Putin: quasi un plebiscito

Il 14 marzo si sono svolte in Russia le elezioni presidenziali e, come era nelle aspettative, il presidente uscente Vladimir Putin ha ottenuto la conferma del suo mandato con un risultato che assume, per molti versi, caratteristiche plebiscitarie. L’appello al boicottaggio lanciato agli elettori da alcuni settori del mondo politico russo – in particolare quelli più legati al destino dei grandi magnati – è stato sostanzialmente accolto più nei quartieri borghesi delle grandi città che altrove. Con una partecipazione al voto del 61,2% degli aventi diritto, il presidente uscente ha ottenuto circa 50 milioni di suffragi, pari a ben il 71,2%.
Il candidato presentato dal Partito Comunista della Federazione Russa, Nikolay Kharitonov, lo segue a grande distanza, con 9,5 milioni di voti e il 13,7%. Al terzo posto si è piazzato Sergey Glazjev, già tra i protagonisti della smagliante affermazione della coalizione di centro-sinistra “Rodina” nella consultazione politica, fino a qualche giorno prima considerato da alcuni come il possibile secondo piazzato nelle elezioni presidenziali Glazjev non ha raccolto nemmeno la metà dei voti ottenuti dal suo blocco elettorale alle politiche, non superando il 4,1%. La miliardaria liberale Irina Khakamada, autodefinitasi “l’unica candidata democratica” di queste elezioni (dopo che i due partiti liberali hanno rinunciato a competere) e indicata addirittura come “pacifista” dai media occidentali (anche di sinistra) in virtù della sua opposizione alla guerra in Cecenia, ha racimolato il 3,9% dei voti. In realtà Khakamada fa parte del gruppo più oltranzista dello schieramento liberista direttamente legato al capitalismo oligarchico, che si è reso responsabile delle misure più odiose di “riforma economica” che hanno caratterizzato il regime di Eltsin e che ha ispirato il colpo di stato del 1993, conclusosi con il massacro dei difensori del Parlamento russo. Il candidato del Partito liberal-democratico russo di estrema destra, Oleg Malyshkin (già guardia del corpo del leader del partito Vladimir Zhirinovskij) si è dovuto accontentare di uno striminzito 2,1%, con una perdita di circa il 10% rispetto al brillante risultato che il PLDR aveva ottenuto nella consultazione politica di tre mesi prima. L’ultimo candidato era Seghey Mironov – speaker del Consiglio della Federazione e molto vicino a Putin – che, come del resto era previsto, non è andato oltre lo 0,8%. “Contro tutti” si è espresso il 3,5% degli elettori che hanno deciso di recarsi alle urne (una parte di quelli che hanno seguito le indicazioni a delegittimare il risultato, utilizzando questa forma originale di voto consentita dalla legislazione elettorale russa).
Gli osservatori internazionali, al contrario di quanto avveniva con Eltsin, si sono dilungati nell’elencare le violazioni della legge elettorale e i brogli che avrebbero caratterizzato il corso della campagna e della consultazione. In effetti, il risultato conseguito da Putin in alcune delle regioni più arretrate della Federazione (a cominciare da quelle del Caucaso), che raggiunge e, a volte, anche supera il 90% dei suffragi, fa sorgere seri dubbi circa la piena correttezza delle modalità di votazione e scrutinio. Ma questo non rappresenta certo una novità attribuibile al solo Putin. In passato si sono verificate violazioni ben più gravi.
Ad esempio, nelle presidenziali del 1996 non furono pochi coloro che attribuirono l’affermazione di Eltsin sul comunista Zjuganov (che peraltro riconobbe subito la vittoria del suo rivale) ai giganteschi brogli che avrebbero caratterizzato il ballottaggio. Oggi, invece, i diversi conteggi paralleli dei voti, effettuati dai candidati avversari e dai “comitati per il boicottaggio”, non hanno evidenziato rilevanti differenze (a volte gli scrutini alternativi si sono rivelati meno vantaggiosi per l’opposizione!) rispetto al risultato comunicato ufficialmente.
