Quale futuro per la politica internazionale degli Usa ?

*giornalista

Quando il lettore riceverà questo numero della rivista, già sapremo chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Dopo Bush ciascuno spera in un cambiamento oppure teme il peggio. Cosa cambierà per l’Iraq, l’Afghanistan, la Palestina, l’Africa, il Caucaso, Cuba o il Venezuela? E nelle relazioni con le grandi potenze: Europa, Giappone, Russia, Cina? In realtà l’elite americana è attualmente esitante sulla strategia da seguire nei prossimi anni. Due finora le principali opzioni in campo. E la crisi economica rende la questione ancora più bruciante e complicata. Cosa decide – ranno gli Stati Uniti per restare ancora la superpotenza che domina il mondo ? Il testo che abbiamo tradotto e che pro – poniamo è tratto dal capitolo 11 del libro di Michel Collon ,” I sette peccati di Hugo Chavez”, di prossima pubblicazione. L’autore, un giornalista bel – ga di collaudata formazione marxista, spiega le ragioni dell’ascesa, e poi del declino degli Stati Uniti d’America. Benchè scritto alcuni mesi fa, esso fornisce alcune chiavi interpretative non congiunturali che meritano di essere considerate. (a cura di Sergio Ricaldone)

Quale bilancio si può trarre dalla guerra globale decisa da Bush dopo l’11 settembre ? Ovviamente negativo, sotto ogni punto di vista e praticamente ovunque. In Afghanistan e in Iraq, sono state dichiarate due guerre che gli USA sono incapaci di vincere e non vinceranno mai. Bush avrebbe voluto iniziarne una terza contro l’Iran, ma non avendone la forza necessaria ha dovuto, per il momento, ripensarci, tenendo al guinzaglio anche la scalpitante destra israeliana. Scopo di queste guerre, fin da quella contro la Yugoslavia per il controllo del“corridoio 8”, era quello di assicurare a Washington il controllo del petrolio. Il risultato è stato che, in cinque anni, esso è salito da 25 a più di 100 dollari con conseguenze drammatiche per l’economia americana e mondiale. In sud America gli Stati Uniti hanno perso, totalmente o parzialmente, il controllo di gran parte del continente: Venezuela, Bolivia, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Argentina e Brasile. Rimangono loro, nel momento in cui scriviamo, il Perù, Cile e Colombia. Anche in Africa la resistenza all’egemonia economica e militare all’imperialismo USA è in fase di crescita. Il Congo di Kabila ha respinto la pretesa di Washington di mettersi in ginocchio ed estende invece i suoi legami economici con Pechino. Gli investimenti della Cina e dell’India concorrono in misura sempre maggiore alla crescita del PIL nell’Africa subsahariana. E quando Washington ha cercato un sito dove poter installare il suo nuovo comando militare Africom, tutti i Paesi interpellati hanno gentilmente rifiutato. Poi l’ok è arrivato dal Marocco ma al prezzo di importanti concessioni finanziarie.

Anche il sud dell’Asia preoccupa gli strateghi americani. I paesi della regione si sottraggono sempre più alla storica tutela di Washington. Cresce la resistenza alla “capacità di proiezione” degli Stati Uniti in quell’area. Nel loro gergo, “capacità di proiezione”, significa mezzi e attrezzature militari per organizzare sbarchi, bombardamenti o sostegno a colpi di stato. Ma anche qui, l’impopolarità degli Stati Uniti rende sempre più difficile al Pentagono trovare un paese disponibile ad ospitare basi e installazioni militari. ( 1)

Anche presso gli alleati europei le ultime richieste di Bush hanno provocato resistenze. Al vertice della Nato di Bucarest, in aprile, Gorge Bush ha preteso un nuovo allargamento per integrarvi l’Ucraina e la Georgia, ossia due altre pistole puntate contro la Russia. Ma Germania, Francia, Spagna, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo nicchiano e rinviano. Sentono il fiato sul collo della Russia e sono poco entusiasti di dover sfidare Mosca, loro principale fornitore di gas. Steve Erlanger e Steven Lee Myers, analisti vicini al Pentagono hanno giudicato il rifiuto europeo come “uno scacco notevole subito dagli Stati Uniti da un’alleanza come la Nato normalmente comandata da Washington”. ( 2) La Russia, uscita dal coma e ritornata potenza globale, dichiara finita la stagione delle ritirate tattiche e carica i toni delle sue risposte ai gesti aggressivi di Washington . Respinge con forza l’installazione delle armi che gli Stati Uniti chiamano “scudo antimissile” : “ Se una parte del potenziale nucleare e missili – stico degli Stati Uniti si trova in Europa (….) le basi ospitanti diventano automaticamente dei nostri bersagli” ( 3).

