Le cronache politiche delle ultime settimane hanno riservato grande spazio al conflitto scoppiato in seno alla Margherita alla fine di maggio, quando quel partito formalizzò la decisione di presentare una propria lista nel proporzionale e a tutti risultò chiaro come, dietro un’apparente unità, covassero divisioni e rancori tra i suoi vari petali: tra i prodiani, gli ex-popolari e i rutelliani di stretta osservanza. Nel frattempo lo scontro si è generalizzato e approfondito, trascinando tutti i partiti dell’Unione in un gioco al massacro che attraversa lo stesso gruppo dirigente diessino, solo in parte disposto a seguire Prodi sino in fondo nel suo tentativo. Un gioco al massacro fatto di minacce di scissioni e di altisonanti proclami, nel quale corrono – com’è buona regola – accuse e parole forti. È difficile dire come questa storia andrà a finire. Di certo, al momento, c’è che l’Unione non è più tale, per non dire che è irrimediabilmente in frantumi. E la cosa suscita alcune considerazioni, alle quali conviene subito accennare.
Lo spettacolo di una guerra senza quartiere tra i massimi esponenti di quella che si candida ad essere la nuova dirigenza del Paese suscita nell’opinione pubblica sconcerto e malcontento. E anche legittime preoccupazioni. Tra gli elettori che hanno consegnato al centrosinistra una sonante vittoria alle Regionali è molto diffusa l’impressione che ci si ritrovi, per l’ennesima volta, di fronte a una pura e semplice lotta di potere che potrebbe favorire Berlusconi e regalargli l’anno prossimo, alle Politiche, un inaspettato (e tragico) successo. In effetti, se si considera che in tutto questo accusarsi e minacciarsi reciproco non si parla mai di progetti e di programmi – di cose concrete che interessino davvero la vita dei cittadini – appare difficile dare torto a chi sostiene che tra Prodi e Rutelli (e tra i rispettivi eserciti) sia in corso soltanto una sfida personale.
L’effetto più grave, da questo punto di vista, potrebbe essere la ricaduta nella disaffezione dalla politica e il ritorno di fiamma dell’astensionismo tra le file degli elettori del centrosinistra. Le manovre del presidente della Margherita mirano, stando alle sue dichiarazioni, a raccogliere il massimo di consensi nell’elettorato moderato (i voti «in libera uscita» dalla Casa delle Libertà). Rutelli si difende dall’accusa di avere minato le fondamenta del l’Unione osservando che un eventuale incremento di consensi alla Margherita rafforzerebbe l’intera coalizione. Ma se la rabbia seminata dalle lotte intestine dovesse allontanare dal voto una grossa getta di potenziali seguaci del centrosinistra, si sarebbe trattato del classico calcolo furbo ma stupido. Per il quale saremmo chiamati a pagare tutti un prezzo assai salato.
Il progetto
della Margherita
C’è da fare però anche un altro ragionamento se si vuol capire davvero che cosa sta accadendo sotto i nostri occhi: un ragionamento che richiede un certo sforzo di freddezza, poiché prescinde dal giudizio sul progetto politico del presidente della Margherita. Quale sia questo progetto – e di che segno – non è proprio un mistero. Da quando occupò la carica di sindaco di Roma, Francesco Rutelli è impegnato in una coerente rincorsa al centro. Egli ambisce, con ogni evidenza, ad affermarsi come principale rappresentante (e garante politico) di quel sistema di «poteri forti»(Confindustria, banche, Vaticano) che costituì in passato il fondamento dell’egemonia democristiana. Per ciò stesso, Rutelli non perde occasione per rassicurare l’elettorato moderato: ieri pronunciandosi contro l’idea di abrogare le leggi berlusconiane, proponendo di porre le scuole cattoliche a carico dello Stato o evitando di chiedere il ritiro delle truppe italiane dall’Iraq; oggi proclamando fragorosamente la propria decisione di astenersi dal voto referendario in materia di procreazione assistita.
