La crisi politico-istituzionale apertasi all’indomani del voto per le elezioni regionali, con le dimissioni di D’Alema e l’incarico ad Amato, segna per molti versi la fine di una fase e l’apertura di uno scenario i cui sbocchi sono per il momento sconosciuti. Al fine di mettere in luce i nuovi problemi emergenti è necessario ripartire da un’analisi del voto del 16 aprile, anche per superare definitivamente interpretazioni in parte deformanti. La scelta del periodo di riferimento non è neutrale. È del tutto evidente, infatti, che il confronto con le regionali del ‘95 può permettere di capire il motivo dei mutamenti negli assetti dei governi regionali, oltre che darci indirettamente un riscontro circa gli effetti complessivi dell’esperienza del governo di centrosinistra sulle percezioni dell’opinione pubblica; invece il confronto con le europee del ‘99 ha il merito di isolare tendenze più recenti e per questo destinate con ogni probabilità ad esercitare un condizionamento più forte nel prossimo futuro, oltre che mettere in luce alcune peculiarità delle forze politiche, dato che nel periodo ’95-2000 vi sono state non poche turbolenze nell’assetto politico nazionale. Ora, dal primo punto di vista è evidente che nel corso degli ultimi cinque anni il peso politico del centro sinistra è palesemente diminuito. Tanto i DS, quanto i Popolari o i verdi hanno visto un diminuzione in percentuale del peso dei loro voti cui si accompagna il calo anche in termini di valori assoluti. Ciò avviene anche per Rifondazione comunista, ma in tal caso è del tutto evidente che le cause sono assai diverse. Nel primo caso vi è una perdita di credibilità nei confronti del ruolo del centro sinistra e della sua politica di governo, nel secondo pesa in gran parte la caduta di credibilità derivante dalla scissione. Né i recuperi che nello stesso periodo sono garantiti dalla nascita dei democratici da un lato e dei comunisti italiani dall’altro, compensano le perdite. Si spiega così la sconfitta del 16 aprile e la conquista di ben otto regioni su 15 da parte delle forze del centro destra che, infatti, nello stesso periodo vedono aumentare nel complesso i loro consensi anche se in gran parte per merito di Forza Italia e delle formazioni di centro. L’intesa fra Polo e Lega, poi, sancisce, di fatto, la supremazia del centro-destra nel nord del Paese. Il confronto con i dati delle europee del ‘99 non è meno interessante. Continua, infatti, la perdita di peso del centro sinistra per effetto soprattutto dei democratici che rispetto alle europee perdono circa il 4% dei voti mentre crescono soprattutto i DS. Anche considerando le alterazioni indotte su questi risultati dalla presenza delle liste di Martinazzoli in Lombardia e di Cacciari in Veneto è evidente che risulta riconfermata la crisi dei democratici e invece risulta più significativa l’affermazione dei DS. Il voto a Rifondazione comunista è da questo punto di vista molto positivo perché nonostante le difficoltà del centro sinistra con cui era in coalizione in 14 regioni su 15, aumenta i propri voti (circa 100.000) e la propria percentuale (+0,6%). Nel frattempo la crescita nel centro destra è generale con una punta significativa di AN che registra un +2,7%. Mentre la lista Bonino subisce una vera a propria debacle perdendo ben il 6,5% di voti. Ne beneficia ovviamente in gran parte la destra che vede proseguire la tendenza già registrata sul medio periodo ad accrescere il proprio peso.