A scanso di dubbi, nel maggio 2008, la Russia ha sperimentato un nuovo missile intercontinentale a testate multiple, “in risposta alle misure unilaterali e ingiustificate dei nostri partners”, ha dichiarato Vladimir Putin. Washington si giustifica sostenendo che lo scudo antimissile non è rivolto contro la Russia, ma contro Stati come l’Iran. Ma Putin replica : “nessun missile iraniano ha una git – tata sufficiente, il che rende evidente che la nuova arma è puntata contro noi Russi”. ( 4) Esattamente come la Russia, anche la Cina non retrocede di un passo di fronte alle molteplici campagne anticinesi e le pressioni politiche di Washington.

L’ELITE AMERICANA SI DIVIDE SULLE SCELTE DI POLITICA INTERNAZIONALE
Dieci anni fa, Zbigniew Brzezinski, già consigliere del presidente Carter e celebrato stratega degli Stati Uniti, pubblicava il libro “La grande scacchiera”, ovvero un titolo suadente scelto per rendere accettabili i suoi contenuti, il cui senso vero si può leggere in “come restare la sola superpotenza dominante del pianeta”. (5) Quel libro , considerato una sorta di Bibbia dell’imperialismo contemporaneo, spiegava, senza sottintesi e con la brutalità tipica del mondo degli affari, che Washington doveva assolutamente indebolire le potenze concorrenti : Russia, Cina, ma anche Europa e Giappone. Impedendo loro di allearsi. Ossia, dividere per dominare. Oggi, dieci anni dopo l’uscita di quel libro, quale è il bilancio della Casa Bianca ? E’ riuscita a indebolire le potenze rivali ? Diciamo che l’operazione è riuscita bene nei confronti del Giappone, abbastanza bene (per il momento) nei confronti dell’Europa, ma per quanto riguarda la Russia e la Cina i risultati sono stati pessimi e di segno esattamente opposto alle aspettative di Washington. Valutata poi su scala globale la politica di Bush non ha fatto che moltiplicare le resistenze all’egemonia americana e indebolito il dominio degli Stati Uniti. La piccola pattuglia di studiosi e di analisti che già anni fa usavano la categoria di “declino” nei confronti di quella egemonia è oggi diventata un grande coro scaligero. I settori che hanno portato al potere i neocons – armamenti, petrolio, auto, difesa, case farmaceutiche – constatano a fine mandato che le guerre di Bush non hanno apportato né grandi profitti né nuovi territori da sfruttare. Esse sono costate, a conti fatti, più dei profitti realizzati. Per di più l’amministrazione Bush si è rivelata come un ristretto gruppo di corrotti profittatori, ansiosi di riempire le proprie tasche, ma privi di intelligenza tattica e di una prospettiva politica a lungo termine. Quando il fallimento è apparso evidente, le divisioni interne alle elite di potere si sono esacerbate con conseguenze visibili nella compagine governativa. Donald Rumsfeld è stato sostituito da Robert Gates, un uomo della Trilaterale, seguace di Brzezinski. Il nuovo ministro della difesa ha ammesso, sia pure in modo criptato, i punti deboli del militarismo americano in un discorso pronunciato davanti agli allievi dell’Accademia militare di West Point :“Non combattete se non quando siete obbligati. Non com battete mai da soli. Non combattete mai per lungo tempo.” ( 6)

