L’epoca della globalizzazione vede ormai uno scontro aperto in particolare fra i due maggiori poli imperialisti che attraverso il ruolo della “Global NATO”, cercano di estendere il dominio del “Profit State Globale” al mondo intero e in particolare su quelle aree ad interesse strategico, in particolare l’Europa centro-orientale e l’area asiatica dell’ex Unione Sovietica, allargando l’ambito di intervento della NATO al fine di comprimere le ambizioni di superpotenza della Russia e l’eventuale costruzione del temibilissimo polo russo-cinese-indiano. L’obiettivo primario del “Profit Global NATO” è quello di imporre, con le buone o con le cattive, la dottrina di dominio della “stabilità politico-economica internazionale”, dopodiché si tireranno i conti interni per la supremazia di uno dei due poli imperialisti, l’UE o gli USA. Il rapporto tra capitale trasnazionale e aree di influenza diverse, e addirittura singoli paesi, è determinato dalla nuova divisione internazionale del lavoro e quindi da come le singole economie nazionali si collocano in funzione dell’allargamento e della ridefinizione dei poli imperialisti. In effetti i fenomeni di interconnessione tra specifiche economie nazionali attuate attraverso l’esportazione dei capitali dando cioè vita al mercato internazionale dei capitali, è una realtà che dura da oltre un secolo. Quello che di nuovo sta succedendo è il ruolo assunto dagli investimenti finanziari, in particolare quelli a carattere speculativo, e dal vertiginoso aumento degli IDE (investimenti diretti all’estero), favoriti da una forte liberalizzazione e movimentazione sul mercato internazionale e dai forti legami del capitale internazionale diretti da un unico progetto di pianificazione strategica centralizzata. Ciò porta una sorta di apparente processo di determinazione monopolistica del capitale che se in un qualche senso può essere utile ai grandi potentati del capitalismo finanziario porta però ad una forte competizione tra i grandi potentati oligopolistici soprattutto del capitale industriale. Più si allargano i contesti territoriali della globalizzazione più la guerra tra i capitali aumenta, anzi assume la forma di guerra economica fra capitale finanziario e capitale industriale-produttivo, tra capitali che controllano i vari settori economici-produttivi, oltre alla secolare guerra tra paesi e poli imperialistici diversi.
Necessaria un’analisi su più livelli
La guerra economica di controllo globale, e anche di scontro USA e UE inizia da anni, ormai, sul terreno delle modalità, quantità, qualità e dinamiche geografiche degli investimenti, su un terreno geoeconomico di scontro interimperialista. Partendo da questo punto di vista la mondializzazione imperialista deve essere studiata con strumenti analitici che consentano di fare un’analisi su più livelli, che risultino interconnessi, ma analiticamente distinti. Il primo livello si riferisce alla categoria del capitale e quindi degli investimenti , poiché determinati e determinanti l’accumulazione come processo-entità volto all’autovalorizzazione del capitale e alla determinazione dei rapporti sociali che si basano sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Il capitale-investimento deve essere pensato come unità differenziata e gerarchizzata, che include immediatamente il capitale produttivo (quindi anche gli IDE), il capitale commerciale e il capitale-denaro (o investimento finanziario). Al contempo bisogna inoltre evidenziare che il fenomeno dell’internazionalizzazione si attua attraverso il commercio internazionale e l’investimento diretto produttivo all’estero (IDE), con il quale una determinata impresa assume le caratteristiche di multinazionale creando o acquistando filiali di produzione in diversi paesi (1). Attualmente, l’effetto combinato della divisione dei mercati solvibili a livello internazionale, della tecnologia contemporanea e del nuovo regime giuridico degli scambi internazionali e dei movimenti di capitale, determinano i tassi di rendimento e dunque la scelta della localizzazione degli investimenti, che assumono pertanto la configurazione di investimento produttivo, cioè di investimenti diretti all’estero (IDE), che vengono attuati in pratica da quelle imprese che vogliono localizzarsi in altri paesi attraverso la creazione di un nuovo stabilimento produttivo o acquisendo le quote di partecipazioni di società già esistenti (2), per poi far sì che gli utili realizzati vengano indirizzati all’investimento finanziario, a più facili profitti e immediatamente disponibili come massa-denaro virtuale capace di destabilizzare l’economia, o meglio di imporre la “stabilità” voluta dall’imperialismo. Tale meccanismo imperialista si afferma definitivamente alla fine degli anni ottanta quando si è potuto delineare un sistema centrale più esteso ed interdipendente del capitalismo, rispetto agli anni ‘60-‘70, la cui funzione primaria è di far progredire la strategia