Il risultato di Rifondazione comunista
In questa situazione un’analisi più articolata sul voto a Rifondazione comunista si rende particolarmente interessante. Sulle dinamiche intervenute a seguito della scissione già si è detto. Si può aggiungere solo che certamente una parte della consistente riduzione di voti che si registra fra il ’95 e il 2000 si spiega con la nascita dei comunisti italiani e un’altra parte più consistente con il rifugio nell’astensionismo per una sfiducia circa l’utilità di un voto dato ad un partito che ha subito un duro colpo in termini organizzativi e che quindi appare in difficoltà sul piano della capacità di incidere. Gli elementi tuttavia più interessanti si registrano nel confronto di breve periodo. Rispetto alle europee del 1999 è evidente una ripresa di consensi. È il segno di un’inversione di tendenza tanto più importante se si tiene conto che si colloca in una fase difficilissima per il centro sinistra. Un altro elemento interessante è rappresentato dalla distribuzione territoriale del risultato. Si assiste, infatti, ad una crescita consistente nel centro nord cui si accompagna una flessione nel sud. Non solo, ma queste tendenze si presentano speculari a quelle dei comunisti italiani che perdono consensi nel centro nord e ne riacquistano in parte nel sud. Come interpretare questo risultato? Anche sulla base di altre verifiche che per comodità non valgono qui la pena essere riprese appare abbastanza evidente che la ripresa di RC si deve, sul piano territoriale, alle aree in cui maggiori sono i livelli di solidarietà e dove è più forte una cultura politica di sinistra (è il caso del risultato ottenuto nelle regioni rosse), sul piano sociale al consenso in crescita nelle fasce del lavoro dipendente e anche operaio (è indicativa la crescita al nord specie nelle grandi città come Milano, Torino e Genova) e, infine, sul piano politico alla capacità d’attrazione esercitata su pezzi di elettorato di sinistra (i DS ma non solo) mentre la ripresa nei confronti dell’area dell’astensionismo appare contenuta. Le difficoltà si registrano al sud dove, non a caso, è in ripresa il consenso alle formazioni di centro. Tutto ciò è assai indicativo di una difficoltà che il partito registra a penetrare in una realtà dove le logiche di scambio basate sulle pratiche clientelari segnano certamente una ripresa.
Da Prodi a D’Alema: la crisi di una strategia
Questi risultati elettorali assunti nel loro complesso ci dicono molto sulle tendenze affermatesi in questi anni nel corpo elettorale e contribuiscono ad individuare i principali nodi che si porranno in futuro. In primo luogo è evidente che la crisi del centro sinistra non è congiunturale ed ha una natura esplicitamente strategica, dovuta alla crescente disaffezione nell’elettorato democratico e di sinistra la cui responsabilità non può che essere ricercata nell’insoddisfazione per una politica del governo considerata deludente. Tale politica ha perseguito sostanzialmente tre obiettivi: assumere in proprio, anzichè contrastare, gli obiettivi della modernizzazione capitalistica in atto, accettando supinamente i dettami di Maastricht e i vincoli posti dalle alleanze internazionali, sposando la logica del primato dell’impresa, del ruolo di mera sussidiarietà dello stato nei processi di sviluppo (con il rifiuto esplicito di ogni ipotesi neo-keynesiana) e di riduzione dello stato sociale a elemento residuale; consolidare un rapporto privilegiato con i poteri forti garantendo non solo politiche neoliberiste ma facendosi garanti della pace sociale attraverso l’ingabbiamento del conflitto nelle logiche della concertazione; cercare di disgregare il blocco di destra agendo essenzialmente sul piano politico staccando dal polo alcune formazioni politiche attraverso cooptazioni nel governo e svolte confessionali e moderate nelle politiche o blandendo la lega attraverso operazioni istituzionali (l’assunzione della prospettiva federalista). È mia convinzione che questa strategia, oltre che riflettere una deriva politico-culturale che dalla Bolognina in poi ha interessato la principale forza della sinistra, si è fondata su alcune previsioni e cioè: l’idea che fosse possibile conciliare la svolta neoliberista con la rappresentanza dei tradizionali interessi popolari, che tale svolta avrebbe comunque potuto sottrarre consensi al blocco sociale della destra e che infine la prevista ripresa economica avrebbe potuto garantire il consolidamento di un nuovo aggregato sociale e politico a egemonia democratica. Orbene queste previsioni sono state smentite clamorosamente. Infatti:
a) L’assunzione di una prospettiva neo liberista ha determinato un allargamento della forbice fra fasce di reddito, ha contribuito a mantenere irrisolto il problema della disoccupazione, ha favorito l’ulteriore espansione di un precariato ricattabile e infine ha indebolito quelle garanzie rappresentate dallo stato sociale universalistico. Un pezzo di elettorato consistente che tradizionalmente gravitava nell’area di sinistra si è quindi autonomizzato, rifluendo nell’astensione.
b) Nello stesso tempo l’adesione iniziale di quote rilevanti dei poteri forti si è incrinata nel momento in cui la fase dell’emergenza del risanamento economico e finanziario è venuta meno con l’entrata dell’Italia nell’euro. La stessa pratica concertativa fra le parti sociali è venuta a perdere interesse, vuoi perché appunto è stata superata la fase più acuta della manovra per il risanamento dei conti dello stato, vuoi per i nuovi equilibri emersi in Confindustria con la nomina del nuovo presidente, espressione dell’emergere di una maggioranza imperniata su settori che fino ad oggi sono stati poco influenti sul piano politico (pensiamo alle piccole e medie imprese del nord o molte aziende del sud).