Subito dopo la commissione presieduta dal duo bipartisan Baker- Hamilton ha duramente criticato in un suo rapporto il tentativo di Bush di rimodellare il “Grande Medio Oriente” con la guerra, giudicandolo irrealistico, e chiedendo , al contrario, un approccio più dialogante verso la Siria e l’Iran. Anche in seno ai servizi segreti e al Pentagono sono emerse fronde di varia natura. Nel dicembre 2007, quando Bush era intenzionato ad attaccare l’Iran, con il classico pretesto delle armi di distruzione di massa, i vari servizi di informazione degli Stati Uniti e la stessa CIA, hanno sorpreso il mondo pubblicando un rapporto che sosteneva il contrario, ossia che l’Iran aveva sospeso il suo programma nucleare militare fin dal 2003. Nel suo libro, La grande scacchiera, Brzezinski confermava quello che molti altri storici avevano già squadernato apertamente prima e dopo di lui e cioè che il declino degli Stati Uniti è inevitabile. Da quella constatazione ne era uscita una strategia che, pur restando aggressiva nella sostanza, era più dialogante e machiavellica nei metodi, per poter salvare l’impero. Ma per quanto sorprendente possa sembrare, pare che il primo a non credere nell’ipotesi del salvataggio fosse proprio lo stesso autore. “A lungo termine la politica globale è destinata a diventare sempre meno propizia alla concentrazione di un potere egemonico nelle mani di un solo Stato. L’America non è soltanto la prima superpotenza globale, ma sarà pro b a b i l – mente anche l’ultima” ( pag. 267) . La ragione risiede nell’evoluzione dell’economia : “Il potere economico rischia di scomporsi sempre più. Nei prossimi anni nessun Paese sarà in grado di raggiungere il 30% circa del PIL mondiale, quota che gli Stati Uniti hanno saputo mantenere indisturbati durante la maggior parte del 20° secolo. Per non parlare della quota record del 50% raggiunta nel 1945. Secondo molte stime l’America potrebbe mantenere una quota del 20% del PIL mondiale fino alla fine di questo decennio per poi cadere al 10- 15% entro il 2020, mentre le cifre delle altre potenze – Europa, Cina e Giappone – aumenterebbero fino ad eguagliare il livello degli Stati Uniti. (…) Una volta che la tendenza al declino della super – potenza americana sarà innescata, la supremazia di cui gode oggi l’America non potrà più essere esercitata da un solo Stato.” (p.267-8) Ritornando per un istante al passaggio chiave, “Una volta che il declino della leadership americana sarà innescata”, pare proprio di capire che con questa espressione Brzezinski non evoca una possibilità ma una certezza. Parole scritte nel 1997. Oggi è più che mai evidente che la strada del declino americano è ben visibile e percepita. Il mondo sta diventando multipolare. Di parere esattamente opposto il gruppo di neocons guidati da Paul Wolfowitz che nel 1992 riuniti attorno al Project for a New Americann Century (PNAC) redassero il testo fondatore di quella che è stata poi la politica dell’amministrazione Bush e che ha segnato, sotto il profilo ideologico, le crociate militariste della “guerra infinita. Ma c’è un passaggio in quel testo che, oggi più di ieri, attira l’attenzione : “ Attualmente gli Stati Uniti non hanno nessun rivale di statura mondiale.

