1) L’ occupazione militare dell’Iraq non è solo l’espressione di una guerra “classicamente” imperialista, condotta non da un fantomatico “capitale globale”, senza bandiera e senza patria, ma da una grande potenza statuale – in coalizione con altri Stati – per il controllo di un territorio che è una delle maggiori riserve petrolifere del mondo. (E ciò basterebbe a seppellire Toni Negri e compagnia e rendere priva di senso la rimozione della categoria leninista di “imperialismo”).
La guerra per il controllo dell’Iraq è anche altro ed esprime una volontà di dominio globale da parte dei settori più aggressivi dell’imperialismo americano, che si propongono il controllo geo-politico e militare del Medio Oriente e delle sue risorse energetiche, da cui dipendono in buona parte le economie dell’Unione europea e della Cina, per cercare di condizionarne lo sviluppo futuro.
Di più. Controllare il Medio Orien-te, maggiore riserva petrolifera mondiale (in una situazione in cui la fedeltà agli Usa dell’Arabia Saudita diventa sempre più incerta), significa anche controllare la politica dell’ OPEC, influire in modo rilevante sul prezzo del petrolio sul mercato mondiale, condizionare tutte le dinamiche economiche del pianeta.
Cina e Russia hanno subito colto l’insidia e, nel recente incontro al vertice tra Putin e Hu Jintao, i due paesi hanno concordato un forte aumento delle esportazioni di petrolio russo alla Cina, e un rafforzamento della cooperazione economica e militare tra i due paesi.
E’ ormai evidente che gli Usa, al momento opportuno, troveranno altri pretesti (in nome della “lotta al terrorismo internazionale”, contro altri “Stati canaglia” che “minacciano la sicurezza degli Stati Uniti”) per giustificare l’intervento e il controllo di altre regioni del mondo. Così è stato dopo l’11 settembre, con l’intervento in Afghanistan: paese che si trova in posizione strategica, nel cuore dell’Asia, al crocevia tra Russia, Cina e India. Una regione dove gli Usa vogliono estendere la loro influenza perché è nella partita per il controllo del Medio Oriente e dell’ “Eurasia” che si decide chi controllerà il mondo di domani.
Unione europea, Russia, Cina, India sono le principali potenze economiche e geo-politiche emergenti, dotate anche di forza militare: sono il principale ostacolo al dominio Usa sul mondo. Chi avesse ancora dei dubbi, si rilegga Paul Wolfowitz, ideologo dei “falchi” dell’amministrazione Bush: “Gli Stati Uniti devono appoggiarsi sulla loro schiacciante superiorità militare e utilizzarla preventivamente e unilateralmente…Il nostro primo obiettivo è di impedire l’emergere ancora una volta (dopo l’Urss – ndr) di un rivale. Si tratta di una tesi preliminare, la base di una nuova strategia di difesa regionale. Essa richiede ogni sforzo per impedire ad ogni potenza ostile di dominare una regione il cui controllo potrebbe consegnarle una potenza globale. Tali regioni comprendono l’Europa occidentale, l’Asia orientale (la Cina – ndr), il territorio dell’ex Unione Sovietica e l’Asia sud-occidentale (l’India – ndr)”.
2) Lo scenario è quello di una competizione per l’egemonia mondiale nel 21° secolo.
Gli Stati Uniti, di fronte alle proprie difficoltà economiche, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove potenze ed aree economiche, geo-politiche e valutarie che ne minacciano il primato mondiale, scelgono la guerra “infinita” per tentare di vincere la competizione globale sul terreno militare, dove sono ancora i più forti. E dove si propongono di raggiungere una superiorità schiacciante sul resto del mondo.
Significativa l’ultima decisione del Senato Usa che cancella il divieto di Clinton sui test nucleari e autorizza la produzione di bombe atomiche “tattiche”, destinate ad un uso selettivo e meno “vincolato”, più facilmente spendibile. Così ne parla l’Unità (11.05.2003): “Gli americani hanno già una bomba all’idrogeno per sfondare i rifugi antiatomici. Ma di fatto non la possono usare. La sua potenza è sei volte superiore a quella dell’ordigno di Hiroshima e il numero immenso di vittime civili sarebbe inaccettabile per l’opinione pubblica americana. Bush vuole una bomba atomica “selettiva”, con una potenza più limitata, …per poter seminare la morte nei rifugi della classe dirigente del paese attaccato senza sterminare l’intera popolazione”.
Si evidenzia dunque, rispetto alla fase precedente (presidenza Clinton) un salto di qualità, in negativo, della politica estera aggressiva e unipolare degli Usa, che puntano apertamente al dominio del mondo con una politica di riarmo e di guerra, fuori da ogni diritto internazionale. Non si tratta di una scelta congiunturale, facilmente reversibile con un cambio di presidenza Usa tra qualche anno, ma di un orientamento che viene dal profondo dei settori più aggressivi e oggi dominanti dell’imperialismo americano. Un orientamento strategico che guarda alle grandi sfide del 21° secolo, non una breve parentesi.
Ciò non significa che non vi siano differenze anche importanti nei gruppi dominanti Usa, nell’opinione pubblica, nella stessa amministrazione Bush. Ma la linea meno oltranzista (cooperazione multipolare contrattata, in un quadro che comunque riaffermi la leadership mondiale degli Stati Uniti, accordi internazionali di contenimento della corsa al riarmo, riconoscimento del ruolo delle Nazioni Unite) oggi appare in netta minoranza e prevedibilmente lo sarà per molti anni, fino a quando la linea dei “falchi” non andrà incontro a sconfitte clamorose (tipo Vietnam) o ad una crisi economica che produca un peggioramento significativo delle condizioni materiali di vita della maggioranza degli statunitensi. Mi riferisco a quelli che votano alle elezioni (ovvero circa la metà degli aventi diritto), dato che – in questa “patria della democrazia” – la parte più povera non vota e spesso non si iscrive neppure alle liste elettorali.