c) Infine, l’assunzione del federalismo come paradigma della riforma istituzionale non ha inciso significativamente negli orientamenti dell’elettorato leghista né ha potuto ostacolare la ripresa di un rapporto politico della stessa Lega col Polo. Dietro le pulsioni secessioniste della Lega, infatti, si celano interessi e culture obiettivamente molto più affini a quelle del centro-destra che del centro sinistra e in ogni caso il recupero di queste aree elettorali non passa tanto attraverso disegni istituzionali che semmai finiscono con il legittimare il collante ideologico della Lega. Non solo, ma l’orientamento assunto da tali disegni ha finito con l’indebolire ulteriormente la cultura democratica e progressista.
Gli obiettivi del governo Amato
A ben vedere, si è trattato di scelte riconducibili in ultima istanza al prevalere di una logica in larga misura politicista. Ora, il problema che si pone con urgenza per il centro sinistra è come rimontare questa china in vista dell’appuntamento elettorale del 2001. Non si tratta certamente di un’operazione facile e le probabilità che alla fine il centro destra prevalga restano concrete. In ogni caso il buon senso vorrebbe che si conducesse un’analisi impietosa del risultato elettorale e si voltasse pagina. Così però non è, o almeno questo si coglie dalle prime dichiarazioni rilasciate dagli esponenti del centro sinistra all’indomani delle elezioni e ancora di più dalle caratteristiche del nuovo governo. Sinteticamente, la linea che si sta affermando nel centro sinistra sembra poggiarsi su i seguenti assunti. La sconfitta non è legata all’orientamento neoliberista del governo, quest’orientamento, anzi, non può essere messo in discussione sia per i vincoli internazionali sia per la necessità di non entrare in conflitto con i poteri forti. Gli errori stanno semmai, da un lato, nel non aver assunto con più decisione la sfida dell’innovazione”, per esempio assumendo fino in fondo la prospettiva della flessibilità nel mercato del lavoro. Di qui la perdita di consensi al nord fra le fasce produttive. Dall’altro, nel non aver assecondato maggiormente le domande che venivano da alcune fasce sociali peccando in ultima analisi di “giacobinismo”. La rimozione di Berlinguer dalla scuola o della Bindi dalla sanità rispondono all’esigenza evidente di recuperare da un lato il consenso degli insegnanti e dall’altro dei medici. Infine, esisterebbe un limite politico rappresentato dal riemergere del fattore “K” emerso con l’investitura di D’Alema, figlio di un’esperienza comunista che ancora mette paura alle fasce moderate. Di qui la riproposizione di una linea di governo insieme moderata e clientelare che con ogni probabilità si rivelerà incapace di invertire la tendenza alla decomposizione del centro sinistra. In questo contesto si colloca la prova referendaria del 21 maggio. Da questo punto di vista, l’impegno profuso dai DS per la vittoria del si all’abolizione della quota proporzionale ha per molti versi del paradossale. Come ha sostenuto con ragione Sartori, se il si vincesse con ogni probabilità si consegnerebbe alla destra i 2/3 dei seggi della Camera. Perché dunque ci si accanisce a riproporre la stessa ricetta istituzionale?
Essenzialmente per due motivi. Da un lato il tentativo di usare il referendum come occasione di rivincita contro la destra, una sorta di riscossa sul piano politico dopo la debacle su quello sociale. Dall’altro, ed è a mio avviso il vero motivo, la necessità di irreggimentare la coalizione del centro sinistra entro una camicia di forza istituzionale per impedirne la definitiva esplosione. È del tutto evidente, infatti, che la tendenza alla disarticolazione del centro sinistra sono via via più forti e dopo un’eventuale sconfitta dei referendari sarebbe ben difficile trattenere parti delle forze di centro dall’essere attratte inesorabilmente dalle sirene di Berlusconi.