La grande strategia dell’’America deve mirare a preservare ed estendere questa posizione vantaggiosa il più a lungo possibile (…)Preservare questa situazione strategica (…) esige capacità militari predo – minanti a livello mondiale” ( 7) “…più a lungo possibile” . E così anche in questa espressione si insinua il dubbio che gli Stati Uniti possano restare eternamente i padroni del mondo. Ecco un nuovo grande paradosso. Il mondo intero teme la soverchiante potenza militare e tecnologica degli Stati Uniti ma i suoi governanti sono coscienti di essere al comando del Titanic. E per salvare l’impero dal possibile naufragio pensano a due opzioni possibili. Quale sarà la politica degli Stati Uniti negli anni a venire ? La scelta di questo o di quel presidente, repubblicano o democratico, potrebbe fare qualche differenza, ma, come l’esperienza insegna, non sarebbe decisiva. Ricordiamo che durante la campagna elettorale del 2000 Bush promise una politica internazionale di basso profilo e meno interventista del suo predecessore ! Mentre l’altro candidato, Al Gore (diventato poi Nobel dell’ecologia, ndt), propose un budget militare più elevato di quello di Bush. Noi siamo convinti che i grandi temi della politica internazionale non sono decisivi nelle campagne elettorali. Su questi temi, più che i presidenti, sono il complesso “militare industriale” e le multinazionali a decidere la linea. Sempre in funzione dei loro obbiettivi e delle loro valutazioni sui rapporti di forza mondiali. E’ dunque spiegabile che, dopo i bilanci fallimentari degli anni di Bush, l’elite americana appaia oggi incerta e divisa sulla strada da seguire e si interroghi su come uscire da questa delicata situazione ? La prima opzione è quella militarista. I neocons di Bush l’hanno lungamente cavalcata in questi anni obbedendo alla strategia di Wolfowitz: l’aggressione e l’intimidazione come strategia primaria : moltiplicare le guerre, gonfiare al massimo il carnet di ordinazioni al complesso militare industriale per trascinare la crescita, aumentare il domino delle multinazionali USA, per intimidire, oltre che i paesi rivali, anche quelli alleati. L’altra opzione è quella difesa da Brzezinski che egli stesso ama definire “soft power” (uso leggero del potere). Altri lo definiscono “imperialismo intelligente”. In effetti si mira a raggiungere gli stessi fini con mezzi diversi, ossia con forme di violenza non meno cruente ma meno visibili. Si basa un po’ meno sugli interventi militari diretti, troppo costosi, e più sui servizi segreti, le manovre di destabilizzazione, le guerre per interposta persona, i colpi di stato e molto – mol- tissimo ! – sulla corruzione. (…………….) Dopo avere illustrato, fin nei minimi dettagli, il piano aggressivo ed eversivo messo a punto in un documento da cinque ex generali della Nato e presentato al vertice di Budapest dell’ Alleanza nel gennaio 2008, Michel Collon riassume senza perifrasi quale sia il filo conduttore della prima opzione che ha ispirato la politica dei neocons in questi anni di amministrazione Bush e la sua proiezione nel futuro. In conclusione, questo piano della Banda dei Cinque (dei cinque generali Nato, ndt), preparato da persone che hanno operato al vertice del potere militare mondiale, indica quale sia la tendenza più significativa da parte di questa elite. Il loro piano di supergoverno mondiale a tre (dominato in realtà dagli Stati Uniti) scarica nella spazzatura ogni riferimento al diritto internazionale, legittima la guerra preventiva e le armi nucleari, pianifica la manipolazione sistematica dell’opinione pubblica.

Si tratta di un piano di natura apertamente fascista. Questa, in buona sostanza, la prima delle due opzioni con cui gli Stati Uniti pensano di mantenere la loro leadership mondiale. La seconda è quella rappresentata invece da Zbigniew Brzezinski (oggi consigliere di Obama – ndr).

CO S A S I G N I F I C A “IMPERIALISMO INTELLIGENTE”?
Le strategie militari americane distinguono tre tipi di guerre considerate possibili :
1. Guerre ad alta intensità. Si tratta di scontri tra grandi potenze, tipo le prime due guerre mondiali.
2. Guerre di media intensità. Preve- dono a loro volta un impegno militare diretto ma contro Stati molto più deboli, come l’Iraq o la Yugoslavia.
3. Guerre a bassa intensità. Quelle che non comportano l’impegno militare diretto degli Stati Uniti, ma possono essere combattute da altri, provocando conflitti tra paesi vicini, o attraverso movimenti paramilitari o terroristi.

Definire una guerra di “bassa intensità” può dare l’impressione che i danni siano limitati. In realtà essi sono ridotti al minimo solo per gli Stati Uniti. La guerra di “bassa intensità” che Washington ha avviato contro il Congo (servendosi degli eserciti dei vicini Ruanda e Uganda, nonché di milizie mercenarie) ha fatto cinque milioni di morti e paralizzato lo sviluppo di un paese come il Congo grande otto volte l’Italia e depositario di ricchezze energetiche e minerarie immense. La strategia di Brzezinski, a differenza di quella di Bush, privilegia queste guerre cosiddette di “bassa intensità”. Non si tratta dunque di una scelta più morale ma più subdola e, per così dire, più “intelligente”. Ma Brzezinski propone anche altre forme di intervento. Sovente la forma concreta e visibile di aggressione, la si immagina come intervento militare diretto degli Stati Uniti. In realtà essi dispongono di un ventaglio molto ampio di opzioni possibili.