concorrenziale globale al fine comunque del dominio imperialista. Questo modello raggiunge il suo scopo attraverso l’organizzazione della produzione interna ai paesi a capitalismo avanzato e delle più efficaci strategie tecnologiche di produzione e di commercializzazione, e grazie alla natura e alla forma delle relazioni stabilite con altre aree a medio o basso livello di sviluppo. Evidentemente le multinazionali di nuovo stile sono dei gruppi finanziari a dominante industriale e con una loro capacità esclusiva di accedere a pieno diritto ai mercati finanziari, sia per piazzare i loro titoli sia per operare come investitori. Tale cambiamento ha importanti conseguenze sull’accrescimento qualitativo e nel livello finanziario dei gruppi multinazionali che adottano questa nuova forma, divenendo gruppi finanziari di più alto livello con dominante industriale, ma con un’attività sempre più importante come operatori sui mercati finanziari e dei cambi. Emergono le formazioni industriali a “rete”, caratterizzate dal moltiplicarsi dei partecipanti minoritari e all’affiancarsi di numerose imprese legate a partners aventi una potenza economica spesso fortemente ineguale. Questa evoluzione ha avuto come effetto quello di rendere le “frontiere dell’imperialismo” più legate all’origine di un importante processo di interferenza tra il profitto e la rendita finanziaria.
I sussulti monetari e finanziari
Una parte dei risultati dell’impresa globalizzata corrisponde a dei prelievi sul surplus di altre imprese, a degli sconfinamenti sulla loro catena di valori produttivi a vantaggio di quelli finanziari. In tale scenario si sviluppa il quadro macroeconomico mondiale degli anni ‘90 contemporaneamente caratterizzato da tassi di crescita molto deboli del PIL, compresi i paesi come il Giappone che hanno svolto una funzione trainante nei confronti del resto dell’economia mondiale; una deflazione crescente; una congiuntura mondiale estremamente instabile, inframmezzata da sussulti monetari e finanziari; aumento di investimenti che si accompagna alla crescita della disoccupazione di massa e la sua natura tecnologica e strutturale coniugata al contenimento dei salari reali, da flessibilità e precarizzazione del lavoro e condizioni del lavoro medievali in molti paesi in cui la manodopera viene sfruttata all’estremo. Si determina così l’accentuarsi delle diseguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo maturo che si accompagna alla marginalizzazione di intere regioni del globo dal sistema di scambi e ad una concorrenza internazionale sempre più intensa. Nel caso dei paesi OCSE, circa i tre quarti delle operazioni d’investimento all’estero hanno preso la forma di operazioni di acquisizione e di fusione di imprese esistenti, ovvero di cambiamento di proprietà del capitale esistente, spesso seguiti da ristrutturazioni di processo e di prodotto che hanno determinato disoccupazione senza creazione di mezzi di produzione nuovi e laddove ci sono stati investimenti produttivi questi non hanno necessariamente diminuito la disoccupazione, anzi il contrario. In molti mercati, i tassi di concentrazione mondiale sono dunque analoghi a quelli di trent’anni fa tipici delle economie chiuse. La priorità nelle operazioni di acquisizione e di fusione di imprese esistenti concerne anche gli investimenti al di fuori dell’OCSE, alla ricerca di concentrazioni compatibili ai movimenti internazionali del capitale finanziario. Su scala internazionale, il paesaggio industriale contemporaneo è dominato dai grandi gruppi dell’industria manifatturiera, anche se subiscono una rivalità molto forte da parte dei grandi gruppi della distribuzione concentrata; comunque le modalità di accumulazione del sistema dipendono da meccanismi all’interno dei settori finanziari ai quali l’investimento industriale si è momentaneamente adattato e sottomesso, anche se si comincia ad intravedere un conflitto intercapitalistico per il ritorno al predominio caratterizzante dell’investimento produttivo. Infatti, terminato il processo di fusioni lunghe e complesse, le grandi imprese multinazionali USA ed europee concentrano nelle loro mani attività strategiche decisive. Oltre l’80% delle spese di ricerca e sviluppo del settore delle imprese dei paesi dell’OCSE vengono effettuate in società classificate come grandi imprese; anche nei paesi in cui le piccole e medie imprese sono forti, la loro esistenza dipende in gran parte dagli sbocchi che vengono loro offerti dai grandi gruppi. A differenza del passato si assiste oggi ad una diffusione anche nelle piccole e medie imprese di quegli elementi che maggiormente riescono ad agire ed influenzare le decisioni imprenditoriali a carattere strategico, come la disponibilità e la speculazione su fattori di capitale finanziario, le risorse umane qualificate, i processi di delocalizzazione produttiva e la esternalizzazione di fasi del ciclo alla ricerca di sempre più bassi costi del