Una dittatura militare planetaria
Gli Usa aspirano, come ha ben sintetizzato Fidel Castro, ad una “dittatura militare planetaria”, che rappresenta una minaccia ancora più grande di quelle che l’umanità ha dovuto fronteggiare nel secolo scorso. Si moltiplicano i commentatori autorevoli, appartenenti a diversi filoni di pensiero, che in vario modo alludono a un raffronto così inquietante. Samir Amin parla di “sfida neo-nazista di Washington”, Harold Pinter, il famoso scrittore inglese, ha alluso a “un progetto di dominio mondiale simile a quello nazista”, Fidel Castro, pur negando che si possa parlare di fascismo a proposito della politica nazionale e della società statunitense, ha denunciato il “carattere neo-fascista del progetto che l’estrema destra al potere alla Casa Bianca intende imporre al mondo”. Mentre Luigi Pintor, alcuni mesi fa, scrisse in uno dei suoi indimenticabili editoriali : “la mia generazione è convinta di aver vissuto in un secolo tragico, ma può dirsi fortunata. Il genocidio era in fondo ancora episodico e circoscritto e non ancora duraturo e pianificato su scala planetaria”.
Sarebbe a mio avviso un errore definire oggi il sistema politico nazionale e la società americana che lo esprime come “fascisti” (anche se il sistema vigente nel lager di Guantanamo e le crescenti restrizioni e leggi eccezionali introdotte nella legislazione Usa, in nome della lotta al terrorismo, intaccano su aspetti di fondo le regole di uno Stato di diritto, con modalità sconosciute ad altri Stati che gli Usa e la cultura liberale definiscono “dittatoriali”. E così pure fuoriescono da ogni “garantismo democratico” l’ampliamento smisurato e il perfezionamento dei sistemi di controllo elettronico del tipo “Echelon”, con cui – scrive l’Unità – “il Pentagono vuole schedare tutto il mondo”, fino a poter “identificare la posizione dei singoli individui sulla faccia della terra”, con modalità al confronto delle quali il mondo di Orwell ci appare un paradiso delle libertà. E poi ce la prendiamo con Cuba…).
Resta aperta negli Stati Uniti una dialettica tra opzioni diverse (ancorchè tutte interne a quel sistema). Non tutto è normalizzato come lo fu nella Germania hitleriana. Ma sul piano internazionale la linea espressa dai settori più oltranzisti dell’amministrazione Bush – e lo dico pesando le parole, non mi interessa alcuna esasperazione propagandistica – rappresenta una minaccia per certi aspetti più grande (se si vuole : “diversa”) da quella rappresentata nel ‘900 dal nazi-fascismo. Gli Usa dispongono oggi – e prevedibilmente disporranno per molti anni – rispetto al resto del mondo, di una superiorità militare di gran lunga superiore a quella che Germania, Giappone e Italia avevano all’inizio della seconda guerra mondiale (come poi si vide, a partire da Stalingrado…). Nemmeno il Terzo Reich pensava al dominio globale del pianeta, nei cinque continenti, così come oggi esso viene teorizzato senza mezze misure da alcuni esponenti dell’amministrazione Bush.
3) Ciò spiega perché la filosofia e la pratica della “guerra preventiva” suscitino nel mondo una opposizione così vasta, che coinvolge la grande maggioranza degli Stati del pianeta e delle loro classi dirigenti, non solo dei popoli.
Si è manifestata, come non era mai accaduto dopo il 1945, una vasta opposizione mondiale alla politica Usa, in cui si intrecciano movimenti popolari e azione politico-diplomatica degli Stati, tra cui alcuni dei maggiori (Russia, Cina, India, Francia, Germania, Brasile, Sudafrica…).
La spinta verso un mondo multipolare non si fermerà, anche se essa procederà con gradualità e prudenza, perché nessuno oggi ha la volontà e la forza di sfidare apertamente e frontalmente gli Usa, che oggi escono vincitori dalla partita sull’Iraq. Questa spinta si manifesterà – si sta già manifestando – con la tendenza alla formazione di poli regionali in tutti i continenti, volti a rafforzare la cooperazione economica, politica, militare dei paesi della regione (o gruppi di paesi) in modo da essere presenti sulla scena mondiale con maggiore potere contrattuale nel rapporto con gli altri poteri forti.
Tutti ritengono però, quale che sia la loro strategia, di avere bisogno ancora di tempo per rafforzarsi.
Questo spiega ad esempio la prudenza delle diplomazie cinese e russa nei rapporti con gli Usa: le quali, come scrive acutamente Lucio Magri cogliendo l’essenza del problema, “vogliono rinviare ad altri tempi una frattura”. Ciò spiega la ritrovata disponibilità al compromesso di Francia e Germania : prudenze e disponibilità che si sono espresse ad esempio nel voto unanime (con la non partecipazione della Siria) a favore della risoluzione 1483 (22 maggio 2003) del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che in qualche misura legittima a posteriori l’occupazione militare dell’Iraq e “riconosce” i vincitori.
Questo voto – nelle intenzioni di Francia, Germania, Russia, Cina, e secondo le regole della più classica (e cinica) realpolitik – punta anche a non farsi escludere completamente da ogni influenza sul nuovo Iraq e dai giganteschi interessi legati alla ricostruzione del paese; punta a tutelare i propri interessi in campo, dalle concessioni petrolifere al recupero dei debiti contratti dal vecchio regime di Saddam Hussein.
4) Questa guerra, nei mesi che l’hanno preceduta, ha fatto nascere un forte movimento popolare, che ha coinvolto centinaia di milioni di persone, in ogni continente, con grandi manifestazioni di piazza in centinaia delle maggiori città del pianeta. Il 15 febbraio 2003 più di cento milioni di persone hanno manifestato contemporaneamente in ogni parte del mondo, in modo coordinato.
Era dalla fine degli anni ’40, dai tempi del Movimento mondiale dei partigiani della pace, che non si vedeva una mobilitazione così grande ed estesa a tutte le latitudini.
Un movimento mondiale contro la guerra
Si tratta di una delle novità più importanti del quadro internazionale dopo il 1989. Anche se tale movimento non ha avuto la forza per fermare la guerra e oggi vive una fase di delusione e di riflusso per come si è risolto – per ora – il conflitto in Iraq, si sono poste alcune importanti premesse per le lotte future e per la ricostruzione di un movimento mondiale contro la logica imperialista della guerra, che non si fermerà.