Una tipologia completa di queste opzioni comprende :
1. Corruzione dei dirigenti locali.
2. Ricatto sui dirigenti locali.
3. Campagne mediatiche di demonizzazione.
4. Destabilizzazioni di vario tipo.
5. Embarghi e blocchi commerciali.
6. Colpi di stato.
7. Alimentazione e provocazione dei separatismi.
8. Guerre indirette gestite da intermediari.
9. Bombardamenti.
10. Invasioni e occupazioni via terra.

Tutta una gamma di metodi intercambiabili e combinabili tra loro, costituenti comunque l’essenza aggressiva di questa politica. Si può sicuramente affermare che, dalla guerra fredda in poi, i presidenti e i governi degli Stati Uniti, nessuno escluso, hanno fatto ricorso all’insieme di questi mezzi e non soltanto ad alcuni. Solo il dosaggio e i finanziamenti sono stati calibrati di volta in volta. Dopo i crimini commessi da Bush si potrebbe essere tentati di gioire per un possibile cambiamento di metodi. In realtà, anche se Washington decidesse di cambiare tattica, difficilmente potrebbe trattarsi di una svolta in senso pacifista ma di un modo per rendere la brutalità meno visibile. E’ bene ricordare che Brzezinski è l’uomo che ha finanziato Bin Laden in Afghanistan per piegare l’Unione Sovietica in una guerra costosa e di lunga durata e facendola apparire (l’URSS) come il male assoluto per il mondo islamico. Brzezinski è molto fiero dei risultati ottenuti a suo tempo e non perde occasione per ricordarlo. Se gli Stati Uniti applicassero la strategia Brzezinski ci sarebbero senza dubbio meno guerre dirette. O, quanto meno, si dovrebbero decidere concertandole con i paesi alleati. Nel qual caso ne trarrebbe vantaggio l’immagine mediatica e la conseguente manipolazione dell’opinione pubblica. Stiamo parlando del metodo usato con successo da Clinton contro la Yugoslavia.

Il metodo Brzezinski presenta due vantaggi per gli Stati Uniti :
1. Conferisce loro un aspetto più presentabile e restituisce loro una autorità morale.
2. Consente di versare meno dollari al complesso militare-industriale e avvantaggia l’economia USA nei confronti dell’Europa, della Cina, dell’India, ecc.

Per economizzare sulle guerre, la strategia Brzezinski ricorre maggiormente all’arma del ricatto e all’azione clandestina. Il ricatto si basa in particolare sull’utilizzazione degli strumenti di controllo economico globale quali la Banca Mondiale, il FMI e l’OMC, che, pur essendo istituzioni multilaterali, sono dominate dagli Stati Uniti e permettono di imporre la loro volontà al terzo mondo in un modo apparentemente più obbiettivo. Ma anche questa forma di “soft power” si presenta oggi tutt’altro che facile. L’avversione accumulata nel terzo mondo contro la BM, il FMI e il WTO, i colossali crack finanziari e il fallimento del neoliberismo incoraggiano i paesi emergenti a fondare nuove istituzioni alternative. Ecco perchè l’idea di una Banca del Sud lanciata da Chavez incomincia a farsi strada… L’eventuale ritorno a quella che i sostenitori della strategia di Brzezinski definiscono “soft power”, ovvero ”imperialismo intelligente” comporta il pericolo che, dopo le prossime elezioni presidenziali di novembre e archiviato (si spera) l’oltranzismo guerrafondaio di Bush, il cambio di politica estera venga salutato con eccessiva enfasi dalla sinistra benpensante e i pacifisti gioiscano oltre misura, allentando la vigilanza. In ogni caso l’imperialismo non diventerà più ragionevole e meno aggressivo. L’esperienza insegna che le diverse leadership americane praticano a cicli alterni entrambe le opzioni, quella “hard” e quella “soft”.