Per una battaglia di opposizione
Se queste sono le previsioni politiche a breve e medio periodo quale deve essere il ruolo di Rifondazione comunista? In primo luogo, tutte le riflessioni precedenti conducono ad una conclusione: la crisi probabilmente definitiva del disegno strategico del centro-sinistra e l’affacciarsi della prospettiva della sua tendenziale dissoluzione come alleanza. Questa previsione certamente non va interpretata in maniera deterministica. Ad ogni modo è evidente che tale prospettiva apre una possibilità di grande interesse con la ricostruzione di un dialogo con la sinistra moderata e la ridefinizione di una “sinistra plurale”. Ma perché ciò si verifichi vi è bisogno che si producano fatti concreti. La prima condizione è che si produca nel Paese una battaglia di opposizione da sinistra al governo Amato. Tale battaglia, da un lato, implica la lotta contro i prevedibili orientamenti del governo e cioè: il proseguimento annunciato della politica di privatizzazione, il possibile intervento sul sistema pensionistico, l’introduzione di ulteriori elementi di flessibilità sul mercato del lavoro, il dissesto ambientale provocato da scelte sbagliate in tema di grandi opere pubbliche, la continuazione dell’attacco allo stato sociale attraverso una prevedibile svolta moderata in tema di sanità, il sostegno dei progetti di parità scolastica, la riduzione dei finanziamenti agli enti locali, Dall’altro, l’assunzione di alcuni temi sociali centrati su un forte processo redistributivo e sulla lotta a disoccupazione. Si pensi alle proposte già avanzate sull’elevamento delle pensioni più basse, sull’introduzione di un salario sociale, sulle garanzie per il lavoro precario, sul rilancio de programmi di sviluppo nel mezzogiorno. Tuttavia, perché tale battaglia incida occorrono almeno due condizioni: la prima è che essa assuma un profilo positivo e cioè che marchi risultati producendo svolte tangibili; in secondo luogo, e strettamente intrecciato a questo, che trovi interlocutori a livello sociale. Sul primo terreno una possibilità concreta è data dall’esiguità e dalla precarietà dell’attuale maggioranza di governo, oltre alle contraddizioni anche sul piano politico che la attraversa. Tuttavia non va dimenticato in questo contesto il valore positivo che può assumere un’iniziativa parallela sul fronte dei governi locali e in particolare di quelli regionali. Qui davvero vi sono possibilità di azione concrete, vuoi dove assieme al centro sinistra ci collochiamo all’opposizione di coalizioni di centro-destra, vuoi dove governiamo assieme al centro sinistra. A questo livello è possibile esaltare un nostro ruolo di punta definendo piattaforme avanzate, terreno di iniziativa politica sulle quali costruire un rapporto sociale e sfidare positivamente il centro sinistra. Un terreno tanto più importante perché può favorire l’apertura di contraddizioni positive con l’attuale quadro politico. Sul secondo terreno è del tutto evidente che la questione del sindacato assume una rilevanza centrale. La permanenza di una logica concertativa con tutto quello che ne è derivato in termini di perdita di potere dei lavoratori nei luoghi di lavoro e di peggioramento delle condizioni di lavoro costituisce oggi uno degli elementi più negativi nella prospettiva di una svolta politica. Il tema che si ripropone è quello dello sviluppo di una sinistra sindacale interna ed esterna alle organizzazioni confederali. In questo contesto con l’approssimarsi dell’appuntamento congressuale della CGIL la partita si gioca sulla effettiva volontà di aprire uno scontro politico. La stessa costruzione di una sinistra sindacale nella CGIL deve fare oggi i conti con un equilibrismo fra aree che ne ha di fatto impedito l’affermazione come soggetto politico. C’è da chiedersi a questo punto se questa costruzione non debba essere sostenuta attraverso un processo dal basso che poggiandosi su avanguardie di fabbrica e sulle fasce più combattive del sindacato rompa una paralizzante logica pattizia.