lavoro, la disponibilità di infrastrutture e servizi di alta qualità, la valorizzazione dell’informazione, della comunicazione e di tutte le risorse del capitale immateriale. Si arriva, così, al di là delle diversità attuative tra poli imperialisti, ad un nuovo modo di attuare i meccanismi di accumulazione, oggi basata certamente su connotati finanziari e sugli investimenti in immobilizzazioni immateriali, ma anche alla ricerca di nuovi sbocchi per gli investimenti produttivi funzionali al paradigma dell’accumulazione flessibile e della produzione snella. Questi elementi devono essere interpretati come l’avvisaglia della maturità di un grande regime di accumulazione mondiale nuovo a carattere flessibile, il funzionamento del quale è sottomesso alle esigenze e alle priorità del capitale finanziario privato altamente concentrato, ma essendo alla ricerca di “stabilità” politico-economica e di sempre nuove aree di intervento ha comunque bisogno di rigenerare investimenti produttivi. Tutto ciò ha determinato e sta oggi maggiormente determinando seri conflitti geoeconomici e commerciali tra le grandi potenze triadiche (Usa, Giappone, Unione europea).
La geoeconomia dell’imperialismo moderno
I processi di globalizzazione dell’economia e loro finanziarizzazione, le nuove forme di accumulazione flessibile e la turbolenza dei mercati diventano, come si è visto, fattori di estrema importanza e capaci di influenzare fortemente i processi decisori in materia di creazione di valore degli investimenti e dell’accumulazione complessiva; ed è ovvio che la competizione tra dollaro ed euro si giochi su questo piano strategico terreno di guerra economica all’interno del grande impero “Profit Global NATO”. La crescente integrazione dell’economia mondiale, fenomeno ormai diffuso con il nome di “globalizzazione”, si esplica, come si è visto, attraverso vari canali: il commercio con l’estero, la produzione transnazionale, i movimenti di capitale. All’interno di questi ultimi gli investimenti diretti (IDE) tornano ad un’importanza notevole, poiché in quanto investimenti a carattere produttivo costituiscono la principale manifestazione delle attività delle imprese al di fuori del proprio paese di origine, e quindi esplicitano i processi dinamici dell’accumulazione reale dei poli imperialistici. In Europa, in particolare, l’attività di investimento diretto ha mostrato una fortissima accelerazione dalla metà degli anni ottanta, in concomitanza con l’avvio del processo di integrazione economica messo in atto dal mercato unico, con forti finalità competitive nei confronti degli USA. Il peso assunto dall’UE in relazione agli altri paesi del mondo è stato sicuramente il motivo dell’allargamento della “Global NATO” in un quadro internazionale, allargamento che si esplica come controllo mondiale sottoposto ad una egemonia politico-militare degli USA rispetto all’UE, egemonia che però non ha più l’esclusività anche sul piano economico, grazie al ruolo europeo assunto nel fenomeno dell'”internazionalizzazione”, in particolare attraverso la crescita degli investimenti diretti, anche se la partecipazione dei paesi europei non risulta omogenea; alcuni paesi partecipano attivamente e dinamicamente alla determinazione in aumento degli IDE in uscita, altri sembrano essere quasi assenti. Durante gli anni’90 la brusca frenata registratasi nella crescita degli investimenti diretti internazionali si è accompagnata, in Europa, dalle aspettative sull’Unione Europea e dai processi di intensa riconversione produttiva orientata verso un terziario implicito ed esplicito e da una riorganizzazione nella struttura proprietaria del capitale delle imprese. Dal 1990 le scelte geoeconomiche hanno modificato la ripartizione territoriale degli IDE: precedentemente quasi tre quarti di quelli effettuati dall’Unione Europea avevano come destinatario gli Stati Uniti; ora l’ammontare complessivo è destinato principalmente ai paesi del Terzo Mondo, ma in forte crescita sono anche quelli verso i paesi a medio livello di sviluppo, tra i quali assumono sempre più importanza i paesi dell’Europa dell’Est, confermando i processi delocalizzativi in aree a basso costo del lavoro e delle risorse in genere. In entrata dei maggiori paesi dell’UE si registra una più significativa presenza dei flussi di investimento provenienti dagli USA che puntano fortemente al condizionamento dell’economia europea temendo il ruolo che potrà assumere l’euro come valuta anche di riserva in ambito internazionale. Per quanto riguarda gli investimenti intra europei, questi sono in una fase di crescita notevolmente più rapida rispetto a quelli effettuati dall’Europa verso l’estero; fenomeno dovuto principalmente ai processi di ristrutturazione con fusioni e processi di concentrazione messi in atto dalle imprese europee, anche in questo caso seguendo itinerari verso paesi europei con basso costo del lavoro ma a buon livello di specializzazione.