I PRESIDENTI PASSANO, LE MULTINAZIONALI RESTANO
Le due opzioni della leadership americana, quella militarista o quella “intelligente”, non sono invenzioni recenti. Si tratta di una diversità tattica, presente a periodi alterni, tra i repubblicani e i democratici. In realtà tra i due partiti non esiste alcun antagonismo di principio sul tema della guerra e della pace. Rappresentano piuttosto elettorati diversi, approcci differenti, spesso intercambiabili, ma sempre e comunque al servizio delle multinazionali. Non è stato un repubblicano che nel 1950 ha dichiarato guerra alla Corea e alla Cina ma bensì il democratico Harry Truman. Non è stato un repubblicano ma il democratico John Kennedy che nel 1961 ha iniziato la guerra contro il Vietnam. Le elezioni americane non sono mai state un voto popolare contro il grande capitale e le sue pulsioni imperialiste, ma una scelta pressoché obbligata del “meno peggio”. Le multinazionali finanziano entrambi i candidati e piazzano i loro dollari in entrambi i panieri degli sfidanti. Le loro preferenze si possono giudicare, di volta in volta, dalle somme versate. Agli inizi degli anni 90’ le multinazionali investirono su entrambi i candidati, ma privilegiarono Clinton e i democratici nella misura del 58%. Al contrario, nel 1996, puntarono sui repubblicani nella misura del 67%. Alle presidenziali del 2000 è stato Bush il candidato finanziato in modo massiccio. Proclamato poi eletto benché lo scrutinio abbia designato il suo rivale Al Gore. Per contro, alle presidenziali del 2008, le multinazionali hanno cambiato partito e candidato elargendo molti più finanziamenti a Obama anziché al suo rivale McCain. Beninteso, non tutti i presidenti sono uguali e ciascuno può introdurre cambiamenti significativi alla sua politica. Dopo la caduta dell’ URSS e la fine della guerra fredda il presidente Clinton ha dapprima diminuito le spese militari sottraendosi alle pressioni del complesso militare- industriale nell’intento di rilanciare l’insieme dell’economia americana. Questa decisione, scarsamente percepita e passata quasi inosservata, è stata poi superata dallo stesso Clinton, a fine mandato, con una svolta di segno opposto : “Il budget militare degli Stati Uniti deve au – mentare del 70%” ( 8). Il che conferma che le grandi decisioni politiche non dipendono da questo o da quel presidente ma dalla strategia decisa dai poteri forti. I presidenti passano ma le multinazionali restano.

LA POLITICA USA, FERMA NEI FINI, ALTERNA I SUOI METODI
lternanza è la parola atta a definire i cicli della politica americana : dopo ciascuno dei periodi “hard” si verifica un ritorno temporaneo al “soft power”. Dopo la sconfitta subita in Vietnam e l’ondata moralistica contro le dittature salite al potere in America Latina col sostegno di Washington, le multinazionali si sono rifatte il trucco sostenendo e portando al potere Jimmy Carter, il gentile pastore animato da un grande impegno in difesa dei cosiddetti “diritti umani”. Dopo la guerra fredda e la prima guerra contro l’Iraq, il presidente Clinton ha compiuto notevoli sforzi per imbarcare gli europei nelle sue guerre con una accurata preparazione mediatica. In effetti, l’imperialismo americano, anche se ha mostrato qualche esitazione tra le due opzioni possibili, le ha sempre subordinate al mantenimento della sua egemonia mondiale, limitandosi ad alternarle di volta in volta : un po’ più di bastone, un po’ più di carota.

Dopo il disastroso bilancio di Bush la scelta tra le due opzioni diventa sempre più difficile. Come uscire dalle rischiose fughe in avanti della “guerra infinita” ? Quali scelte tattiche, quali metodi sono necessari per superare il calo di consensi che ha fatto precipitare ai minimi storici, all’interno e all’estero, l’immagine della superpotenza ? Il problema non è tanto quello di sapere chi sia il nuovo presidente ma quale sarà la nuova strategia politica della Casa Bianca.