Vi è qui un terreno fondamentale di lavoro per i comunisti e per le forze rivoluzionarie e antimperialiste di ogni parte del mondo. Purtroppo mancano forme anche minime e flessibili di coordinamento internazionale del loro lavoro e tale assenza, che dura ormai da molti anni, non vede ancora in campo ipotesi di soluzione ed iniziative adeguate da parte dei maggiori partiti comunisti che avrebbero la forza e la credibilità per prenderle. Ciò rende tutto più difficile, ed espone il movimento mondiale contro la guerra, soprattutto in alcuni paesi e regioni del mondo (non tutto è uniforme), all’influenza prevalente delle socialdemocrazie, delle Chiese o di alcuni raggruppamenti trotzkisti (come è stato finora, in buona misura, nel movimento di Porto Alegre). Vorrei essere chiaro : non sto demonizzando alcunchè, constato, e vorrei essere smentito.
L’appuntamento del prossimo Fo-rum Sociale Mondiale, che si svolgerà dal 16 al 21 gennaio 2004 in India, potrebbe forse vedere, da questo punto di vista, alcune importanti novità, ed un suo ampliamento unitario: in senso geo-politico, cioè con il coinvolgimento dell’Asia, oltre l’asse originario imperniato su Europa occidentale, Stati Uniti e America Latina (poi si dovrà guardare all’Africa, all’Europa dell’Est, alla Russia); ed anche in senso politico-ideale, con il graduale superamento di una persistente pregiudiziale antipartitica, che si è finora risolta in sorda ostilità soprattutto nei confronti dei partiti comunisti (o della più parte di essi). Da tale allargamento geo-politico e ideale tale movimento non potrà che trarre vantaggio, consolidamento e anche maggiori legami coi movimenti operai dei rispettivi paesi, con generale beneficio del movimento mondiale contro la guerra e la crescita, in una parte almeno di esso, di una più matura coscienza antimperialista e antiliberista.
5) L’opposizione alla “guerra preventiva” viene non solo dai popoli e delle tradizionali forze di pace, non solo dalle Chiese di ogni confessione, non solo dalle nuove potenze emergenti non alleate degli Usa (come Russia, India e Cina, che si sentono in prospettiva più minacciate, soprattutto quest’ultima).
L’opposizione viene anche da parte di tradizionali potenze imperialiste come Francia e Germania, che fanno parte del nuovo ordine mondiale dominante. Potenze non certo “pacifiste”, come si è visto in Africa (ad esempio in Congo, dove la competizione interimperialistica tra Francia e Stati Uniti, per il controllo delle immense risorse minerarie della regione, combattuta per “interposta tribù”, è costata la vita in pochi anni a 4 milioni di persone…); o nella guerra della Nato contro la Jugoslavia, che ha visto Francia e Germania pienamente coinvolte.
Questi paesi sono gli assi portanti dell’Unione europea, e cioè di un progetto autonomo di costruzione di un polo imperialista europeo (con la sua moneta : l’euro) che vuo-le giocare le sue carte nella competizione globale. Un polo che in prospettiva punta a dotarsi di una forza militare integrata (esercito europeo) autonoma dagli Usa e dalla Nato, per non essere più, come si dice, “un gigante economico, ma un nano politico e militare”.
Contraddizioni inter-imperialiste
Questi paesi non accettano di sottomettersi al dominio statunitense, ma procedono con prudenza e gradualità in questo processo di autonomizzazione : non hanno oggi la forza di sfidare apertamente gli Usa, non hanno un sufficiente consenso degli altri Paesi dell’Unione europea per mettere apertamente in discussione l’equilibrio “transatlantico”.
Inoltre Francia e Germania non dispongono ancora di una forza militare autonoma sufficiente a garantire il proprio status di potenze dominanti nelle relazioni con altre potenze emergenti (e nucleari) come Russia, Cina, India. E ritengono perciò di avere in parte ancora bisogno dell’ “ombrello” Usa e Nato per assicurarsi una funzione di primo piano nel nuovo ordine mondiale. La situazione presenta cioè forti elementi di trasitorietà, su cui ritornerò.
6) Le contraddizioni che oppongono la grande maggioranza dei Paesi del mondo al progetto militarista e unipolare Usa, sono di natura diversa:
– vi sono contrasti tra imperialismo e Paesi/popoli oppressi e in via di sviluppo (Movimento dei paesi non allineati), che aspirano alla pace e a un ordine mondiale più giusto nella ripartizione delle ricchezze del pianeta;
– vi sono contrasti tra imperialismo Usa e opinioni pubbliche dei paesi capitalistici sviluppati (Unione europea, Giappone, Canada…) le quali, pur avendo orientamenti politici moderati, sono contro una politica di guerra, di riarmo, di interventismo militare fuori dalle regole dell’Onu e del diritto internazionale;
– vi sono contrasti tra imperialismi, per la ripartizione delle risorse mondiali e delle rispettive sfere di influenza (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Giappone…);
– vi sono contrasti tra imperialismo e paesi di orientamento socialista, antimperialista, progressista (Cina, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Cuba, Venezuela, Brasile, Libia, Siria, Palestina, Sudafrica, Bielorussia, Moldavia…) che non solo sono contro la guerra, ma in vario modo aspirano ad un modello di società diverso dal capitalismo dominante.
Si evidenzia qui in particolare il contrasto con la Cina, grande potenza socialista (economica e nucleare), diretta dal più grande partito comunista al mondo, che sta emergendo come la grande antagonista degli Usa nel 21° secolo. Questo dichiarano apertamente vari esponenti Usa, che valutano che nei prossimi 15-20 anni, con gli attuali tassi di sviluppo, il Prodotto Interno Lordo della Cina potrebbe eguagliare quello degli Usa, il divario di potenza militare potrebbe ridursi, e quindi “bisogna pensarci prima”, se non si vuole che la Cina divenga per gli Stati Uniti, nel 21° secolo, quello che l’Urss è stata nel secolo scorso;
-vi sono contrasti con grandi paesi come la Russia e l’India (potenze nucleari), che non sono paesi socialisti o “progressisti”, almeno oggi; ma sono paesi che non fanno parte del sistema imperialistico dominante, i cui interessi nazionali e la cui collocazione geo-politica internazionale contraddicono le aspirazioni egemoniche degli Usa.