Quest’ultima presa di posizione, in particolare, si commenta da sé. È un gesto molto grave sul piano etico-politico, poiché con esso Rutelli si colloca (insieme ai presidenti di Camera e Senato) tra i portabandiera della crociata fondamentalista e oscurantista bandita dalla Chiesa in dispregio della laicità dello Stato (e della legittimità dello Stato laico). Ed è un gesto altrettanto grave per il merito della materia. La legge 40 è anticostituzionale e crudele (come ogni fondamentalismo) nei confronti delle donne, dei malati, delle coppie sterili e degli stessi nascituri. Per di più, oltre a fornire un grande aiuto al governo e alla Casa delle Libertà, in crisi dopo il voto di aprile, la rovinosa sconfitta del sì rischia ora di dare il via a una nuova sciagurata campagna contro la legge 194 sull’aborto.
Sul connotato iper-moderato del disegno politico di Rutelli non possono dunque esservi dubbi di sorta. Ma il senso politico di quanto sta avvenendo in seno all’Unione non si riduce alle intenzioni del presidente della Margherita, che pure è un protagonista dello scontro, e non riflette meccanicamente i suoi progetti. Le lotte intestine che scuotono il centrosinistra sono anche il sintomo di un malessere diffuso. Per meglio dire, sono anche l’effetto di una sofferenza del sistema politico, e vanno indagate (e, possibilmente, affrontate) con questa consapevolezza.
Le contraddizioni
in seno all’Unione
Nello scontro senza esclusione di colpi che vede schierati su opposti fronti non solo, dentro la Margherita, i seguaci di Prodi e quelli di Rutelli, ma anche, nel contesto complessivo dell’Unione, i sostenitori della leadership dell’ex presidente della Commissione europea e quanti invece – pur non mettendola (ancora) esplicitamente in di- scussione – non la considerano un dato acquisito, non sono in gioco soltanto ambizioni personali o rendite di posizione di questo o quell’uomo politico, di questo o quel gruppo. In tale conflitto si manifesta anche una contraddizione oggettiva che deve essere riconosciuta per quel che è. Lo scontro sorge dal contrasto tra le caratteristiche materiali del nostro sistema politico (specchio di un paesaggio sociale e culturale estremamente frastagliato) e la forma che gli si è voluta imporre – con una sorta di «rivoluzione dall’alto» – adottando la legge elettorale oggi in vigore e importando il cosiddetto «modello anglosassone», fondato sul maggioritario, il bipolarismo e l’alternanza tra formazioni politiche accomunate da obiettivi strategici condivisi.
All’inizio degli anni Novanta, nel pieno dello sconquasso che investì la classe politica della cosiddetta «prima Repubblica», si posero le premesse per una rovinosa sequenza di avvenimenti, di cui oggi il Paese paga le conseguenze. Si promise la «semplificazione» del sistema e si determinò invece un’artificiosa moltiplicazione dei partiti. Si assicurò una maggiore trasparenza nella formazione della rappresentanza, e si accrebbe invece ulteriormente il potere decisionale di ristrette cerchie dirigenti. Si dichiarò che l’introduzione del maggioritario avrebbe portato la politica «più vicino ai cittadini», mentre l’unica cosa che effettivamente si ottenne fu il trionfo della spettacolarizzazione e della personalizzazione della politica, con un conseguente impennarsi dei suoi costi. Niente male per riforme che si pretendevano ispirate ai principi della partecipazione democratica.
Questa presuntuosa (e autolesionista) opera di ingegneria politica e istituzionale, della quale fu massimo artefice il gruppo dirigente del Pds allora guidato da Achille Occhetto, non ha avuto, tuttavia, il potere di cambiare una realtà che aveva profonde radici e una lunga storia. Questo non è un Paese pacificato e unificato da una tradizione condivisa, in grado di fornire all’intera cittadinanza un quadro di riferimenti culturali, morali e politici comuni (al di là dei diversi interessi di classe). È un Paese diviso, che reca in sé, ancora visibili, i segni di un recente passato di frammentazione. Di questa complessità (che è tuttavia anche una potenziale ricchezza) i grandi partiti di massa e le formazioni politiche minori riuscirono a farsi carico nel tempo della «prima Repubblica», svolgendo adeguatamente, pur fra tanti limiti, i compiti loro assegnati dalla Costituzione repubblicana. Senonché quei partiti furono bruscamente spazzati via dalle frettolose riforme degli anni Novanta, che – sostituendo forze politiche insediate nella storia del Paese con formazioni mancanti di un effettivo radicamento – hanno lasciato parte della società italiana sostanzialmente priva di rappresentanza. Anche l’Ulivo – che pure ebbe il merito, nel 1996, di mobilitare l’opinione pubblica democratica nella battaglia contro Berlusconi – fu figlio di quella logica, che guardava ai partiti come a cascami di un’epoca passata. «L’Ulivo – ha scritto Ilvo Diamanti commentando proprio gli ultimi avvenimenti – è stato piantato, in passato, con poca attenzione al terreno, alle foglie, ai frutti. In altri termini: ai valori, alle idee, al rapporto con il territorio». Oggi quel che succede nell’Unione discende in buona misura proprio da quella poca attenzione.