Come si può rilevare dal grafico (vedi a pag. 27), nel corso degli anni’80 e dei primi anni ’90 il movimento internazionale dei capitali ha subito un’estensione veloce se rapportata a quella del commercio mondiale. Questo processo ha determinato un ritorno all’investimento produttivo in maniera decisa seppur nel contesto di globalizzazione finanziaria che oggi viviamo. Tale contesto di finanziarizzazione dell’economia è stato voluto ed agevolato dalle grandi strutture del capitalismo internazionale, dai poli imperialisti per superare la crisi di accumulazione di fine era fordista ed è stato realizzato attraverso i rilevanti cambiamenti strutturali imposti all’interno dei mercati finanziari con una liberalizzazione crescente favorita dall’abolizione dei controlli sul mercato dei cambi e sulla deregolamentazione delle operazioni finanziarie e con tassi di investimenti fissi sempre più ridotti a favore degli investimenti finanziari, spesso a carattere speculativo.
Il grande capitale e il suo gendarme NATO
Questi fenomeni si sono sviluppati di pari passo con la significativa partecipazione alla globalizzazione, attraverso quella dottrina di “stabilità politico-economica internazionale” che viene adattata di volta in volta dai poli imperialisti per ricondurre a proprio vantaggio le crisi locali o meglio per mantenere uno status quo funzionale agli interessi del grande capitale e del suo gendarme NATO. Ma la diversità quantitativa, qualitativa e le scelte geoeconomiche accompagnate alle determinanti geopoliche, hanno acutizzato la guerra economica fra il polo imperialista USA e quello europeo per imporre, in particolare dagli anni ’90, l’egemonia internazionale e la priorità di scelta nella determinazione delle aree di influenza e di dominio. La nascita del mercato unico dei capitali e dei servizi finanziari in Europa ha agevolato anche un rilevante incremento degli investimenti esteri attraverso numerosi processi di ristrutturazione d’impresa con caratteri di internazionalizzazione delocalizzativa, alla ricerca di costi più bassi in particolare per quanto attiene il fattore lavoro, e attraverso fusioni e processi di concentrazione orientati ad un’alta competitività concorrenziale rispetto ai poli capitalistici giapponese e statunitense. Lo stesso afflusso di capitali ha registrato, inoltre, un considerevole aumento rispetto a quello rilevato negli Stati Uniti e in Giappone, mettendo in risalto il crescente potere attrattivo acquisito dall’Europa nei confronti degli investitori esteri. Allo stesso tempo l’Europa viene anche considerata un’esportatrice importante di capitali destinati agli investimento diretti (più di tre quarti di quelli effettuati dalla Unione Europea sono destinati ai paesi industrializzati occidentali); infatti nel 1988 il loro ammontare risultava essere molto vicino a quello realizzato in Giappone, il quale, a partire dagli anni’80, si era collocato in vetta alla classifica degli investimenti internazionali (essi si sono quadruplicati tra il 1984 e il 1988) pur essendo un paese a bassa attrattività di capitali. Nel 1996 nei paesi asiatici si è avuto un sostanziale incremento degli investimenti in entrata (29.2%) e in uscita (10.3%), mentre nel 1997 non si erano ancora rilevati gli influssi della crisi del Sud Est asiatico, contrariamente a quanto è accaduto agli investimenti finanziari che hanno registrato un rapido decremento. La causa è da ricercare nella natura degli investimenti diretti che mettono in essere rapporti di medio-lungo termine con i paesi beneficiari. Completamente diversa è la situazione della Cina, la quale ha attratto un alto volume di flussi diretti in entrata (3). Nell’Europa dell’Est si sono registrate flessioni negli afflussi