Unipolarismo e multipolarismo
La Casa Bianca, nel suo documento sulla Sicurezza nazionale del settembre 2002, li definisce paesi dalla “transizione incerta”, che potrebbero evolvere verso una crescente omologazione agli interessi Usa e al suo modello sociale e politico (economia capitalistica neo-liberale, distruzione di ogni statalismo in campo economico, democrazia liberale in campo politico-istituzionale, rinuncia al potenziamento del proprio potenziale militare e nucleare, rinuncia ad ogni “non allineamento” in politica estera, ecc.); ma che potrebbero evolvere in senso opposto e quindi rappresentare, o tornare a rappresentare, una “minaccia” per l’egemonia degli Stati Uniti e per l’attuale ordine mondiale dominante;
– vi sono contrasti con la realtà complessa e diversificata del mondo islamico (un miliardo e 300 milioni di persone) che aspira ad un crescente ruolo internazionale;
– vi è una spinta, nei vari continenti, a creare unità regionali economiche e politiche più autonome dagli Usa e con un proprio protagonismo sulla scena mondiale :
* in Europa, con l’Ue e il rapporto Ue-Russia;
* nell’area ex-sovietica, con la Csi;
* in America Latina, con il Mercosur (asse Brasile-Argentina) e ancor più con il progetto di una America Latina “bolivariana”, imperniato sull’asse Brasile-Cuba-Venezuela;
* in Africa, con l’Unione africana e in particolare con il SADC, Coordinamento per la cooperazione e lo sviluppo dei paesi dell’Africa australe, imperniato sul nuovo Sudafrica e sui governi progressisti della regione (Angola, Mozambico, Namibia, Zimbabwe, Congo, Tanzania…);
* in Asia, con l’Asean e lo sviluppo del rapporto Cina-
Asean / Cina-Vietnam. Nel 2010 i dieci paesi dell’Asean e la Cina formeranno il più grande mercato comune del pianeta;
-con le spinte verso una graduale riunificazione della Corea su basi di neutralità, denuclearizzazione e allontanamento di tutte le basi militari straniere;
-con il rafforzamento del ruolo del “Gruppo di Shangai” (Russia, Cina, Kazachistan, Kirghisia, Uzbekistan, Tagikistan) : gruppo imperniato sull’asse russo-cinese, con la recente significativa richiesta di Putin all’India di entrare a farne parte (richiesta che è stata avanzata proprio all’indomani del vertice di Praga della Nato del 21-23 novembre 2003, dove l’Alleanza – su pressione americana – ha deciso il suo ulteriore allargamento ad Est con l’inclusione di sette nuovi paesi ex socialisti).
Il recente incontro a Mosca tra Pu-tin e il nuovo Presidente cinese, Hu Jintao, dopo la conclusione della guerra in Iraq (primo viaggio all’estero del leader cinese in qualità di Capo dello Stato) ha rilanciato il ruolo del “Gruppo di Shangai”, con evidente funzione di bilanciamento dell’unipolarismo Usa.
Significativo è stato pure l’incontro trilaterale tra i ministri degli esteri di Russia, Cina e India, svoltosi recentemente a New York a margine della 57° sessione dell’Assemblea generale dell’Onu. E così pure il recentissimo incontro al vertice tra Cina e India, che ha rilanciato il processo di normalizzazione e avvicinamento tra i due giganti asiatici.
7) Gli Usa osteggiano il formarsi di questi “poli regionali” autonomi dalla loro influenza, e cercano di favorirne la “disaggregazione” (Lucio Caracciolo), oppure di sostenere all’interno di essi l’egemonia di quelle forze che sono sotto la loro influenza.
Lo si vede in Europa, dove gli Usa appoggiano l’integrazione economica (un processo irreversibile), ma osteggiano il formarsi di un polo politico-militare autonomo; e comunque, all’interno di tale “polarizzazione”, sostengono quei governi e quei Paesi – a partire dalla Gran Bretagna – che danno loro le maggiori garanzie di fedeltà.
Lo si vede in America Latina, dove gli Usa osteggiano il progetto di integrazione del MERCOSUR, che favorisce una maggiore autonomia dal Nord America, e sostengono invece il progetto ALCA che prevede l’egemonia di Stati Uniti e Canada sull’intero continente.
Lo si vede in Asia, dove gli Usa guardano con diffidenza e preoccupazione al “Gruppo di Shangai” e cercano di rafforzare la loro presenza e influenza (anche militare) nelle repubbliche asiatiche dell’ex Urss.
Queste diverse contraddizioni hanno determinato e determinano contrasti importanti nei principali organismi internazionali (Onu, FMI, Banca mondiale, G8, Wto, Unione Europea, nella stessa Nato) che non saranno ricomposti, che hanno basi strutturali e che caratterizzeranno le relazioni internazionali dei prossimi anni, perché troppo grande e diffusa è l’aspirazione ad un mondo multipolare.
E’ vero che – dopo l’occupazione militare dell’Iraq – vi è una generale tendenza delle maggiori potenze a ricercare un compromesso coi “vincitori”. Ma le contraddizioni non sono risolte e tendono continuamente a ripresentarsi (basti pensare alle tensioni e alle minacce che investono Iran, Siria, Arabia Saudita, crisi palestinese, Corea del Nord, Venezuela, Cuba, ad una situazione interna all’Iraq non normalizzata, alla permanente competizione economica e valutaria Usa-Ue / dollaro-euro…).
8) E’ significativo che gli Usa, con la scelta di fare la guerra all’Iraq,
siano rimasti in forte minoranza nell’Assemblea generale dell’Onu e nel Consiglio di Sicurezza, dove non solo hanno avuto l’opposizione dei paesi maggiori (Francia, Germania, Russia, Cina), ma dove non sono neppure riusciti – pur esercitando pressioni e ricatti fortissimi – a “comprare” il voto di paesi minori come Messico, Cile, Angola, Camerun, da cui non si attendevano tante resistenze.
Le scelte di Bush hanno profondamente diviso la stessa Nato (tradizionale bastione Usa) e l’Unione europea, per l’opposizione dell’asse franco-tedesco e della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica di tutti i paesi europei.