Non è solo l’arrischiato tentativo di un capo-partito di lucrare su un buon risultato elettorale e sulla crisi politica dell’avversario. È, più in profondità, il segno di una rivolta dei partiti (se non ancora, forse, della loro riscossa) contro una logica di coalizioni concepite come partiti dei leader. Ed è, per ciò stesso, il segno di una crisi profonda (e forse irreversibile) del maggioritario, che appare ormai a tanti un’inutile camicia di forza, capace solo di trasferire all’interno dei partiti, «parlamentarizzandoli», una dialettica che dovrebbe invece dispiegarsi tra forze diverse, indipendenti tra loro e realmente libere di costruire con la propria base sociale relazioni concrete, fondate sulla conoscenza dei bisogni e delle potenzialità dei soggetti e dei territori.
Comunisti e Sinistra
d’alternativa: quale ruolo?
Queste ultime considerazioni ci riportano allo scenario odierno e parlano anche di noi, del ruolo di Rifondazione Comunista nell’attuale fase politica.
Relazioni concrete, dicevamo, costruite sulla conoscenza di bisogni e potenzialità. Detto in altri termini: la politica. I programmi. Gli obiettivi da raggiungere. I progetti. L’individuazione di interessi da tutelare o da colpire. La scelta tra diversi modelli di sviluppo, tra diverse idee di società. Non è un caso che di tutto questo non vi sia traccia nella rovente polemica quotidiana che scuote l’Unione e disorienta un Paese stremato. Si parla di formule, di capi (anzi, di leader), di contenitori e di procedure. Si evocano le «primarie», liturgie tipiche del sistema maggioritario, esemplari di una concezione personalistica e spettacolare della politica. Ma nessuno, nessuno, sembra interessato a chiarire perché – in vista di che cosa – ci si dovrebbe disporre a votare per quel leader e per la sua coalizione, piuttosto che per altri. Dicevamo che si respira un clima di crescente sfiducia verso una classe politica litigiosa e assorbita nei propri indecifrabili contrasti. Ma non è solo un problema di scontri e di sgradevoli aggressioni. Quello che tanti percepiscono è la vanità di questo confliggere, la sua incolmabile distanza dai drammi di un Paese in cui i poveri diventano sempre più poveri e la stessa classe media fatica a far durare gli stipendi sino a fine mese.
Vediamo rapidamente poche, aride cifre.
La recessione colpisce certo tutto il Paese e si riflette in una pesantissima crisi dell’economia italiana. Il debito pubblico ha superato la soglia dei 1500 miliardi di euro, pari al 106,6% della ricchezza nazionale. Il pil è in caduta libera (-0,5 % nel primo trimestre di quest’anno rispetto al precedente, già negativo), in controtendenza rispetto agli altri Paesi industrializzati. A fronte di una drastica caduta del costo del lavoro (-4% tra il 1995 e il 2004), diminuiscono gli investimenti (-0,6), la spesa della pubblica amministrazione e gli acquisti di macchine e attrezzature (-1,1). Cadono gli ordinativi (-3,6) e le esportazioni (-4,1). È l’intero «sistema-Paese», ormai, ad arrancare. Ma tutto ciò ha ricadute drammatiche soprattutto sul lavoro e sui ceti più deboli, già penalizzati da un’inflazione reale che viaggia stabilmente sopra il 5% annuo e colpiti da anni di attacchi ai salari e politiche restrittive, dalla precarizzazione e dallo smantellamento del welfare e di ogni altro sistema di protezione sociale.