di capitale, soprattutto in Ungheria, nella Repubblica Ceca e nella Federazione Russa; solo la Polonia ha fatto rilevare un incremento importante nei flussi del 1996. I flussi mondiali di IDE dopo il calo congiunturale del 1996 hanno raggiunto nel 1997 e 1998 livelli mai toccati in precedenza, soprattutto per le scelte delle multinazionali in funzione dell’aggiornamento e della riconversione legati allo sviluppo tecnologico, all’internazionalizzazione dei mercati e ai processi di liberalizzazione. Nel 1997 i flussi degli IDE in uscita hanno superato i 420 miliardi di dollari con un tasso di crescita medio annuo registrato in tutti gli anni ’90 sempre significativamente più alto a quello registrato a livello internazionale dal PIL, dagli investimenti interni lordi e dalle esportazioni. Nel 1997 lo stock degli IDE in rapporto al prodotto lordo mondiale ha toccato l’11% e per valutare tale percentuale si pensi che solo nel 1980 il rapporto segnava il 5%. Se è vero che i flussi degli IDE in uscita riguardano ancora per l’85% i paesi a capitalismo maturo (in particolare Stati Uniti, Regno Unito, Giappone, Germania e Francia) va comunque segnalato il livello record che nel 1997 hanno raggiunto gli IDE in uscita dei Paesi in Via di Sviluppo (61 miliardi di dollari). Si consideri infine che gli IDE affluiti ai Paesi in via di sviluppo continuano ad aumentare in questi ultimi anni toccando nel 1997 i 150 miliardi di dollari, rappresentando il 38% di tutti i flussi IDE internazionali in entrata. Tra le aree che negli ultimi quattro, cinque anni hanno registrato notevoli incrementi di flussi IDE in entrata si possono segnalare in particolare la Cina e l’America Latina. Per quanto riguarda gli IDE intraeuropei questi giungono a 115 miliardi di dollari nel 1997 con un significativo incremento negli ultimi anni. Va segnalato infine l’enorme salto degli IDE verso l’Europa centro-orientale che nel 1997 raggiungono 18 miliardi di dollari, cioè quattro volte e mezzo in più dei flussi registrati nel 1992. Sono questi i dati statistico-economici che evidenziano come la guerra economica interimperialista stia riassumendo le forme di forte caratterizzazione basata sull’investimento produttivo, anche se estero, come ritorno ad una riaffermazione del capitale industriale su quello finanziario.
Note
1) Questa formula di investimento fa fronte a diverse esigenze quali:
• “l’impossibilità a produrre quantità sufficienti nel paese d’origine, in particolare per quanto riguarda il settore primario, per ragioni legate alla scarsità delle risorse naturali;
• impossibilità a vendere quantità sufficienti nei paesi di destinazione per motivi sia di natura stessa dei prodotti sia di barriere protettive;
possibilità di beneficiare dei vantaggi comparati macroeconomici dei paesi di insediamento, in particolare nei Paesi in Via di Sviluppo, che presentano generalmente bassi costi salariali”. cfr. G. Lafay, Capire la globalizzazione, il Mulino, Bologna 1996. Pag. 40, 41.
2) In altre parole “questo tipo di investimento si effettua allo scopo di acquisire il potere decisionale in un’impresa estera. Esso comprende nuovi impianti, fusioni, acquisizioni correnti tra le società madri e le loro filiali all’estero, inoltre una parte di tale investimento può assumere la forma di acquisto di quote del capitale di società. Cfr. Eurostat, L’Europa in cifre, terza edizione. Pag. 241.
3) “La liberalizzazione del regime degli investimenti in alcuni settori e i recenti sforzi del Governo per promuovere gli investimenti nelle provincie centro orientali, costituiscono ulteriori elementi di attrazione degli investimenti diretti in tale Paese”; cfr. ICE, Rapporto sul Commercio Estero: Sintesi e prime valutazioni. 1998. Pag.17.