Non si era mai vista, dopo la seconda guerra mondiale, una divisione così profonda – su una questione di tale rilievo – nello schieramento transatlantico.
Non si era mai visto tanto “antiamericanismo” tra i giovani e in vasti strati di opinione pubblica, dai tempi della guerra in Vietnam.
Il fatto che l’opposizione alla guerra di grandi paesi come Russia, Cina, Francia, Germania non abbia superato una certa soglia di asprezza (oltre la quale il contrasto tende a spostarsi sul terreno dello scontro aperto e della contrapposizione politico-militare); il fatto che momenti di forti divergenze si alternino a situazioni in cui prevale la ricerca di una mediazione e di un compromesso, sorge non già – come sostengono le teorie di Toni Negri sul nuovo impero – dall’esistenza di interesse omogenei di un presunto “capitale globale” e di un presunto “direttorio mondiale” in cui esso troverebbe espressione politica organica e unitaria, ma da rapporti di forza internazionali che, sul piano militare, non consentono oggi a nessun paese o gruppo di paesi di portare una sfida aperta, oltre certi limiti, alla superpotenza Usa (che si dimostra assai decisa al ricorso alla guerra per difendere i propri interessi).
Diversità degli interessi in campo
Ciò deriva anche, come si è detto, dalla diversità degli interessi in campo, delle prospettive, dei progetti politici e di modello sociale delle diverse forze che pure insieme hanno detto “no” alla guerra e si oppongono all’unilateralismo Usa.
Ad esempio : la Cina, il Vietnam, Cuba, il Venezuela…, che si oppongono al modello neo-liberale, oltre che alla guerra, non hanno la stessa collocazione strategica, lo stesso profilo politico-ideale, della Germania di Schroeder o della Francia di Chirac, che invece difendono un certo modello economico e un ordine mondiale fondato sul predominio delle grandi potenze capitalistiche.
Lo si vede bene sulla vicenda di Cuba : aiutata dai Paesi socialisti e progressisti, ma osteggiata dall’Unione europea che si è recentemente avvicinata agli Usa nel rilancio di una campagna ostile al governo di Fidel Castro. O nell’allineamento Ue-Usa nell’inserimento di movimenti di liberazione come le Farc colombiane o come il Fronte di liberazione della Palestina nella “lista nera” delle organizzazioni definite “terroristiche”.
La lotta di classe non è scomparsa, così come non scomparve negli anni ’40 quando forze tra loro assai diverse per riferimenti sociali e politici trovarono una comune convergenza contro il nazi-fascismo, per poi tornare a dividersi negli anni della guerra fredda, in Italia e nel mondo, perché portatori di interessi e di modelli di società tra loro alternativi.
9) Con la guerra in Iraq, e nonostante la vittoria militare, gli Usa hanno pagato un prezzo politico importante. Hanno scontato un isolamento politico larghissimo nei popoli del mondo intero (oltre che politico-diplomatico, al di là dell’intensità più o meno forte con cui esso si è espresso pubblicamente). Si calcola che solo il 5% dell’opinione mondiale abbia sostenuto la guerra.
Una nuova generazione che, con il crollo dell’Urss e la crisi dell’ideale comunista, era cresciuta in Occi-dente (e non solo in Occi-dente) col mito del modello americano, oggi comincia ad aprire gli occhi e a maturare una coscienza critica potenzialmente antimperialista.
Ciò detto, non si può negare che – a breve termine – la linea Usa vince senza avere incontrato – almeno per ora – grandi resistenze in Irak e nel mondo arabo.
Cresce negli Usa il consenso alla presidenza Bush. Maggiori difficoltà registrano in Europa i governi di Gran Bretagna, Italia e Spagna (come indicano le recenti elezioni amministrative). E però Aznar sostanzialmente tiene in Spagna (le variazioni elettorali sono minime), dove pure il 90% dell’opinione pubblica si era schierata contro la guerra. Mentre in Italia le maggiori difficoltà di Berlusconi non sembrano derivare prevalentemente dalla sua politica estera. Contano di più i fattori legati alla politica nazionale, alle difficoltà economiche, alle vicende giudiziarie, ai contrasti interni al governo, a una più generale crisi di credibilità (e questo non è rassicurante, rispetto al tema della pace e della guerra).
La conclusione rapida della guerra in Iraq, il fatto che non si siano – ancora – prodotte le “catastrofi” annunciate alla vigilia (in termini di vittime, di presunto “incendio” del Medio Oriente, di moltiplicazione terribile del terrorismo internazionale, di tenuta della resistenza irakena e di Baghdad di fronte all’invasione…) può aver convinto una parte dei contrari alla guerra che, alla fine, tutto sommato, non è stato poi “così male”…
Il fatto che Bush si presenti, con la “road map”, come sostenitore di una soluzione di “pace” della questione palestinese, e che questo progetto venga rilanciato dopo l’occupazione militare dell’Iraq, può alimentare questo orientamento più comprensivo verso gli Usa, e permettere loro un recupero di immagine.
Emergono segni di sconcerto, di delusione, di arretramento nello schieramento che più si era opposto alla guerra. Il movimento per la pace è come evaporato, si sente sconfitto e impotente (e non consoliamoci, per favore, dicendo che molte bandiere della pace sono ancora alle finestre…). Sarebbe squallido se il prendere atto delle sue difficoltà, che sono le nostre, per cercare insieme di superarle, fosse inteso come segno di “ostilità al movimento”. Sarà bene piantarla, e anche in fretta, con certe polemiche strumentali e anche un po’ patetiche. O dovremmo dire che Pietro Ingrao è “contro il movimento”, quando sostiene che “oggi esso è chiamato dalle dure cose a una riflessione critica” ?
Nell’Unione europea, si assiste – nei settori più moderati della socialdemocrazia e dello schieramento che si era opposto alla guerra – ad un recupero del rapporto “transatlantico”, di amicizia con gli Stati Uniti, per cercare per quella via di limitare e condizionare “dall’interno” le posizioni più estreme dell’amministrazione Usa (è la linea di Blair).
Nel gruppo dirigente Usa, a breve termine, le posizioni più oltranziste sulla “guerra preventiva” escono rafforzate, e non si fermeranno.