La valenza strategica della battaglia contro i referendum
In questo percorso è del tutto evidente che la vicenda referendaria assume un rilievo eccezionale. È ormai ampiamente acquisito il significato regressivo dell’operazione tentata dallo schieramento referendario sul piano sociale con l’eliminazione della giusta causa nel caso dei licenziamenti e su quello politico con l’attacco alla quota proporzionale. Ora, è del tutto evidente che esiste un intreccio strettissimo fra l’insieme dei quesiti referendari per la comune ispirazione all’eliminazione di ogni manifestazione di conflitto sul piano sociale e istituzionale. Tuttavia, questa operazione regressiva è oggi utilizzata da parti del centro sinistra e in modo particolare dai DS per ottenere una rivincita sullo schieramento di centro-destra, ma soprattutto per ingabbiare la propria alleanza in uno schema istituzionale che ne impedisca la deflagrazione. Da questo punto di vista il pronunciamento per il no al quesito sui licenziamenti da parte della CGIL se dal punto di vista formale appare del tutto legittimo, da quello sostanziale costituisce lo strumento per sostenere l’operazione promossa dai DS sul piano politico. Per queste ragioni i referendum vanno battuti complessivamente e quindi attraverso lo strumento dell’astensione. Non è solo in gioco la sopravvivenza di Rifondazione comunista a livello parlamentare, quanto il prodursi di un assetto politico che inevitabilmente alimenterebbe il moderatismo. Per questo quella parte del sindacato che si propone di determinare una svolta nelle politiche confederali, e mi riferisco in primo luogo alla sinistra CGIL, dovrebbe riflettere attentamente sulla propria collocazione in occasione del referendum. Se un’indicazione per il no tutelerebbe tale area sul piano istituzionale nel sindacato evitando uno scontro aperto con la maggioranza ed un impegnativo dibattito con i lavoratori, tuttavia sul piano strategico le cose stanno diversamente perché da una vittoria dei referendum sulla legge elettorale o sul finanziamento pubblico ai partiti trascinata dal no al quesito sui licenziamenti verrebbe inevitabilmente una forte spinta al collateralismo fra CGIL e DS con quello che ciò comporterebbe sul piano delle prospettive di recupero dell’autonomia sindacale. Non solo, l’eventuale sconfitta dell’insieme dei referendum riaprendo la partita sul sistema elettorale depotenzierebbe la spinta al bipolarismo, sarebbe una leva potente per favorire una nuova dialettica nel centro sinistra e libererebbe forze per una prospettiva di alternativa. Un nuovo corso potrebbe quindi aprirsi nella stessa sinistra moderata, evento che allo stato attuale rappresenterebbe una delle poche possibilità di ripresa di un fronte democratico e progressista.
Il ruolo di Rifondazione comunista
Questi processi per essere attivati hanno bisogno di un soggetto. C’è da chiedersi a questo punto a quali condizioni Rifondazione comunista possa svolgere efficacemente un ruolo così complesso e ambizioso. Preliminarmente, va sottolineato il fatto, richiamato nell’analisi iniziale del risultato elettorale, che da questa prova elettorale esce rafforzato il ruolo dei partiti “pesanti”. Non è un caso che i migliori risultati si abbiano a sinistra da parte di Rifondazione e dei DS e a destra da Alleanza nazionale. Non solo, si deve anche sottolineare come, specialmente a destra, anche un partito per sua natura mass mediatico come Forza Italia stia costruendosi volutamente come partito di massa perfino nelle sue pratiche politiche e nel modello organizzativo. Sarebbe ben curioso pertanto che proprio ora Rifondazione comunista perdesse la sua ispirazione a diventare un partito comunista di massa ben strutturato. Certo fra il proporsi di diventarlo e l’esserlo effettivamente c’è una bella differenza e da questo punto di vista sorgono i primi problemi. Tuttavia, dopo queste elezioni, si riaffacciano delle possibilità legate in primo luogo al radicamento nel lavoro dipendente e in secondo luogo all’attrazione di forze militanti presenti nella sinistra moderata e nell’area sindacale attraversate da una crisi reale. Il punto tuttavia più delicato è quello della pratica politica che sta all base della capacità di attrazione. Il limite più grande che oggi incontra il partito è di un ripiegamento autoreferenziale e dell’incapacità a penetrare a livello sociale. Sotto questo profilo una riforma del modo di essere del partito si impone almeno a tre livelli.
1. Innanzi tutto va superata una pratica che concepisce la gestione delle proposte generali come attuazione spontanea di una linea. In realtà le proposte avanzate centralmente vanno gestite attraverso campagne organizzate attraverso un forte ruolo propositivo e di stimolo delle strutture centrali e verificati nella loro attuazione.
2. In secondo luogo, data la centralità che assumono e assumeranno sempre più le regioni, occorre andare verso un effettivo potenziamento delle strutture regionali del partito definendo programmi di iniziativa politica costruiti favorendo una articolazione territoriale efficace in grado di mobilitare fasce sociali e favorire l’emergere di movimenti (attraverso proposte di legge di iniziativa popolare, referendum, piattaforme di lotta, ecc.).
