai numerosi sulle due sponde dell’Atlantico. Se mettessimo mano solo al settore delle telecomunicazioni e dell’informazione, ci inoltreremmo in un ginepraio di accordi reciproci in cui sarebbe difficile distinguere la “nazionalità” dei capitali in gioco. Parallelamente però in un altro settore emergente come quello delle biotecnologie, la competizione è molto più marcata su base nazionale anche perchè gli investimenti di capitale sono elevati (e c’è dunque bisogno del sostegno dello “Stato”) e le società statunitensi non negano di voler mantenere il predominio mondiale nel settore. Infine occorre sottolineare come questo rapporto di competizione e concertazione ha avuto finora le sue “stanze di compensazione” per le mediazioni e i compromesea e Stati Uniti. Anche su questo aspetto è interessante il giudizio di Hobsbawm quando sottolinea che ” a dispetto della retorica del libero commercio, assistiamo ad un riemergere del protezionismo e delle dispute ad esso collegate tra Stati Uniti ed Unione Europea ed anche tra USA e Cina…. Non credo che, dagli anni Trenta in poi, ci sia mai stato un confronto diretto tra Stati Uniti e paesi europei, con minacce di guerre commerciali e tariffe punitive, simili a quelle che stiamo vedendo adesso”(6).

3. Globalizzazione o nuovi blocchi economici?

A partire dalla famosa crisi degli anni ’70 – una crisi che molti osservatori hanno confermato essere stata profonda ed altri definiscono “madre” della attuale crisi di sovraproduzione di capitali – il valore degli scambi mondiali di beni manufatti è aumentato del 350%, quello dei servizi del 400% e quello delle transazioni finanziarie dell’800%. La accresciuta dominanza del capitale finanziario appare dunque confermare i caratteri dell’imperialismo storicamente definiti da Lenin. Anzi, “mai come negli ultimi venti anni c’è stato un divario così netto tra l’aumento velocissimo dell’integrazione finanziaria e quello, sostenuto ma molto più debole, del commercio internazionale di merci e servizi” sottolineano due commentatori economici (7). La globalizzazione – per volume e localizzazione – è dunque un processo che ha investito soprattutto la sfera finanziaria e quella – crescente – delle cosiddette risorse immateriali, mentre sul piano dell’economia reale le cose stanno ancora assai diversamente e disegnano una tendenza contrastante rispetto alla mitizzata globalizzazione. I dati forniti dalle istituzioni internazionali confermano ad esempio che il commercio mondiale – ovvero lo scambio reale di beni e servizi – è sì cresciuto ma è cresciuto soprattutto all’interno dei blocchi economici regionali (UE, NAFTA, ASEAN) piuttosto che tra le varie aree del mondo. Non solo, la stragrande maggioranza delle relazioni economiche rivolte all’esterno dei blocchi, avviene soprattutto tra i poli capitalistici sviluppati ed in misura assai minore con i paesi in via di sviluppo.

Crescono gli scambi ma su base regionale

(percentuale degli scambi all’interno dei blocchi)

Unione Europea Nafta Asean Mercosur

1990 59,0% 41,0 18,0 8,9

1998 62,5% 51,0 20,6 24,8

(Fonte : Alternatives Economiques, dicembre 1999)

Ma anche da una analisi del giro di affari delle multinazionali, emerge un dato che contrasta la tesi un pò mistica della “globalizzazione senza frontiere”. Infatti per le multinazionali europee, il mercato interno e quello nell’area europea, rappresentano ancora la stragrande maggioranza della loro attività. Si comprende bene allora cosa possa significare avere una unica moneta ed un unico mercato aperto – di fatto trasformato in mercato interno – come quello europeo. Sulle prime trentadue multinazionali europee, 26 hanno più del 50% del fatturato all’esterno del loro paese di origine e solo 11 hanno più del 50% dei loro dipendenti all’estero. Secondo uno studio condotto da due economisti inglesi Paul Hirst e Grahame Thompson, la realtà che emerge è appunto quella della “fortezza Europa” internazionalizzata soprattutto al suo interno e molto meno nelle altre aree. Ma questo fenomeno non è solo europeo : anche per le multinazionali statunitensi e giapponesi, il mercato interno o al massimo quello di “area” (Nafta e America Latina per quelle USA, Asia per quelle giapponesi) è ampiamente maggioritario.

Il mercato delle multinazionali europee

Servizi
Industria

mercato interno
mercato europeo
mercato interno
mercato europeo

IMN francesi
69%
15%
45%
31%

IMN tedesche
65%
13%
48%
27%

IMN olandesi
47%
28%
12%
50%

IMN inglesi
62%
10%
36%
24%

Rapporto tra il mercato della “fortezza Europa” e il resto del mondo

Mercato Europeo
Resto del mondo

servizi
industria
servizi
industria

IMN francesi
84%
76%
16%
24%

IMN tedesche
78%
75%
22%
25%

IMN olandesi
75%
62%
25%
38%

IMN inglesi
72%
60%
28%
40%

(fonte: elaborazione dati in “La globalizzazione dell’economia”, Hirst e Thompson)

Da questi dati, che ovviamente vanno sempre presi con le pinze, emergerebbe una tendenza al rafforzamento dei blocchi economici regionali più che una tendenza alla globalizzazione.