Ne sono un sintomo chiaro, tra gli altri, l’esclusione di ogni ruolo sostanziale dell’Onu nel futuro dell’Irak, nonostante le sollecitazioni di Colin Powell, Blair, Aznar, Berlusconi. E anche la scelta del Congresso Usa di approvare la produzione e l’utilizzo di armi nucleari tattiche, anche in conflitti militari convenzionali con Stati che non possiedono armi atomiche : una pericolosa escalation di politica e strategia militare.
Il pericolo di un consolidamento della “linea Rumsfeld” è reale. Oggi è più forte di prima della guerra. Sono ripartite e regolarmente si ripetono le minacce alla Siria, all’Iran, alla Corea del Nord, a Cuba…
Non è probabile un’altra guerra a brevissimo termine, ma tali minacce vanno prese sul serio, e in prospettiva (nell’arco dei prossimi 5-10 anni) gli Usa non si fermeranno certo all’Iraq. La lista è lunga.
Che fare?
10)Come sconfiggere la linea della Casa Bianca? Come farla arretrare? Come ricostruire un contrappeso capace di condizionare la politica internazionale degli Stati Uniti? Questo è il problema che, dopo la guerra in Iraq, si pongono tutte le forze nel mondo che non vogliono una nuova tirannia globale.
“Questo obiettivo – ha scritto Samir Amin – deve essere considerato assolutamente prioritario. L’organiz-zazione del progetto americano condiziona tutte le lotte : nessun progresso sociale e democratico sarà possibile finchè il piano americano non sarà bloccato”.
La ricostruzione di un contrappeso presuppone la convergenza di più forze, tra loro assai diverse:
-la resistenza del popolo irakeno e delle forze del mondo arabo che la sostengono (Siria, Iran, resistenza palestinese…) per mantenere aperto il fronte interno irakeno, contro l’occupazione militare, e scoraggiare nuove avventure. E’ necessario un sostegno internazionale a tale resistenza; e un rinnovato sostegno alla causa palestinese, che si trova in grave difficoltà, dentro una dinamica politico-diplomatica che oggi appare sempre più controllata dagli Usa (nuova leadership moderata di Abu Mazen; emarginazione della sinistra palestinese e dello stesso Arafat; difficoltà dell’Intifada e suo isolamento internazionale);
-la ripresa del movimento per la pace su scala mondiale (non facile, dopo la batosta subita), riorganizzando le sue componenti più dinamiche e determinate, per impedirne la dispersione e il riflusso;
-il consolidamento delle più ampie convergenze politico-diplomatiche tra Stati, contro l’unilateralismo Usa, senza di che è impensabile qualunque ripresa di ruolo dell’Onu (obiettivo che non va abbandonato, in assenza di alternative più avanzate che oggi non esistono). Si pone qui il tema di un maggior ruolo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, rispetto al Consiglio di Sicurezza, e di una composizione più rappresentativa del Consiglio stesso;
-lo sviluppo, all’interno degli Stati Uniti, di una opposizione alla politica di Bush, oggi assai debole : più debole di prima della guerra.
Il movimento per la pace è essenziale, ma da solo non basta a raggiungere la massa critica necessaria, nei rapporti di forza planetari, per sconfiggere la linea Usa (così come negli anni ’40 non sarebbero bastate le resistenze popolari per sconfiggere il nazismo, se non fossero scese in campo grandi potenze in coalizione tra loro).
Ha scritto recentemente Mario Tronti : “Negli Stati Uniti si è realizzata una potenza di livello unico. Come si contrasta una potenza così? Lo so che faccio la parte antipatica del sostenitore del modello della forza nelle relazioni internazionali : ma non credo che si contrasti (solo) con la moltitudine, bensì (anche) con un equilibrio di potenze…La preparazione e la conduzione della guerra all’Iraq dimostrano che gli Usa possono fare – militarmente parlando – quello che vogliono, quando vogliono, come vogliono. Questo strapotere non si ferma solo con le bandiere arcobaleno alle finestre…L’immagine delle due superpotenze, gli Usa e l’opinione pubblica, inventata dal New York Times, è suggestiva e incoraggiante nei cortei, ma è falsa : ci può essere un’opinione pubblica enorme ma impotente, a fronte di una potenza solitaria priva di forze di contrasto”.
11)Come si collocherà e come evolverà l’Europa?
Sono emerse divisioni non facilmente superabili tra Usa e Unione europea, all’interno dell’Unione europea e della Nato (cioè tra alleati del tradizionale blocco atlantico) anche se non sempre esse si manifestano o si manifesteranno in forma acuta.
Nell’Unione europea (e nella Nato) continuerà il contrasto tra filo-americani e sostenitori di un’Europa più autonoma dagli Usa, imperniata sul rapporto preferenziale tra Francia – Germania – Russia. Anche per questo gli Usa vorrebbero l’ingresso nell’Ue di Turchia e Israele, loro alleati di fiducia (soprattutto Israele, perché anche in Turchia, come si è visto in relazione al conflitto irakeno, sta emergendo una dialettica nuova).
Sono molti gli analisti che fanno notare che è la prima volta, da oltre cento anni, che Francia-Germania-Russia si sono trovate, su questioni di fondo e in una situazione di crisi internazionale, sulla stessa lunghezza d’onda.
Una vittoria – possibile – nei prossimi anni, delle forze di centro-sinistra in Italia e in Spagna, rafforzerebbe la linea europea più “autonomista”. (La dialettica tra “autonomisti” e “pro-americani” non passa necessariamente – ad esempio in Francia o in molti paesi dell’Est – tra centro-destra e centro-sinistra; in Italia e Spagna, in buona misura sì).
Dove va l’Unione europea?
Questa linea punta, con prudenza e gradualità, a costruire anche un’autonoma difesa militare europea (esercito europeo/rafforzamento di una industria militare europea). In un primo momento si tratterebbe di un “pilastro europeo” all’interno della Nato; in una prospettiva più a lungo termine potrebbe porsi anche il tema di un superamento della Nato, o di una modifica radicale delle sue attuali caratteristiche. Il fatto che il problema di un superamento o di una modifica dello status delle basi Usa e Nato in Italia sia stato posto, sia pure in termini di provocazione, da un uomo come Francesco Cossiga (che della materia se ne intende…), la dice lunga sul grado di maturità della problematica nelle stesse élites dirigenti.