In ogni caso non è detto che la strategia Brzezinski sia in sostanza meno pericolosa di quella di Bush. E’ vero che nel 2008 egli ha criticato il presidente affermando che è stato stupido nell’attaccare l’Iraq, imbarcandosi in una guerra che non si può vincere, nociva ad Israele, disastrosa per il prezzo del petrolio e per l’economia USA. Ma certi analisti sostengono che Brzezinski voglia uscire dalla guerra con un Iraq riconciliato e disponibile a partecipare in futuro alla politica di accerchiamento della Russia. Ecco il vero bersaglio della sua dottrina : è la Russia che era e resta l’eterna bestia nera e la vera ossessione per l’autore della “Grande Scacchiera”. Ma siccome la Russia dispone pur sempre di un temibile arsenale atomico e missilistico, molti pensano che Brzezinski miri piuttosto ad accerchiare e a indebolire la Russia fino al punto che sia essa stessa ad autodecomporsi. Senza ovviamente dimenticare la Cina che era e resta il nemico strategico principale. Ipotesi questa che potrebbe, prima o poi, trasformare il soft power in apocalypse now. Che l’imperialismo americano sia diviso sulla linea da seguire deriva dal fatto che gli Stati Uniti non sono più – finalmente – cosi potenti come comunemente si crede. Soprattutto dal punto di vista economico. Ogni volta che gli Stati Uniti hanno creduto di avere trovato una soluzione ai loro problemi questa si è rivelata, in breve tempo, peggiore del male. Ricordiamo che negli anni 80’, per sfuggire alla recessione, le multinazionali hanno puntato sull’America Latina e altre regioni del terzo mondo, facendo man bassa delle loro materie prime, delle loro imprese, dei loro mercati. Ma questa offensiva neoliberista ha talmente impoverito quei popoli e provocato catastrofi economiche di tali dimensioni da suscitare resistenze sempre più grandi e più forti, sfociate più tardi in una svolta a sinistra di gran parte dei paesi latino americani. A partire dal 1989, Washington ha proclamato la guerra globale per assicurarsi il controllo assoluto del petrolio, ma i risultati sono stati più che deludenti.

Nel 2001 Bush è sceso in guerra contro i paesi del cosiddetto Asse del Male ma il risultato è stato quello di estendere ovunque la resistenza antimperialista. Gli Stati Uniti sembrano molto forti, ma lo sono veramente ? Con tutti i loro dollari, le loro tecnologie, le loro superarmi (e i loro crimini) hanno perso la guerra di Corea (1950) e quella del Vietnam (1975), hanno dovuto ritirarsi dal Libano (1982) e dalla Somalia (1993), non hanno osato impegnarsi via terra contro la Yugoslavia (1999) e stanno perdendo in Afghanistan e in Iraq. A lungo termine i popoli che difendono le loro ricchezze e il loro avvenire risultano più forti dei dollari e degli scudi spaziali. Sebbene gli Stati Uniti spendano per il loro budget militare più di tutto il resto del mondo, ciò non è servito ad assicurare loro la supremazia mondiale. Anzi stanno pagando essi stessi il prezzo della loro contraddizione fondamentale. Tutto ciò che fanno contro gli interessi dell’immensa maggioranza degli abitanti di questo pianeta tende a creare le forze che abbatteranno il loro dominio. Un grande apparato militare non può essere più forte dell’economia che lo finanzia. Il punto debole che impedirà all’imperialismo americano di raggiungere il suo scopo è che la sua stessa economia sta tagliando il ramo su cui è seduta. Sottopagando i suoi lavoratori, delocalizzando i complessi industriali, mandando in rovina paesi del terzo mondo anziché considerarli partners, essa continua ad impoverire proprio coloro che dovrebbero accedere alle sue merci. Questi problemi non potranno mai essere risolti da nessuna delle due opzioni entro le quali oscilla la leadership americana, né da quella militarista né da quella cosiddetta di “imperialismo intelligente”. Qualunque sia la tattica scelta, gli Stati Uniti continueranno ad esportare la guerra e l’eversione ovunque nel mondo. Per imporre il loro modello economico e difendere i loro interessi. Urge ricostruire un possente movimento della pace che difenda la sovranità dei popoli.

NOTE:

(1) John E. Peters ecc. War and escalation in South Asia
(2) New York Times, 3 aprile 2008
(3) Le Monde, AFP, Reuters, Le Figaro, 21 aprile 2008
(4) Corriere della Sera, 21 aprile 2008
(5) Michel Collon, Monopoli, EPO, Bruxelles, 2000.
(6) Le Soir, 23 aprile 2008.
(7) Project for a new American Century, Rebuilding America’s Defenses, septembre 2000.
(8) Clinton Remarks on US Foreign Policy, 26 fe – vrier 1999.