Comunque siano andate le cose, spiegare esclusivamente in tal modo le ragioni del successo elettorale – come hanno fatto gli esponenti dell’opposizione russa di destra e di sinistra e (in modo alquanto sospetto) molti commentatori occidentali – è a nostro avviso sicuramente riduttivo.
Forse per comprendere a fondo le ragioni per le quali 50 milioni di russi hanno deciso di rinnovare per altri quattro anni la fiducia verso Putin, occorrerebbe rendersi conto di quanto il mandato presidenziale ottenuto nel 1999 dall’allora giovane ex funzionario del KGB (a suo tempo tra i collaboratori di Andropov) abbia rappresentato, nella consapevolezza collettiva, una rottura con quello che, non a torto, è stato considerato il periodo più oscuro e rovinoso (i cui effetti catastrofici sarebbero stati, per alcuni studiosi, addirittura superiori a quelli degli spaventosi anni della seconda guerra mondiale) della storia russa nella seconda metà del secolo scorso.
L’eredità lasciata da Eltsin era pesantissima: il paese era allo sbando e rischiava la disgregazione ad opera di poteri regionali, attraversati da un forte sentimento secessionista e a volte intenzionati a seguire la strada del separatismo ceceno, che agivano a rimorchio degli interessi economici e politici dell’Occidente; l’amministrazione presidenziale, in mano ad un personale corrotto e legato agli interessi della “famiglia” del presidente, era diretta, nei fatti, da un pugno di grandi oligarchi, arricchitisi in virtù dell’introduzione scriteriata dei meccanismi del “capitalismo selvaggio” che hanno accompagnato il processo di privatizzazione; l’apparato produttivo era allo sbando e svenduto a prezzi da “mercato delle pulci”; le fortune dei “nuovi russi” venivano consolidate nella logica “compradora” dell’intesa con le multinazionali occidentali, che ottenevano il “via libera” al saccheggio dissennato delle materie prime del paese, in forme analoghe a quelle che si manifestano nei paesi del terzo mondo; per tutto il decennio degli anni ‘90 il PIL registrava una diminuzione del 6% mediamente ogni anno e le condizioni sociali della popolazione subivano un deterioramento tale da produrre circa 50 milioni di poveri al di sotto della sussistenza e una diminuzione dell’aspettativa di vita di oltre 10 anni.
C’è allora da affermare, sulla base dei risultati conseguiti, che il nuovo presidente – certo giunto al potere con l’appoggio del “clan” di Eltsin, preoccupato dall’impetuosa ascesa del consenso attorno ai comunisti – ha saputo, dimostrando in ogni occasione una grande capacità di manovra, emanciparsi progressivamente dalla subordinazione alla “famiglia” e, seppur tra innumerevoli contraddizioni (determinate dai rapporti di forza esistenti, di volta in volta, tra i vertici del potere), dare l’impressione di voler imprimere una svolta negli indirizzi di fondo della politica russa.
Da subito, per porre un freno alle tendenze separatiste, che rischiavano di sottoporre la Federazione Russa a un processo di disgregazione analogo a quello subito dall’URSS, Putin non si è limitato ad intervenire con energia in Cecenia, ma ha avviato la riorganizzazione del sistema federale, attraverso la creazione di sette macroregioni, con a capo governatori direttamente eletti dal presidente, con il risultato di limitare fortemente le pretese dei potentati locali, appoggiati dalle “lobby” straniere interessate al controllo delle materie prime.
Tale processo si è accompagnato ad un’operazione di recupero di quei valori “patriottici”, di richiamo all’orgoglio nazionale (con frequenti riferimenti anche al passato sovietico), umiliato nel decennio eltsiniano da una pratica di totale subordinazione, anche culturale, all’Occidente e all’avvio di un nuovo corso di politica internazionale (attraverso l’elaborazione, nell’estate del 2001, della cosiddetta Dottrina della politica estera della Federazione Russa) che si propone di mettere al primo posto la difesa degli “interessi nazionali” del paese e di contribuire alla costruzione di un mondo multipolare, e che è entrata spesso in rotta di collisione con gli indirizzi strategici dell’imperialismo USA.