A tale riguardo, se è chiaro che gli Stati Uniti sono oggi orientati ad agire anche militarmente in modo unilaterale, senza farsi condizionare né dall’Onu nè dalla Nato (dove le decisioni devono essere prese all’unanimità), è altrettanto evidente che essi non rinunceranno alla Nato. L’Alleanza continua ad essere per loro uno strumento prezioso per controllare l’Europa e le strutture politico-militari, di sicurezza, di intelligence, nonché l’industria e la tecnologia militare dei Paesi europei integrati nell’Allean-za. E per assicurarsi basi militari fondamentali sul continente, poste sotto il loro controllo, magari spostandole o creandone di nuove nei paesi europei più fedeli e sottomessi, come i paesi dell’Est. (Si è parlato ad esempio di uno spostamento di basi militari Nato e Usa dalla Germania alla più fedele Polonia e verso altri paesi, come Ungheria, Bulgaria, Romania…). Il tutto, nel quadro di un dispositivo che evidenzia una presenza militare Usa in 140 Stati su 189 (con altri 36 vi sono accordi di cooperazione militare), con 800 basi militari e 200.000 soldati dislocati all’estero in permanenza (esclusi quelli oggi presenti in Iraq).
Ciò rende attualissima e non rituale, anche in Italia, la ripresa di una iniziativa dei comunisti, delle forze più avanzate della sinistra e del movimento per la pace, per la chiusura delle basi militari straniere sul territorio nazionale (per dare all’Italia uno status di maggiore autonomia internazionale, simile a quello della vicina e moderatissima Francia).
Per l’allontanamento dal territorio nazionale di tutte le armi di sterminio, nucleari e non (secondo lo status della moderatissima Danimarca, membro dello Nato, o della ancor più moderata ancorchè neutrale Austria).
Per il ritiro di tutti i militari italiani impegnati all’estero a supporto di azioni di guerra e di occupazione militare.
Tutto ciò, al fine di attivare, con un protagonismo attivo del nostro paese, iniziative e dinamiche di disarmo in campo internazionale.
E se confronto programmatico serio deve esservi tra tutte le forze di sinistra e di centro-sinistra del nostro Paese, a partire da quelle più avanzate, sarà bene che esso cominci proprio non eludendo la questione di fondo della pace e della guerra, e di come si contrasta il sistema di guerra a partire dal territorio nazionale. Se c’è una cosa davvero “non negoziabile” nel confronto programmatico col centro-sinistra, questa è proprio la pretesa assurda di D’Alema di considerare la politica estera dell’Italia “materia non negoziabile”. Se si parte così si parte male, anzi malissimo.
La stessa difesa intransigente e solidale del diritto di Cuba, della Siria, dell’Iran, della Corea del Nord e di ogni altro paese minacciato a proteggere la propria sovranità da ogni ingerenza internazionale, è parte integrante della lotta contro il sistema di guerra, quale che sia il giudizio che ognuno può avere sulla situazione interna di questo o quel paese.
Timothy Garton Ash, intellettuale britannico vicino a Tony Blair, ha scritto dopo la guerra in Iraq che in Europa il bivio è “tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi – Berlino – Mosca – Delhi – Pechino / ndr) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa”. L’interpretazione è ardita e per molti versi prematura. Il rapporto transatlantico non è ancora in frantumi nell’ Unione europea, e in molti (a partire dal “nostro” Roma-no Prodi) stanno operando per ricucire. Ma il vertice franco-russo-tedesco di San Pietroburgo, o l’invito di Chirac alla Cina a partecipare al G8 in Francia, esprimono comunque una dialettica politico-diplomatica a largo raggio, che segnerà buona parte della politica internazionale dei prossimi anni.
Non meno chiara la linea esposta da Tony Blair, che in una intervista al Financial Times (28.05.2003) afferma senza mezzi termini : “Alcuni auspicano un preteso mondo multipolare con diversi centri di potere che tenderebbero a trasformarsi presto in poteri rivali. Altri pensano, e io sono tra questi, che abbiamo bisogno di una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e America”.
Dunque: “Euro-america” o “Eura-sia”?
I comunisti e l’Europa
Le forze progressiste, in primo luogo i comunisti, che vogliono un’ Europa davvero autonoma dagli Usa e dal loro modello di società, debbono pensare ad un progetto alternativo, che vada oltre l’Unione europea e le basi su cui essa è venuta formandosi, dai trattati di Maastricht alla nuova Costituzione europea, fino al recente vertice europeo di Salonicco, nelle cui compatibilità opera in modo subalterno la socialdemocrazia europea ed anche qualche partito comunista e di sinistra antagonista, o componenti di essi. ( E’ un tema di enorme complessità, su cui ritorneremo prossimamente su l’ernesto con uno specifico dossier, aperto a diversi contributi e approfondimenti).
Va elaborato cioè un progetto credibile, oggi quasi del tutto assente, di un’Europa che comprenda tutti i paesi del continente (anche Russia, Ucraina, Bielorussia, Mol-davia…). Un progetto che:
– sul piano economico, contrasti la linea delle privatizzazioni e prospetti la formazione di poli pubblici sovranazionali (interessante la proposta, in altro contesto, che il presidente venezuelano Hugo Chavez ha sottoposto a Lula, per la formazione di un polo pubblico continentale per la gestione delle risorse energetiche, collegato ad una banca pubblica regionale che serva a finanziare progetti di sviluppo e con finalità sociali);
– sul piano politico-istituzionale, contrasti ipotesi federaliste volte a svuotare la sovranità dei Parlamenti nazionali (si pensi al dibattito sul diritto di veto) e sostenga un’ipotesi di Europa fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani, non subalterna ai poteri forti delle maggiori potenze imperialistiche che dominano l’attuale Unione europea, con una comune e coordinata collocazione di pace e di cooperazione multilaterale in campo internazionale (il che suppone che orientamenti di questi tipo si affermino innanzitutto nei singoli paesi);
-sul terreno (delicatissimo) della dimensione militare, preveda un sistema di sicurezza e di difesa pan-europeo, alternativo alla Nato, comprensivo della Russia (una sorta di Onu europea), che già oggi – considerando il potenziale nucleare di Francia e Russia – disporrebbe di una forza difensiva sufficiente a dissuadere chiunque da un’aggressione militare all’Europa. Dunque, un progetto opposto a quello di un riarmo dell’Unione europea, di una sua militarizzazione e vocazione imperialistica, volta a rincorrere gli Usa sul loro stesso terreno. Una tesi questa (riarmo dell’Ue) che è presente anche a sinistra, con l’argomento – in sé vero – che oggi l’imperialismo europeo (franco-tedesco) è assai meno pericoloso per la pace mondiale di quello americano. La tesi è giusta, ma sbagliata e pericolosa è la terapia: i movimenti operai e i popoli europei, e qualsivoglia progetto di Europa sociale e democratica, verrebbe colpiti al cuore da una politica di riarmo del continente su basi neo-imperialistiche. A parte ogni altra considerazione, chi pagherebbe il costo di una crescita esponenziale delle spese militari, in un’Europa neo-liberale dove già oggi vengono colpite duramente le spese sociali? Che fine farebbe quel poco che rimane dell’Europa del Welfare?