Nel corso degli ultimi cinque anni l’occupazione nell’industria è diminuita del 6,5%; l’occupazione complessiva risulta in crescita solo perché si è generalizzato il ricorso al precariato; soltanto il 56% della popolazione in età lavorativa risulta occupato e l’Italia è in vetta alla classifica europea della disoccupazione giovanile (27%). Il sommerso vale ormai poco meno del 30% del pil (con punte di oltre il 40% in agricoltura, nel settore alberghiero e nei servizi alle imprese e alle famiglie). Ne discende un’evasione contributiva per oltre 60 miliardi di euro l’anno, a cui vanno aggiunti altri 200 miliardi di redditi che sfuggono al fisco. Sono cifre da capogiro, che parlano di una gigantesca e sistematica redistribuzione della ricchezza dal lavoro al capitale e alla rendita. E difatti la disuguaglianza aumenta costantemente. Negli ultimi dieci anni, la quota di ricchezza nazionale detenuta dal 5% più ricco delle famiglie è passata dal 27 al 32%, il che significa che 950 mila famiglie traggono reddito prevalentemente dal capitale. Dai primi anni Novanta ad oggi la quota della ricchezza nazionale posseduta dall’1% più ricco è passata dal 10,6 al 17,2%. A fronte di ciò, sono oltre quattro milioni i nuclei familiari ufficialmente gravati da debiti.
Questa è la realtà italiana dopo quattro anni di governo Berlusconi, otto anni e mezzo di osservanza dei vincoli di Maastricht e oltre un decennio di privatizzazioni e «liberalizzazione» del mercato del lavoro. Né quanto avviene in questi giorni lascia intravedere sia pur timide inversioni di tendenza. Il governo esclude tassazioni delle rendite finanziarie, progetta ulteriori regali alle imprese (il taglio dell’Irap) e nuove, sconcertanti privatizzazioni (le spiagge e le strade). Ma forse che l’Unione – l’insieme delle forze politiche che dovrebbe rappresentare un’alternativa a questo disastro – di- scute di tutto questo? No. È troppo intenta a dibattere su nomenclature e organigrammi. Romano Prodi annuncia a mesi alterni l’avvio di «assemblee programmatiche». Da ultimo, forse stanco lui stesso dei propri proclami, è arrivato a scrivere (nel celebre manifesto cretese) che «non è ancora il tempo per tradurre i nostri grandi obiettivi in un programma dettagliato di governo». Ma se non ora, quando? Forse alla vigilia delle elezioni, quando le esigenze elettorali avranno ragione di ogni altra preoccupazione e faranno premio su ogni altra istanza? Con il rischio che un accordo dell’ultim’ora serva sì a nascondere divergenze, ma non certo ad appianarle individuando mediazioni accettabili per tutte le parti in causa?
E noi? Quale ruolo sta giocando il nostro partito in questa che potrebbe sembrare una commedia, se non rischiasse di concludersi tragicamente? La nostra impressione è che Rifondazione comunista non riesca a prendere distanza da tutto questo e a far sentire forte la propria voce, come invece dovrebbe, sui problemi reali del Paese: sul salario e sui diritti del lavoro; sui contratti, che i padroni – determinati a sbarazzarsi una volta per tutte del contratto nazionale – non vogliono chiudere, e sui rischi di un ritorno alla concertazione; sugli scioperi che ripartono (a cominciare dalla mobilitazione dei meccanici, che ha visto oltre un milione e mezzo di lavoratori in piazza il 10 giugno in difesa del salario e delle poche garanzie non ancora travolte dalla flessibilità); sui diritti sociali sempre più a rischio e sulla vergogna di un sistema fiscale che premia evasori e speculatori.
Il partito rischia seriamente di apparire privo di idee, appiattito sul centrosinistra, incapace – proprio ora che la crisi dell’Unione gliene darebbe ampie possibilità – di proporre al Paese una strada praticabile per uscire dal disastro prodotto dal governo Berlusconi, e di promuovere una iniziativa in grado di coinvolgere tutta la sinistra di alternativa sul terreno delle lotte, dei movimenti, della elaborazione programmatica. A nostro giudizio, la linea praticata dal Partito – a cominciare dalla discutibile richiesta delle «primarie» – è la conseguenza di un errore che lamentiamo da tempo, da quando la giusta decisione di mettere all’ordine del giorno il tema delle alleanze per cacciare il governo delle destre si è tradotta nella scelta, secondo noi sbagliata, di dare per acquisito un accordo di governo prima ancora di verificare la possibilità di adeguate convergenze programmatiche.