È un fattore che non possiamo sottovalutare perchè, nei fatti, è alla base del neoprotezionismo che ha sempre convissuto con la formazione dei grandi monopoli. I vertiginosi processi di fusione e concentrazione che hanno subìto una brusca accelerazione in questi ultimi anni, confermano che i nuovi monopoli si stanno spartendo i mercati e che la libera concorrenza – propedeutica per la globalizzazione – è solo un paravento dietro cui si nascondono i poteri forti. Il fallimento di Seattle può essere indicativo di questa tendenza.

4. L’Europa è ormai un polo imperialista “competitivo”?

In questi ultimi due anni, ci siamo dovuti confrontare con l’orientamento di molti compagni, studiosi marxisti e forze politiche significative come il PRC condizionato da una persistente sottovalutazione del carattere imperialista dell’Unione Europea. Questa sottovalutazione è emersa con forza ancora maggiore durante l’aggressione alla Jugoslavia, nella quale il ruolo dell’Europa veniva letto in modo subalterno agli USA. In realtà l’Europa del XXI Secolo è ormai un polo imperialista maturo sul piano economico che si sta dotando di tutti gli apparati coercitivi interni ed internazionali per dare materialità alle sue ambizioni e agli strumenti di competizione con gli Stati Uniti.

Ci ha impressionato (e confortato) in tal senso, un recente libro di Romano Prodi (“Un’idea dell’Europa”) divenuto successivamente presidente della Commissione Europea. Certo l’immagine rassicurante e “pacioccona” di Prodi stride con quella un po’ caricaturale del “bruto aggressore imperialista”, ma sarebbe imperdonabile che dei materialisti scambiassero la forma… con la sostanza.

Nel manifesto politico di Prodi per l’Europa del Duemila, le ambizioni imperialiste sono esplicitate piuttosto chiaramente e senza lasciare nulla al caso. Non viene affatto nascosto il carattere di Stato sovranazionale che l’Europa andrà ad assumere a partire dalla rinuncia della sovranità nazionale in materia monetaria perché “Europa significa una grande potenza che può giocare un ruolo di rilievo nello scacchiere mondiale… La “Zona dell’Euro” precisa ancora Prodi “costituisce un buon punto di partenza per tenere testa agli Stati Uniti, il paese rispetto al quale è, e continuerà ad essere, più viva la concorrenza sui mercati internazionali…

Naturalmente la concorrenza tra i paesi più industrializzati del mondo e quelli in via di sviluppo, è un primo livello a cui guardare. Un secondo livello è dato dalla competizione che si va svolgendo all’interno dei paesi OCSE, principalmente tra Unione Europea, Stati Uniti e Giappone, la cosiddetta “Triade”. (8). Dunque se anche il “mite” Prodi sfodera denti d’acciaio è segno che l’Europa in cui dovremo vivere nei prossimi anni è ben consapevole di essere una potenza mondiale, uno dei tre poli della “Triade imperialista” che domina le relazioni internazionali. Ma sarebbe anche un errore ritenere che l’imperialismo possa essere confuso con la “politica” di una qualche particolare classe dirigente. La competizione tra Europa e Stati Uniti da un lato è oggettiva e dimostrata dai dati di fatto, dall’altra è intrinseca allo sviluppo capitalistico nei suoi poli principali e l’Europa è indubbiamente uno di questi.

I rapporti di forza attuali

Unione Europea Stati Uniti Giappone

Unione Europea
Stati Uniti
Giappone

% PIL mondiale
20.4
20.7
8.0

% export mondiale
14.7
15.2
6.1

% emissioni obbligazionarie
34.5
32.7
17.9

% riserve valutarie
25.8
56.4
7.1

transazioni valutarie
35.0
41.5
12.0

(Fonte : Commissione Europea, 1998)

La fotografia dei rapporti di forza offerto dalla Commissione Europea è però destinato a modificarsi ancora. Secondo uno studio dell’OCSE riferito al valore in dollari 1992 del PIL dei tre maggiori poli imperialisti, la situazione da qui a venti anni sarà ancora diversa e più “critica” per il polo imperialista oggi ancora dominante cioè gli USA.

Il PIL mondiale tra venti anni

Unione Europea 12%

Stati Uniti 11%

Giappone 5%

Russia, Cina, India,

Brasile, Indonesia* 35%

(Fonte: OCSE. The World in 2020, Parigi 1997)

* Nel 1995 il PIL di questi cinque paesi, chiamati Big Five era pari al 21% del PIL mondiale.