Il progetto di “un’altra Europa” non è realizzabile a breve termine, richiede lotte, modificazioni profonde dei rapporti di forza, iniziative politico-diplomatiche lunghe e pazienti; presuppone una conquista graduale della maggioranza dell’opinione pubblica europea e il sostegno di una parte delle classi dirigenti di Francia, Germania, Italia, Spagna, Russia (la Gran Bretagna sicuramente lo contrasterà). Ma non è, prospetticamente, fuori dalla realtà. Su di esso può realizzarsi una convergenza tra forze politiche e sociali assai diverse, dell’Est e dell’Ovest. Su di esso vale la pena di cominciare a ragionare in modo meno vago di quanto non si sia fatto finora, a partire dai comunisti europei.
12) L’Unione europea non può fare da sola. Se vuole reggere il confronto con gli Stati Uniti ed uscire dalla morsa della subalternità transatlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con la Russia (che è parte dell’Europa), con Cina, India, Indocina, Giappone; e con le forze più avanzate e/o non allineate che si muovono in Africa (Africa australe, Libia, Algeria…), in Medio Oriente (Iran, Siria, Palestina…), in America Latina (Brasile, Venezuela, Cuba, Ecuador, oggi forse anche Argentina…). Su un punto dissento da un’editoriale di Lucio Magri sulla Rivista del Manifesto (giugno 2003), quando scrive che “solo l’Europa potrebbe avere il peso economico e politico per contenere l’attuale ambizione dominatrice della superpotenza americana”. Mi sembra un giudizio viziato da un residuo di eurocentrismo, duro a morire.
Credo invece che solo una rete di unioni regionali, non subalterne agli Usa (di cui l’Europa sia parte essenziale), per un mondo multipolare, può modificare i rapporti di forza globali e condizionare la politica Usa. Solo lo sciocco (o la sciocca) che si rifiuta di capire e di interlocuire in modo non strumentale, potrebbe definire questa come un’ipotesi “neo-campista” (la quale, per essere tale, presupporrebbe una sostanziale omogeneità strutturale di sistema, di modello sociale, che oggi certamente non esiste tra questi Paesi o unioni regionali).
Questa “rete” può fondarsi su forze e possibilità reali, non immaginarie, che esprimerebbero insieme un potenziale economico e geo-politico già oggi superiore a quello della coalizione filo-americana, imperniata sull’asse Stati Uniti- Israele – Gran Bretagna.
Russia, Cina, India: la sfida dell’Eurasia
Anche sul piano del deterrente militare (convenzionale e nucleare), la presenza in questa “rete” di paesi come Russia, Cina, India, Francia, Germania,Brasile,Sudafrica…avreb be una forza tale da poter credibilmente negoziare con gli Usa, da posizioni di non eccessiva debolezza. Gli Usa non possono fare la guerra a tutto il mondo.
In particolare, in paesi come Russia, Cina, India – potenze nucleari in cui vive la metà del pianeta, che potrebbero esprimere tra 15-20 anni circa un terzo del PIL mondiale, e che la stessa amministrazione Bush definisce “paesi dalla transizione incerta” – le forze comuniste, di sinistra, antimperialiste, non allineate, non subalterne al modello neo-liberista e agli Usa, costituiscono già oggi una forza maggioritaria (in Cina) o che potrebbe diventarlo negli altri due paesi (Russia, India) nell’arco di un decennio.
Un’alleanza elettorale in India tra Congresso e Fronte delle sinistre (animato dai comunisti) potrebbe vincere le prossime elezioni (febbraio 2005), su un programma che recuperi le istanze progressive del non-allineamento. Un’avanzata dei comunisti e dei loro alleati alle prossime elezioni politiche in Russia può creare le condizioni per un compromesso con Putin (con una parte almeno delle forze che sostengono Putin) e collocare la Russia su posizioni più avanzate.
Sono possibilità, non certezze. Per questo parlo di un processo che potrebbe maturare “nell’arco di un decennio”. Ma che dispone delle potenzialità per maturare, sia pure con gradualità, e su cui forze importanti in questi Paesi stanno lavorando.
E’ il progetto elaborato dall’ex premier russo Primakov, oggi sostenuto con forza da Samir Amin e ripreso (su Liberazione, 9.5.2003) persino da uno dei “guru” del movimento no-global come Walden Bello (come si vede, scuole di pensiero assai diverse…): la costruzione di un contrappeso mondiale agli Usa imperniato sulla partnership strategica tra Russia, Cina, India (ma anche Asean e penisola coreana), aperto alla cooperazione multipolare col Giappone e con un’Europa, un’Africa, un’America Latina più autonome dagli Stati Uniti. Anche Lula, nel recente incontro del G8 ad Evian, ha dichiarato che “Brasile, Cina, India, Sudafrica e tutti gli altri Paesi in via di sviluppo hanno molto da fare perché hanno molto in comune”.
Come ha ben sintetizzato Samir Amin, “un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico”.
Non sarà il socialismo mondiale, ma certamente un avanzamento strategico nella direzione giusta. E con l’aria che tira, non sarebbe poco.