Ma ora non ci interessa tanto recriminare sul passato e sul tempo perduto. Ci preme molto di più evitare che gli errori commessi vengano perpetuati, con pregiudizio per il Partito, per la nostra gente, per il Paese. Si dica una volta per tutte, con forza e con chiarezza, che Rifondazione comunista (disponibile sin d’ora, senza se e senza ma, a unire la propria forza ai partiti del centrosinistra per cacciare Berlusconi) farà parte di una coalizione di governo solo se il programma conterrà alcune condizioni irrinunciabili (a cominciare dall’abrogazione delle leggi di Berlusconi, dal ritiro immediato delle truppe italiane da tutti i teatri di guerra e dalla non-partecipazione a nuove guerre, fossero anche coperte dall’Onu). Lo si dica. Si dia al mondo del lavoro, ai giovani, alle donne, agli anziani la certezza che Rifondazione comunista sarà al loro fianco nella battaglia – che si annuncia quanto mai aspra – per la riconquista di condizioni di vita accettabili. Si dia alle altre forze della sinistra critica e di classe e al “popolo della sinistra”, stanco di sentire parlare di formule astratte e di assistere a vane lotte intestine, un segnale forte, netto, finalmente legato a problemi concreti. Chi sa che questo scossone – ben più vigoroso di tutte le «primarie» possibili e immaginabili – non risvegli nel Paese un entusiasmo e una fiducia da tempo smarriti, e non induca i litiganti del centrosinistra a comportamenti più seri e più pensosi del bene comune.
Il quadro politico Europeo
L’attuale fase politica non è turbolenta solo per quanto concerne lo scenario italiano. Lo scorso maggio ha visto modificarsi profondamente il panorama politico europeo, scosso da alcune tornate elettorali di notevole rilevanza.
Hanno cominciato le elezioni politiche inglesi (5 maggio), dove Tony Blair è stato rieletto per un terzo mandato, ma il partito laburista ha subito una pesante emorragia di voti (-5,4% a vantaggio dei conservatori e, soprattutto, dei liberal-democratici) e ha visto ridursi di due terzi la propria maggioranza parlamentare ai Comuni. Il premier inglese, puntualmente celebrato dal centrosinistra italiano come modello di modernità e di buongoverno, paga le sue politiche sociali di stampo thatcheriano e paga la subalternità agli Stati Uniti nella guerra irachena e nell’adozione di misure liberticide contro il «terrorismo internazionale». Sono seguite poi (22 maggio) le elezioni nel Land tedesco del Nordreno-Westfalia, roccaforte operaia da 39 anni governata ininterrottamente dal partito socialdemocratico. Qui la sinistra ha subito una vera e propria débâcle, perdendo il 5,7% dei voti a beneficio dei cristiano-democratici (+7,8): un risultato che prefigura una sconfitta storica alle prossime elezioni per il parlamento federale. Anche in questo caso gli elettori hanno voltato le spalle al cancelliere Schroeder principalmente per le sue scelte economiche (privatizzazioni; tagli alla spesa; riduzione dei sussidi di disoccupazione, in un Paese che conta un esercito di sei milioni di disoccupati) ispirate ai dogmi di Maastricht. In entrambi i casi le urne hanno punito le politiche neoliberiste della sinistra socialdemocratica.
Preoccupa (ma non stupisce) che i commenti rilasciati dai dirigenti del centrosinistra italiano non registrino in alcun modo questo dato di fatto. Al contrario, è un tutto un coro di elogi per le «coraggiose» politiche di «modernizzazione»: bisogna puntare tutto sulla «competitività», sulla concorrenza, sul contenimento dei «costi sociali». Come si dice, dio acceca chi vuol perdere. Viene spontaneo chiedersi che cosa direbbero i nostri Prodi, Amato e D’Alema qualora Blair e Schroeder le elezioni le avessero vinte per davvero.