La competizione tra Euro e Dollaro: le obbligazioni emesse

(in miliardi di dollari)

1996 1997 1998 1999*

Dollaro 173,2 252,1 227,3 193,9

Euro 4,7 9,6 77,9 330,2

(Fonte: Capital Data in Sole 24 Ore del 27 settembre 1999)

* fino al 9 settembre 1999

Durante i mesi dell’aggressione NATO alla Jugoslavia, gli osservatori più attenti hanno seguito con attenzione l’andamento dei rapporti di cambio tra Euro e Dollaro in relazione all’andamento della guerra. Ogni volta che si apriva uno spiraglio di trattativa la moneta europea si apprezzava sul dollaro, come gli USA chiudevano quello spiraglio e ripartivano con i bombardamenti, il dollaro recuperava la sua supremazia. L’obiettivo non dichiarato era quello di indebolire la partenza dell’euro e favorire l’afflusso o il mantenimento dei capitali negli Stati Uniti ed impedire il deflusso vero la nuova “area euro”. L’introduzione dell’Euro se dunque non ha ancora portato alla “guerra” come minacciato da Martin Feldstein, sta sicuramente ridisegnando la mappa dei rapporti di forza economici internazionali ed anche quelli politici. Ed in effetti un po’ di guerra c’è stata anche se combattuta con armi diverse in scenari diversi : bombe sulla Jugoslavia e fluttuazioni sui mercati valutari mondiali. Ma con l’entrata in campo di Eurolandia la mappa del potere economico e finanziario non può che cambiare e soprattutto nelle “aree di influenza” dei vari poli imperialisti, i cambiamenti sono chiaramente percepibili. Mentre in America Latina si riaffaccia il progetto di dollarizzazione (cosa che ad esempio ha portato alla recente rivolta popolare in Ecuador), gran parte dell’Europa dell’Est (dopo il Marco) guarda ormai all’Euro come moneta di riferimento sia per la convertibilità delle loro che per le attività finanziarie ma anche per la loro integrazione/subordinazione al polo imperialista europeo. “Gli Stati sovrani emergenti dell’Europa centrale ed orientale, hanno accolto la novità dell’euro con entusiasmo” scrive un quotidiano finanziario “La Croazia, la Repubblica ceca, l’Ungheria, la Lituania, la Polonia hanno collocato un consistente ammontare di obbligazioni denominate in euro. In molti hanno in programma l’adesione all’Unione Europea e pertanto l’euro non ha solo una valenza economica, ma rappresenta l’obiettivo politico del loro futuro” (9). Queste riflessioni sulla struttura economica e sul ruolo dello Stato nell’imperialismo moderno, ci portano ad una questione che è tutta politica. Il modello neoliberale ha dovuto fare sempre i conti con i limiti e le contraddizioni storiche che produce nell’accumulazione capitalistica. Per affrontare le conseguenze di questo modello il capitalismo potrebbe avere necessità di riavviare politiche economiche neo-keynesiane che rilancino la domanda interna, limitino i danni della finanziarizzazione selvaggia, assicurino la stabilità politica e disinneschino il conflitto sociale. Ma non possiamo scambiare questo con una inversione di tendenza. In questo senso, sbagliano tragicamente quei compagni che ritengono che le forze socialdemocratiche al governo in Europa possano invertire la tendenza in corso. Esse sono perfettamente intercambiabili con quelle neoliberali. L’imperialismo non può essere contrastato e sconfitto dal riformismo ma solo da una strategia di trasformazione radicale dei rapporti sociali e del modo di produzione. Sta in questo il difficilissimo compito dei comunisti europei chiamati a lottare e ad agire politicamente nel “cuore” del polo imperialista europeo.

NOTE:

1) Vedi i due convegni internazionali su L’imperialismo alle fine del XX Secolo (luglio ’95) e Le conseguenze della costituzione del polo imperialista europeo (novembre 1998). Gli atti di entrambi i convegni sono stati pubblicati da Laboratorio Politico (Napoli) e Contropiano (Roma).

2) Salvatore Carrubba: Ancora più globali, nonostante le crisi, Sole 24 Ore del 30 marzo 1998

3) Eric Hobsbawm : Intervista sul nuovo secolo a cura di Antonio Polito, p. 35 edizioni Laterza 1999

4) Giorgio Gattei: L’ultima guerra del pacifico, in Contropiano del gennaio 1998

5) Malcolm Sylvers: Gli Stati Uniti tra dominio e declino, p. 229-208-209 Editori Riuniti, giugno 1999

6) Eric Hobsbawm : Ibidem p. 67

7) Il fallimento di Seattle mette a rischio la stabilità finanziaria, Milano/Finanza del 7 dicembre 1999

8) Romano Prodi: Un’idea di Europa, p.23, 60-61, 113, Edizioni Il Mulino, Bologna 1999

9) Milano/Finanza del 23 ottobre 1999