Inoltre, pur proseguendo sul cammino delle “riforme” con concessioni anche rilevanti (come è avvenuto nel caso della legge sulla “privatizzazione della terra”) ai settori liberisti del governo diretto da Mikhail Kasjanov, in carica fino al 2004, Putin finora non ha ceduto alla richiesta di procedere definitivamente allo scorporo e alla privatizzazione delle più importanti tra le aziende strategiche come “Gasprom”, il gigante del gas, oppure “Transneft”, che esercita il controllo sull’immensa rete di trasporto delle risorse energetiche del paese, di cui le multinazionali del petrolio hanno ancora recentemente chiesto la liberalizzazione.
Con il procedere degli anni, in modo inesorabile abbiamo assistito alla progressiva emarginazione dai gangli vitali del potere di quasi tutti quei personaggi (l’ultimo è proprio il premier Kasjanov, sostituito da un uomo, Fradkov, cresciuto politicamente all’ombra dell’attuale ministro della difesa Serghey Ivanov, considerato la personalità più vicina agli interessi di quella “borghesia nazionale”, tuttora alla direzione del potente anche se ridimensionato complesso militare-industriale) che avevano legato le loro fortune politiche ai destini di Eltsin e del suo clan. Molti dei magnati (Berezovskij, Gusinskij, Khodorkovskij, ecc.) che, approfittando delle privatizzazioni selvagge, avevano costruito imperi economici, attraverso la dilapidazione del patrimonio pubblico, sono stati emarginati dai processi decisionali e, in alcuni casi, addirittura perseguiti penalmente, in un clima di generale consenso popolare. Per meglio comprendere le ragioni dell’impatto che l’iniziativa di Putin ha avuto nell’opinione pubblica, e in particolare tra gli strati meno privilegiati del paese, forse vale la pena riprendere quanto ha scritto recentemente Dmitrij Jakushev, un intellettuale marxista russo. Scrive appunto Jakushev in un articolo ripreso anche dal sito del PCFR (1): “Negli anni ‘90, la Russia era un paese senza un bilancio statale, di fatto senza uno stato unitario, senza esercito, con un enorme debito estero, che sembrava impossibile restituire, con regioni che non facevano più riferimento al centro e che addirittura avevano cominciato ad emettere una propria moneta, con una direzione esterna esercitata dal FMI, che controllava il budget e tutte le spese del governo centrale. La guerra in Cecenia rappresentava la continuazione della politica di annientamento della Russia in quanto stato unitario”.
Jakushev, entrando così in aperta polemica con la parte oggi maggioritaria della sinistra russa che contro Putin ha condotto una durissima campagna elettorale, è convinto che “se non ci fosse stato Putin, non ci sarebbe più la Russia. Non ci sarebbe più un’industria, né la classe operaia, e neppure ‘ordini del giorno’ su cui qualche sinistra possa intervenire. Il sud del paese sarebbe controllato dai banditi e a guardia del petrolio e dei gasdotti ci sarebbero le truppe della NATO…Questa non è fantasia, perché quattro anni fa le cose stavano proprio così”.
Jakushev, senza mai nascondere il suo dissenso verso l’attuale linea del PCFR che rimprovera a Putin le stesse cose che rimproverava a Eltsin, vale a dire la mancanza di una politica in difesa degli “interessi nazionali”, così prosegue: “Forse che il mantenimento dell’unità e dell’indipendenza
della Russia, la fuoruscita dalla situazione in cui essa versava alla fine degli anni ‘90, non rappre sentavano un compito di interesse nazionale? Putin si è dedicato a questo compito e lo ha risolto, agendo in fretta, con decisione ed efficacia. Il risultato è stato che il paese ha evitato la rovina: è stato soffocato il separatismo dei governatori, è stato creato un terreno legislativo unitario, è stata creata una cospicua riserva valutaria. La Russia si è sottratta al giogo del debito ed è diretta da un governo nazionale e non dagli esperti del FMI”.