L’avvenimento cruciale sullo scenario europeo è stato tuttavia un altro: il referendum francese (29 maggio), seguito a ruota da quello olandese (1 giugno), che ha clamorosamente bocciato la cosiddetta «Costituzione» europea. È questo un evento di grande rilevanza e complessità, che dovrà essere analizzato con cura quando sarà possibile comprenderne appieno presupposti e conseguenze. Ma sulla bocciatura del Trattato costituzionale europeo alcune valutazioni possono essere formulate sin d’ora con relativa sicurezza. E la prima è che si è trattato di una vittoria delle classi subalterne e dei ceti più colpiti dalla «globalizzazione» neoliberista; dunque di un voto positivo, che salutiamo con grande soddisfazione. Recatisi in massa alle urne, i francesi (e gli olandesi) hanno pronunciato un sonoro no a questa Europa, concepita a misura degli interessi delle oligarchie finanziarie e imprenditoriali. Hanno detto no a una struttura dei poteri che somiglia sempre più, come ha scritto Jean-Paul Fitoussi, a una «democrazie delle élite». E hanno detto no soprattutto alla costituzionalizzazione di quel primato dei mercati e dei capitali che si traduce ogni giorno nella perdita del lavoro e di ogni sicurezza, nell’impoverimento di masse crescenti, nello smantellamento dello Stato sociale, nella privatizzazione di tutti i servizi e in politiche fiscali favorevoli a imprese e patrimoni. Tutto questo possiamo affermarlo senza tema di smentite, tanto è chiara la matrice operaia, popolare e giovanile dei voti contrari alla ratifica della «Costituzione» europea. Basti un dato. In Francia hanno votato no il 67% degli impiegati, il 70% dei salariati agricoli e ben l’81% dei salariati del manifatturiero, a cominciare dai lavoratori interinali.
Si tratta di dati inequivocabili, che attestano come in questo voto si sia espressa innanzi tutto la richiesta di rovesciare le basi dell’integrazione europea, sostituendo i vincoli attuali con garanzie di occupazione, di salario, di protezione sociale e ambientale. Tale prevalente segno progressivo resta anche a fronte della preoccupazione che le ansie generate dalla precarietà di massa possano ingrossare le file di movimenti nazionalisti e xenofobi e alimentare la richiesta di misure repressive nei confronti degli immigrati, facilmente individuati come responsabili del peggioramento delle condizioni di vita. Questo rischio non va certo ignorato. Al contrario, occorre intervenire subito per evitare il pericolosissimo cortocircuito tra paure di massa e tentazioni autoritarie. Ma a questo riguardo va pur detto che la colpa di tale stato di cose incombe per intero sugli architetti di questa Europa, nella quale le imprese hanno tutta la libertà di scorrazzare, delocalizzando le produzioni (sono almeno 500mila gli operai dipendenti da capitale italiano nella sola Romania) e lucrando su un costo del lavoro che, nei Paesi dell’est europeo, è cinque, sei, persino otto volte inferiore a quello medio dei Paesi più industrializzati. Quando Giuliano Amato si permette di insultare i critici del Trattato costituzionale europeo «che stanno festeggiando insieme a coloro che hanno votato no perché sono contro gli immigrati, sono razzisti e protezionisti», il meno che gli si possa rispondere è che egli dovrebbe piuttosto trarre dal voto francese e olandese motivi di seria riflessione sulle gravi responsabilità che condivide con gli altri padri di questa «Costituzione».
Proprio le parole di Amato (o quelle di Mario Monti, che ha definito i referendum sul Trattato costituzionale europeo «un esercizio molto astratto e pericoloso di “democrazia”», colpevole di sottoporre a gente ignorante e incompetente «un tema obiettivamente complesso») segnalano il vero rischio che rimane sul tappeto dopo questo importante risultato elettorale. L’Europa dei popoli non vuole l’Europa dei capitali, delle banche e dei mercati (così come non vuole l’Europa degli eserciti, delle armi e delle guerre «umanitarie» e imperialiste). Non vuole questa Europa di cui sperimenta quotidianamente gli effetti devastanti. Ma i governi e le burocrazie sono disposti a prendere atto di questo responso? Si atterranno al verdetto delle urne modificando alla radice – così come i cittadini pretendono – le logiche politiche, sociali ed economiche dell’integrazione? Per quanto riguarda l’immediato, la risposta non è confortante. L’impasse decisa dal voto francese e olandese ha trasformato proprio Blair (prossimo presidente di turno dell’Unione) in un arbitro influente. E in Francia il nuovo governo, insediato dopo il referendum, ha subito varato un programma iperliberista che accoglie tutte le richieste del Medef (la Confindustria francese), a cominciare dall’aumento dell’orario settimanale a parità di salario, sulla scia dei famigerati accordi della Siemens e della Volkswagen.
