Ci siamo appena lasciati alle spalle un anno, il 2002, senz’altro straordinario; dopo molto tempo nel nostro paese è ripreso un grande conflitto sociale che ha visto scendere in piazza milioni di persone in difesa dei diritti del lavoro e cittadinanza; una novità rilevante è stata rappresentata da moltissimi giovani che hanno compreso e condiviso il merito e gli obiettivi della lotta e, superando a volte apatia e disaffezione, hanno riscoperto la voglia e la passione di partecipare e di spendersi per un futuro migliore.Tra di loro, davvero protagonisti, abbiamo visto una moltitudine di singolarità e di differenze, unite però da una condizione comune, la precarietà. Una condizione di vita e di lavoro di cui molti osservatori, forze sociali e politiche e gli stessi mass-media sembrano accorgersi solo oggi dopo anni di latitanza e di colpevole sottovalutazione del problema. Preliminarmente va rilevato che la precarietà continua a crescere in tutta Europa. Molto interessante a questo riguardo una recentissima ricerca realizzata dall’osservatorio EIRO della Fondazione europea che ha sede a Dublino. Le cifre parlano chiaro: secondo gli ultimi dati Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, nel 2000 i cosiddetti “atipici” erano il13,4% degli occupati, contro il 9,1% dell’83. Lo studio sfata innanzitutto due luoghi comuni cari agli imprenditori: la convinzione che ad essere flessibili i lavoratori hanno tutto da guadagnare e l’opinione che solo abbassando le tutele contrattuali si può creare maggiore occupazione. Sul primo punto viene detto chiaramente che ” sebbene vi sia una forte mobilità da un contratto ad un altro, il lavoro atipico è una trappola per tutta la vita, in termini di avanzamento professionale e di guadagni; sul secondo relativamente all’equazione “meno diritti uguale più posti di lavoro” viene affermato che la lotta alla disoccupazione ottiene risultati più duraturi se le esigenze di flessibilità poste dagli imprenditori si coniugano con la domanda di garanzie contrattuali che viene dai lavoratori. Ma qual è la situazione più nello specifico nel nostro Paese? Scorrendo le pagine del rapporto ISTAT 2001, alla voce “lavoro atipico” leggiamo: le famiglie dove è presente almeno un lavoratore atipico(rispetto al totale di quelle presenti sul mercato del lavoro) erano il 9,2% nel 1993, il 15,5% nel 2001. Coinvolte quindi oltre 2 milioni e 200 mila famiglie(nelle quali vivono più di 7 milioni e mezzo di individui). Nel 2001 le famiglie dove era presente solo lavoro atipico erano il 5,6% coinvolte quindi 810.000 famiglie (nelle quali vivono circa 2 milioni e 400.000 individui). Nel periodo 1996/2000 il lavoro dipendente è aumentato dell’8,1%, il 90% dell’incremento è attribuito al lavoro atipico, nello stesso periodo il lavoro standard è cresciuto dell’1%, quello atipico del 40,5%. A questa stima vanno aggiunte le collaborazioni coordinate e continuative che dal ‘96 al 2000 sono aumentate del 34%; gli ultimi dati al 30/06/2002 parlano di 2.253.003 persone (fonte INPS); prima classificata la Lombardia con numeri che sfiorano di poco il mezzo milione. Milioni di individui privi dei più elementari diritti, dalle ferie alla malattia, ad un equa retribuzione, all’indennità di disoccupazione ordinaria, tfr, 13a e 14a. Sotto costante ricatto di non rinnovo del contratto individuale che di norma ha validità annuale e che può essere interrotto in ogni momento, il più delle volte senza alcuna motivazione; unico onere per il datore di lavoro l’invio di una raccomandata trenta giorni prima della scadenza. Il lavoro temporaneo, meglio conosciuto come “interinale” meriterebbe ben altro approfondimento; mi limito in queste pagine ad alcune brevi considerazioni che derivano da esperienza diretta. Uno dei pochi dati attendibili a disposizione è relativo a quanti attraverso tale modalità accedono ad un rapporto di lavoro stabile, a tempo indeterminato, sono circa il 25%. Tale dato giustifica chi sostiene che il lavoro interinale, presentato al momento della sua introduzione come una innovativa opportunità per creare occupazione e per rispondere alle esigenze di flessibilità delle imprese, si è spesso tradotto in vero e proprio sfruttamento e ricatto permanente. Ci si imbatte infatti con notevole frequenza in aziende, anche di grandi dimensioni, che ne fanno un uso strutturale ed illegittimo. Non sono affatto residuali le realtà che vedono tali lavoratori oggetto di continue pressioni ed intimidazioni. Con infortuni che si trasformano in malattie, con malattie che diventano ferie, “costretti” a lavorare anche durante le pause, a non partecipare alle assemblee sindacali ad effettuare sistematicamente decine e decine di ore di straordinario al mese. Il ricatto della conferma incombe ed è strettamente strumentale all’aumento costante della produttività: ti spremo come un limone e poi ti getto. Di fatto quindi un altro strumento che concorre ad esporre i lavoratori alla precarietà del lavoro. Siamo di fronte pertanto ad una precarietà dilagante determinata dall’effetto combinato devastante di aumento esponenziale della flessibilizzazione della prestazione lavorativa da un lato, e di una progressiva e pesante deregolamentazione del mercato del lavoro dall’ altro. Un processo iniziato da tempo e che vede anche precise responsabilità politiche del precedente governo di centrosinistra che è intervenuto con massicce privatizzazioni, ristrutturazioni, esternalizzazioni, mobilità, prepensionamenti (precarietà è infatti anche l’espulsione dai cicli produttivi di decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori che da poco hanno raggiunto o oltrepassato la soglia dei cinquantanni) ma