In questo contesto allora, secondo l’intellettuale russo, andrebbero cercati i veri motivi del successo di Putin e della vasta popolarità di cui l’energico presidente russo gode in questo momento. È sempre Jakushev ad affermare che le grandi masse della Russia sembrano aver compreso (“c’è solo da rallegrarsi che il popolo si sia raccolto dietro a Putin, come gli ebrei dietro a Mosè”) ciò che non viene riconosciuto dalla stessa sinistra, anche se essa dovrebbe essere assolutamente interessata a che “questo stato borghese non scompaia nell’abisso del separatismo, dell’estremismo religioso, dell’oscurantismo medievale e dell’imperialismo che sta dietro a tutti questi fenomeni”.
Le affermazioni di Jakushev, che potranno lasciare perplessi, per la loro nettezza, molti nella sinistra occidentale, in verità sembrano confermate dal comportamento assunto dalla borghesia “compradora” nel corso dell’ultima campagna elettorale.
Innanzitutto, i due partiti liberali (“Mela” e “Unione delle forze di destra”), usciti sconfitti dalle elezioni politiche di dicembre 2003, hanno cercato fin dal primo momento di delegittimare il risultato delle presidenziali, facendo appello al boicottaggio. A tale decisione non si è associata Irina Khakamada, che ha preferito puntare su una campagna elettorale (costata, per sua stessa ammissione, decine di milioni di euro) che segnalasse, anche agli interlocutori occidentali (varie istituzioni occidentali, del resto, al contrario di quanto avveniva con Eltsin, hanno spesso interferito con pesantezza nella campagna elettorale), il carattere “antidemocratico” della consultazione e le tendenze autocratiche del presidente uscente, la compressione della “libera iniziativa” e della “società civile”, e il carattere imperiale ed aggressivo della politica russa, con una particolare enfasi sui “crimini” della guerra in Cecenia, che le ha guadagnato la nomea di “difensora dei diritti umani”. Khakamada certamente non ha recuperato la disfatta subita dalla destra liberista alle elezioni politiche, ma un’analisi più particolareggiata del voto dimostra che attorno a lei si è raccolto quel settore di “borghesia compradora”, in gran parte legato agli interessi dell’imperialismo USA, e la parte più significativa di quei “nuovi russi” che hanno ignorato gli inviti al boicottaggio, ma che hanno negato il proprio voto a Putin. Nei quartieri più eleganti di Mosca e San Pietroburgo, ad esempio, la candidata liberale ha ottenuto percentuali anche del 20%, mentre nelle zone proletarie il consenso al presidente, accompagnato da un buon risultato per i comunisti, è stato superiore alla media nazionale.