Nel breve, il quadro è dunque incerto e non privo di ombre. Ma l’importante successo del no costituisce un fatto politico di straordinaria portata, perché è l’espressione di orientamenti diffusi e radicati. Su questo grande patrimonio la sinistra anticapitalista e di classe è chiamata sin d’ora a un impegno costante, volto a conquistare in tutto il continente direttrici radicalmente nuove alle politiche sociali ed economiche. Nonché una politica estera di pace, nel segno dell’autonomia e dell’intransigente rifiuto della violenza imperialista che oggi gli Stati Uniti impongono in tante aree del mondo.
Aggressività Usa, Cuba
e impegno antimperialista
Quest’ultimo accenno agli Stati Uniti ci impone di soffermarci brevemente, in chiusura, su un altro tema, connesso precisamente alle sanguinose conseguenze dell’imperialismo statunitense e ai rischi di ulteriori devastanti conflitti che esso produce.
All’indomani della sua rielezione, lo scorso novembre, George W. Bush venne salutato da un coro di ovazioni. In Italia, anche da parte di autorevoli dirigenti del centrosinistra, si assicurò che il secondo mandato di Bush sarebbe stato «diverso», disposto a un più rispettoso rapporto con gli «alleati» europei, all’insegna del «multilateralismo». Da dove si traessero tali auspici rimane un mistero. Sta di fatto che in questi mesi Bush ha semmai radicalizzato il carattere aggressivo e la propensione dispotica e bellicista del suo governo, promovendo i falchi più estremisti (Rice, Wolfowitz, Negroponte, Bolton), nominando ministro della Giustizia il proprio consulente giuridico, entusiastico fautore della tortura, e cercando di varare una nuova legislazione «antiterrorismo» ancor più liberticida del tristemente famoso Patriot Act. Gli effetti di questo salto di qualità non si sono fatti attendere. Le torture nelle carceri americane sparse per il mondo sono diventate prassi quotidiana, nella generale indifferenza degli organi di informazione e delle corti internazionali. In Iraq (e in Afghanistan) la brutalità dei marines, coperti da una totale impunità, dilaga, esprimendosi in comportamenti criminali a danno delle popolazioni civili.
Intanto Bush alza il tiro, chiarendo come non aveva mai fatto in precedenza che la posta in gioco non è soltanto il petrolio né solo il Medio Oriente, ma il dominio mondiale. A Mosca, in occasione delle celebrazioni del sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, dichiara che gli accordi di Yalta furono un errore, lasciando intendere che con l’Urss non si sarebbe dovuti scendere a patti, si sarebbe dovuto combattere, moltiplicando le Hiroshima e le Nagasaki: si può immaginare una metafora più eloquente? Poco dopo – all’indomani del fallimento della conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare, in larga misura voluto dagli Stati Uniti (27 maggio) – il ministro statunitense della Difesa attacca la Cina, ammonendola ad abbandonare i propri programmi di difesa missilistica, giudicati pericolosi per «i delicati equilibri regionali» e per gli onnipresenti «interessi nazionali» degli Stati Uniti.
È sempre più evidente come l’imperialismo statunitense costituisca una seria minaccia per la pace mondiale. Sarebbe tanto più interessante, quindi, sapere come valutino questi ultimi episodi quanti – a cominciare dai massimi dirigenti dei Ds – hanno ritenuto di pronunciarsi, ancora di recente, a favore della pratica neo-conservatrice di «esportazione della democrazia». E come giudichino, in questo contesto, la permanenza delle truppe italiane in Iraq e la non meno cruciale questione delle basi Nato e Usa disseminate sul territorio nazionale, sedi di armamenti nucleari, snodi nevralgici di un sistema strategico integrato, per mezzo del quale gli Stati Uniti minacciano quanto è ancora in pace nel Mediterraneo e (i Balcani ce lo insegnano) sullo stesso territorio europeo.