anche con provvedimenti legislativi discutibili, vedi la legge 196/97 più nota come “pacchetto Treu”. Anche se qui va ricordato che la legge dalla sua approvazione è stata via via sistematicamente manomessa con l’eliminazione di una serie di vincoli, naturalmente ad esclusivo beneficio degli imprenditori. Non da ultimo vanno ricordati diversi rinnovi contrattuali, firmati dai sindacati confederali, compresa la CGIL, che hanno introdotto dosi elevate di flessibilità. A ragione possiamo ben sostenere che già oggi il mercato del lavoro italiano è quello che presenta il più alto grado di flessibilità. Ma evidentemente ciò non viene ritenuto sufficiente dai padroni italiani che hanno chiesto ed ottenuto dall’attuale Governo l’introduzione di ulteriori flessibilità. Il LIBRO BIANCO di Maroni (che vede tra i suoi estensori vari autorevoli collaboratori dell’ex premier D’ALEMA) non rappresenta solo un manifesto ideologico ma un vero e proprio programma operativo di ulteriore smantellamento del diritto del lavoro nel nostro Paese, si passa poi attraverso la manomissione dell’art18 (vedi Patto per l’Italia) e si arriva fino all’approvazione già avvenuta in uno dei due rami del Parlamento della delega sul mercato del lavoro. Tutto insieme una miscela esplosiva a danno degli occupati e non, una vera e propria destrutturazione del mercato del lavoro e precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Qualcuno potrebbe commentare: non si fa altro che portare a compimento quello che altri hanno iniziato. In questa situazione drammatica, c’è addirittura qualcuno che pensa ( anche in settori vicini a noi) a proporre la separazione giuridica fra rapporto di lavoro dipendente ed autonomo, attraverso l’istituzione del rapporto di lavoro cosiddetto “economicamente dipendente”. Bisogna stare attenti perchè accanto alla finalità (condivisibile) di estendere a tutti i lavoratori alcuni diritti fondamentali c’è il rischio di mettere in discussione pregorative e tutele essenziali oggi garantite al lavoratore dipendente. Come muoversi allora per contrastare efficacemente tale deriva? Cerco qui di dare alcune parziali risposte. Ritengo primariamente che vada respinto,ovunque, non solo nelle piazze e nelle aule parlamentari, il tentativo sempre più palese di contrapporre garantiti e non, dicendo sostanzialmente “vi togliamo qualche diritto per darne qualcuno a chi non ce l’ha”.Vanno messi in campo tutti i dispositivi anche di carattere giuridico per ricondurre al lavoro subordinato quello che è appunto lavoro subordinato. E’ infatti estremamente complicato oltre che pericoloso individuare una “terza via” tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Questo anche alla luce della seppur limitata esperienza territoriale che mi insegna che dietro la stragrande maggioranza di lavoro atipico si nasconde lavoro di carattere subordinato con tutte le sue ben connotate caratteristiche. Come ben sappiamo non si tratta solo di una questione di equità ma anche di efficenza del sistema, in particolare di quello previdenziale, già nel mirino dei prossimi interventi governativi; è opportuno sapere, per fare l’esempio dei collaboratori coordinati e continuativi, che quest’ultimi versano contributi ridotti all’INPS (avendo tra l’altro una protezione sociale ridicola) ma è evidente che ciò a lungo andare ed aumentando la platea è facilmente prevedibile che si determinerebbero ulteriori problemi per la tenuta del sistema previdenziale. Respingere l’attacco già partito al CCNL e alla vigente struttura contrattuale che è sistematico e completo (vedi già citato Libro bianco) dal quale emerge un nuovo (ed alternativo) livello contrattuale:il contratto individuale. Difendere pertanto il valore ed il ruolo del contratto nazionale; introdurre nei contratti nuove rigidità, restringendo le flessibilità, dire quali professionalità sono indisponibili al lavoro atipico, quali sono i diritti irrinunciabili, individuare e praticare percorsi certi di stabilizzazione dei rapporti lavorativi.
La piattaforma di rinnovo dei meccanici presentata dalla Fiom va in questa esatta direzione assumendo la lotta alla precarizzazione come asse portante della propria iniziativa. Stiamo ancora attendendo che altre categorie della Cgil operino coerentemente in fase di definizione delle piattaforme contrattuali. Sono d’accordo con chi sostiene che lottare oggi contro la precarietà significa andare oltre l’organizzazione di coloro che sono tradizionalmente precari perchè appunto oggi è in atto la precarizzazione di tutti i rapporti di lavoro ed è quindi problema di tutto il movimento dei lavoratori. Una grande battaglia di civiltà che va legata anche con quella del reddito sociale e la riforma degli ammortizzatori sociali che di per sé costituiscono un forte fattore di ricomposizione del mondo del lavoro. Una questione di civiltà si diceva. Proprio in queste ore apprendo con soddisfazione che la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile il referendum sull’art18. Assisto alla ridda di dichiarazioni che segue; una delle argomentazioni tra le tante contrarie, si riferisce al fatto, giusto, che tale estensione non coinvolge quei milioni di atipici, parasubordinati etc. A parte che ci sono varie proposte di legge già depositate da tempo, come si fa a non comprendere che il successo di questo referendum rappresenterebbe un antidoto di estrema efficacia contro i processi di precarizzazione e le tante forme atipiche che già esistono e che sono destinate ad aumentare con l’approvazione della delega sul mercato del lavoro. Un referendum si “abrogativo”ma con un effetto espansivo dei diritti davvero portentoso. Vogliamo scommettere?