A sinistra ha solo parzialmente sorpreso il mediocre risultato ottenuto dall’economista Serghey Glazjev che, nell’autunno del 2003 aveva, insieme a numerose personalità e organizzazioni di orientamento socialista e nazionalista “di sinistra”, rotto l’unità con il PCFR nell’ambito del fronte unitario “Unione Popolare Patriottica di Russia”, dando vita al blocco elettorale “Rodina” e ottenendo alle elezioni politiche un successo inaspettato (9%), attribuibile essenzialmente all’adozione di un programma sociale molto avanzato e (elemento di notevole frizione con i comunisti, ri-velatosi vincente) a una valutazione complessivamente positiva del ruolo di Putin nella lotta contro il capitalismo oligarchico. Ma già subito dopo la costituzione del gruppo parlamentare, sono venute esplicitandosi le numerose differenze che caratterizzano l’eterogeneo movimento e, in particolare, il dissidio tra il “socialista” Glazjev e l’altro leader del movimento, il “nazionalista” Rogozin. Così, all’annuncio di Glazjev di partecipare comunque alla competizione presidenziale, con un programma fortemente caratterizzato, i due terzi del gruppo parlamentare, guidati appunto da Rogozin e dal leader di “ Volontà Popolare” Baburin e orientati a sostenere “da sinistra” Vladimir Putin, lo hanno immediatamente sfiduciato, invitandolo prima a ritirare la candidatura e in seguito, dopo il suo rifiuto, allontanandolo praticamente dal movimento. Glazjev (sostenuto anche dall’ex leader sindacale, il socialista di sinistra Oleg Shein a capo del “Partito russo del Lavoro”) ha così dato vita ad una seconda “Rodina”, che è andata incontro ad un clamoroso insuccesso. Dopo la consultazione, lo stesso Glazjev non ha nascosto la sua delusione, manifestando propositi di abbandono della carriera politica, anche se corrono insistenti le voci di un suo possibile riavvicinamento al PCFR, dopo che un invito in tal senso gli è stato rivolto dallo stesso candidato comunista Nikolay Kharitonov.
Al di sopra delle aspettative è stato, invece, il risultato ottenuto proprio da Nikolay Kharitonov, già dirigente del “Partito Agrario”, presentato (per la verità, senza eccessivo entusiasmo, vista la sua non totale sintonia con Zjuganov) dal PCFR, a cui i sondaggi più generosi non attribuivano più del 5%. Il 13,7% raccolto dal candidato dei comunisti, anche se nel contesto di un recupero solo parziale del grave rovescio subito alle elezioni politiche, serve comunque a rafforzare il primato del PCFR tra le forze della sinistra russa. Le percentuali ottenute dai comunisti nelle regioni tradizionalmente “rosse” (ad esempio, fino a quasi il 30% in alcune località della Russia centrale e una buona affermazione nelle zone industriali della Siberia) indicano l’esistenza di uno “zoccolo duro”, assicurato da un discreto radicamento in ogni regione del paese, che fa sì che si possa affermare, riprendendo le parole di uno dei più autorevoli politologi russi (2), che il PCFR, tra le forze dell’opposizione russa, è l’unica che “ possa chiamarsi a pieno titolo partito, a differenza di altre formazioni”.
Il lusinghiero risultato del PCFR non ha comunque interrotto il tumultuoso dibattito avviatosi nelle file del partito all’indomani del rovescio elettorale di dicembre. Lo scontro tra la maggioranza, guidata dal presidente Zjuganov, attestata su una linea di dura contrapposizione a Putin e la sua amministrazione, e un nutrito gruppo di compagni (il presidente del comitato esecutivo dell’ “Unione Popolare Patriottica di Russia” Semighin, l’ex numero due del partito Kuptzov, gli autorevoli dirigenti Potapov e Shabanov) che rimproverano la mancanza di una visione più dialettica degli scontri interni agli assetti di potere, ha dato luogo nelle ultime settimane a violente schermaglie polemiche, in attesa dello scontro finale che dovrebbe avvenire nel corso del congresso fissato per i primi di luglio. Per quella scadenza, molti osservatori non escludono addirittura la possibilità dell’allontanamento dalla leadership del partito dello stesso Zjuganov: ipotesi che potrebbe essere confermata dal fatto che la relazione all’ultimo comitato centrale del 27 marzo (che pure non introduceva novità significative nella linea politica del partito) sia stata affidata all’attuale vicepresidente Ivan Melnikov.