Intendiamoci: sono solo domande retoriche, per rispondere alle quali è più che sufficiente considerare che dall’on. D’Alema e dall’on. Fassino non è mai venuta una parola che sia una in difesa dei diritti del popolo iracheno a insorgere contro l’occupazione militare anglo-americana (e italiana). Al contrario, ricordiamo solo dure accuse nei confronti della Resistenza irachena, assimilata al terrorismo. Il che è tanto più grave se si considera che il mondo intero deve proprio a quella resistenza di popolo, capace di frustrare i progetti statunitensi di guerra-lampo, che l’aggressione imperialistica non abbia dilagato nella regione, attaccando dopo l’Iraq altri «Stati-canaglia». Disse un giorno D’Alema, a proposito di un eventuale accordo di governo con Rifondazione comunista, che ad ogni modo la politica estera del centrosinistra «non è negoziabile». Alla luce delle sue ultime esternazioni in tema di «esportazione della democrazia» (coerenti con le sue gesta ai tempi del Kosovo), vorremmo fargli sapere che «non negoziabile» è anche la non-disponibilità di Rifondazione comunista a qualsiasi avventura bellica, di qualsiasi genere, con qualsiasi motivazione.
Ma quel che oggi più conta è che, a dispetto della violenza distruttiva di- spiegata dagli Stati Uniti e dai loro alleati, il panorama internazionale è tutt’altro che privo di luci. Ad ostacolare i progetti imperialistici degli Stati Uniti non c’è solo la Resistenza irachena, ma anche il progressivo costituirsi di aree indipendenti di potenza economica e strategica. Va letto in questa chiave, da ultimo, l’accordo politico, strategico ed economico stretto tra l’India e la Cina, a cui si aggiungono gli accordi bilaterali e triangolari dei due giganti asiatici con la Russia. A ciò si aggiunge l’imponente risveglio del- l’America Latina, nella quale a macchia di leopardo si estende un gigantesco movimento anti-imperialista di popoli e di Stati che riconquistano indipendenza e sovranità. Dopo il Venezuela di Chavez e l’Uruguay del Frente amplio, è di questi giorni la rivolta del popolo boliviano, con alla testa il movimento dei minatori e dei campesinos di Sucre, che pretende di tornare libero e padrone delle risorse energetiche del proprio Paese, sin qui saccheggiate dalle multinazionali nord-americane con la complicità di governi corrotti. Infine, Cuba.
Quarantacinque anni di embargo non sono bastati a piegare la rivoluzione cubana. Né è bastata la montagna di soldi (oltre 50 milioni di dollari l’anno) che gli Stati Uniti spendono per finanziare il «dissenso», la contra, lo spionaggio e le bande criminali che dal 1960 ad oggi hanno compiuto rapimenti e attentati costati la vita a 3478 persone. Cuba resiste. Al terrorismo imperialista e anche alle campagne di stampa che la diffamano per isolarla. Resiste e svolge con vigore il ruolo di capofila del movimento anti-imperialista in America Latina. Di questa ferma determinazione è testimonianza, da ultimo, l’incontro internazionale «contro il terrorismo, per la verità e la giustizia» svoltosi all’Avana dal 2 al 4 giugno con la partecipazione di partiti comunisti, comitati di lotta e movimenti sociali provenienti da ogni continente. L’incontro (al quale – lo ricordiamo con orgoglio – la componente de l’ernesto è stata ufficialmente invitata) ha offerto l’occasione per denunciare dinanzi al mondo i crimini del terrorismo statunitense e per chiamare a raccolta i movimenti, le forze politiche e gli Stati che vi si oppongono nel nome della giustizia e del diritto all’autodeterminazione. I popoli – questo ci dice l’incontro di Cuba – non si piegano alla violenza del capitalismo imperialista. La resistenza continuerà e continuerà la lotta per il socialismo, altro mondo possibile.
13 giugno 2005