3. In terzo luogo, va ripensato il ruolo delle presenze istituzionali che rappresentano in sé una forza significativa del partito ma che in gran parte restano inutilizzate o male utilizzate. Qui davvero si rende necessaria una saldatura piena fra eletti e organismi dirigenti a tutti i livelli. Inoltre il ruolo dell’eletto va sempre più concepito come quello di un dirigente politico che assume come priorità la costruzione dell’iniziativa politica e sociale del partito e il consolidamento organizzativo dello stesso.
Rifondazione comunista e la sinistra di alternativa
Alla base del rinnovato interesse per il rafforzamento di una sinistra critica, anticapitalista e di alternativa nel nostro paese stanno due fatti: da un lato, l’emergere di realtà che esprimono un dissenso nei confronti del governo; dall’altro, l’evidente sproporzione fra le forze che Rifondazione comunista è in grado di mettere in campo e il progetto ambizioso che si propone di conseguire. La costruzione di una sinistra di alternativa potrebbe quindi consentire, da un lato, di non disperdere delle energie e, dall’altro, di fornire una massa critica ad una battaglia di opposizione. Si tratta di argomenti seri che non vanno sottovalutati e che meritano un adeguato approfondimento a partire da un interrogativo fondamentale: cos’è oggi la sinistra critica, quali orientamenti politici e quali obiettivi la contraddistinguono, quale è il mezzo migliore per accrescerne l’incidenza?. Innanzi tutto mi pare evidente si tratti di una presenza eterogenea, composta da realtà politiche in senso lato (qualche giornale come il manifesto), da qualche associazione, da nuove realtà giovanili come i centri sociali. Esistono, inoltre, altre espressioni come quelle che convivono all’interno di alcuni partiti (penso alla sinistra Ds, a settori critici dei verdi, o a aree del PDCI che vivono con disagio la loro nuova collocazione), realtà interessanti ma, ovviamente, non immediatamente aggregabili in programmi di iniziativa politica comune. Queste presenze sono eterogenee non solo in ragione delle loro storie o dei loro campi di azione ma anche dell’atteggiamento politico di fondo e delle pratiche politiche che le contraddistinguono. I centri sociali si concepiscono come forme di autorganizzazione, non disdegnano i rapporti istituzionali quando possono consentire loro una agibilità di iniziativa , si fanno spesso teorizzatori di un municipalismo federalista,; certe associazioni anche impegnate in battaglie pienamente condivisibili, per esempio sul tema della pace, raggruppano soggetti anche culturalmente molto diversi e sono molto sensibili alla salvaguardia della loro identità, infine certi organi di stampa hanno assunto un ruolo politico in senso stretto manifestando in taluni casi posizioni anche molto diverse da quelle di Rifondazione. È del tutto evidente che riuscire a stabilire una convergenza con queste realtà su una serie di questioni politicamente decisive sarebbe importante. Il problema tuttavia è come farlo. E qui sorge la questione della nascita di un “polo” o più concretamente della praticabilità di certe proposte organizzative che alludono esplicitamente alla costituzione di una nuova formazione politica della sinistra. Ebbene a me pare che tali proposte non rispondano alle esigenze che vi sono e rischino invece di ottenere risultati opposti. Date le differenti esistenti prima richiamate vi è infatti il rischio di dar vita a nuove formazioni deboli dal punto di vista progettuale, unificate più sui dissensi che non sulle proposte e quindi poco credibili. Non solo, vi è anche il rischio che, alla prova dei fatti, ciò si traduca nell’unificazione, da un lato, di ceti politici e, dall’altro, nella crisi dell’unico soggetto organizzato oggi presente in questa galassia che è Rifondazione comunista. Pertanto, anziché pensare di superare la parzialità di tante esperienze attraverso strette organizzative artificiose, penso sarebbe molto più produttivo, sulla base di piattaforme di iniziativa condivise, produrre fatti politici concreti e promuovere un dibattito serio che faccia crescere elementi di progetto comune. È una strada più lunga ma più promettente. Una volta tanto, vale forse la pena assumere le differenze come una potenzialità e metterle effettivamente a valore esaltando il ruolo delle singole identità all’interno di una pratica comune.
(11 maggio 2000)