Nel PCFR sono anche presenti, in particolare tra la generazione più giovane di militanti (ben rappresentata dal responsabile della sezione informatica del CC Ilya Ponomariov), dirigenti che, in nome della lotta per la democrazia e contro le presunte tendenze autoritarie di Putin, non nascondono la propria disponibilità ad alleanze più che disinvolte con i settori più agguerriti dello schieramento liberista e filoccidentale, fino ad impegnarsi in iniziative pubbliche comuni con “Mela”, l’ “Unione delle forze di destra” e alcune organizzazioni “per i diritti civili e contro la guerra in Cecenia” (collegate anche con i radicali italiani, che da tempo conducono una violentissima campagna antirussa), che tutti sanno finanziate da Washington. Ponomariov ha illustrato con disarmante chiarezza questa posizione in un suo articolo apparso negli organi di stampa del PCFR (3): “Si deve sottolineare che la posizione del nostro partito rispetto al sistema capitalistico oligarchico che si è sviluppato nel paese è molto dura. Personalmente ritengo che proprio questa sia la causa della povertà del nostro popolo e che tutte queste persone, Khodorkovskij, Ciubajs, Berezovskij, Potanin ed altri, portino una personale responsabilità. Ma perché non capire che costoro, in questo momento, rappresentano il nostro alleato oggettivo, l’unica alternativa al Cremlino? (…) Ciò pone le condizioni per la creazione di un’opposizione “di sinistra-destra”.
Contro questa posizione (che, in qualche modo, ricorda quella che, pur in altro contesto, ha tenuto il PC iracheno alleandosi in funzione anti-Saddam con l’occupante americano, e che sembra trovare consensi anche tra personalità della “nuova sinistra” come, ad esempio, Boris Kagarlitzkij, un intellettuale molto ascoltato nel movimento “altermondialista”) si è scagliato con durezza il già citato Dmitrij Jakushev: “Questo è il programma concreto che l’imperialismo, per bocca di Ponomariov, propone alla sinistra russa. E questo programma si sta realizzando a tutti i livelli. Alcuni esponenti del partito comunista, cercando di giustificare unioni senza principi, si affannano a convincere il pubblico che Putin avrebbe riunito attorno a sé tutta la borghesia e che, quindi, tutto ciò che si rivolge contro Putin è contro il capitalismo. Naturalmente non è così. Parlare di blocco della borghesia attorno a Putin, in presenza della massiccia pressione che l’imperialismo sta oggi esercitando sulla Russia e su Putin, è semplicemente ridicolo. Sarebbe piuttosto il caso di parlare di blocco della grande borghesia contro Putin”(…) Circola anche nella sinistra una leggenda del genere: ‘la Russia è una potenza imperialista aggressiva, Putin è un tiranno. L’essenziale è abbatterlo, restaurando la democrazia’. Di per sé stessa tale posizione è del tutto falsa, e spinge la sinistra a fare fronte comune con l’imperialismo”. Jakushev, che ritiene quanto mai probabile addirittura uno scontro militare con l’imperialismo (in particolare nella regione caucasica), è invece convinto che “se la sinistra ha una ragione per criticare Putin, non è certo perché egli è un tiranno e un imperialista, ma piuttosto perché egli è un democratico-borghese e, di conseguenza, non può essere un combattente deciso e determinato contro l’imperialismo. Ma fin dall’inizio sarebbe stato necessario sostenere Putin contro un’opposizione creata dall’imperialismo. Per questa ragione è necessario collocarsi alla sinistra di Putin, mettendo in rilievo la mancanza di coerenza e l’indecisione del suo antimperialismo, della sua lotta contro gli oligarchi; occorre esigere passi più decisi in difesa degli autentici interessi nazionali, che sono allo stesso tempo gli interessi di classe del proletariato e gli interessi generali dell’umanità”.

Note

1.Dmitrij Jakushev, “Putin, l’imperialismo e i comunisti” http://www.kprf.ru/articles/21530.shtml
La traduzione del testo pressoché integrale dell’articolo di Jakushev è apparsa nel numero 73 di “Nuove Resistenti” (20 marzo 2004), giornale del sito www.resistenze.org

2. Aleksey Makarkin, “Il plebiscito presidenziale” www.politcom.ru , 15 marzo 2004

3. Ilya Ponomariov, “La sinistra ha un’opportunità”www.kprf.ru