Io ero informata della protesta fin dall’inizio, non solo per i volantini che sono stati distribuiti. Ogni lunedì o mercoledì io andavo in Questura con i ragazzi senegalesi per fare da mediatore linguistico. Ogni volta non c’erano risposte, “il mese prossimo, il mese prossimo” dicevano i poliziotti, e anch’io – anche se ho il permesso di soggiorno mi stancavo di vedere che questa gente non ci dava spiegazioni. Non era possibile sapere per quale motivo i ragazzi non avevano preso il permesso di soggiorno. Io vivevo tutto questo con loro, tutti i giorni, sentivo la stanchezza, l’esasperazione, l’incomprensione da parte loro. Io questa mia attività di mediatore linguistico la faccio anche da volontario, sono ragazzi che non hanno soldi perché sono clandestini o lavorano saltuariamente. Io comunque andavo sempre in Questura con loro. Noi ogni volta volevamo fare qualcosa. A maggio l’esasperazione è arrivata al punto culminante, non si poteva più andare avanti, si voleva fare qualcosa. Così abbiamo fatto la manifestazione del 20 maggio e i ragazzi dei Pakistan hanno lasciato detto a tutti che il 22 iniziavano lo sciopero della fame. Io ho detto subito: “Andrò con loro insieme alle mie amiche” perché so che lo sciopero della fame è molto duro. Io faccio il Ramadan e so che saltare i pasti per un giorno è molto duro. E fare lo sciopero della fame è ancora più duro. Dunque ho deciso di aderire con le mie amiche, a fianco dei ragazzi pakistani. Abbiamo iniziato proprio come donne senegalesi, io e le mie amiche Seybatou e Coumba (lei ha una bambina di sei mesi che si chiama Sokhna). Loro due non hanno il permesso di soggiorno, dunque vivevano la stessa situazione dei pakistani. Io ho deciso per ragioni di solidarietà, ho pensato che facendo lo sciopero della fame con loro potevo vivere le cose realmente come loro. In questi casi non puoi andare e parlare per conto di chi fa lo sciopero, mentre tu intanto hai lo stomaco pieno. Poi ho pensato che se vedono che anche le donne ce la fanno, loro andranno avanti più facilmente, senza arrivare a qualche estremo. Insomma era un modo per incoraggiarli e dare loro solidarietà.
Un ponte fra i continenti. Con i pakistani non ci sono state barriere. È strano. Però io dico sempre che abbiamo una cosa in comune, e cioè che siamo immigrati. Già questo fatto ci unisce. I pakistani erano qua, seduti, e vicino a loro c’erano quelli dell’India. È strano perché la mattina quando sono passata ho trovato un ragazzo del Pakistan seduto per terra. E quando poi sono ripassata erano venuti altri, e tutti si sedevano così intorno intorno. Dalla mattina alla sera ho visto questa gente aumentare di numero. Erano lì, tanti e tanti, decisi, e poi – un’altra cosa che mi ha colpito – silenziosi, decisi ma determinati. Questo fatto m’ha colpito molto. E poi mi sono seduta vicino a loro con le mie amiche e abbiamo aspettato. Abbiamo aspettato e poi alla fine sono arrivati i poliziotti. Anche quella è stata una situazione molto strana. Ci chiedevano: “Ma non volete entrare? Cosa volete? Potete entrare”. Era la polizia che ci chiedeva di entrare negli uffici in Questura, mentre di solito siamo noi che vogliamo entrare e loro ci dicono di no. In quel momento abbiamo capito che le cose erano cambiate. Poi siamo rimasti lì due giorni che sono stati molto duri perché i ragazzi avevano iniziato lo sciopero della sete. Io ho iniziato il primo giorno, poi ho saputo che non potevo andare più avanti, ma loro hanno continuato, e ci sono stati tanti malori, tanti sono stati portati all’ospedale perché era duro. Fisicamente una non può rimanere così, ma loro hanno deciso di continuare finché incontriamo martedì il questore.
Una parola giusta al momento giusto. Sono stati due giorni strani, alcuni hanno cercato di darsi fuoco, ci sono stati alcuni momenti di tensione con la polizia, e lì sono stata colpita dall’atteggiamento che ha avuto la Digos. Quando uno dei ragazzi s’è alzato perché voleva darsi fuoco, tutti si sono alzati insieme. In quel momento era difficile controllare la gente. Uno dei poliziotti ha fatto una mossa sbagliata, ha avuto paura che uno si facesse male e l’ha spinto, gli altri ragazzi hanno pensato che voleva picchiarlo e si sono alzati. È stato un momento di tensione. Una signora della Digos ha preso il megafono e ha detto in inglese “Io vi chiedo scusa, abbiamo sbagliato, vi chiediamo scusa”. È strano. I ragazzi a quel punto si sono seduti subito, hanno dimenticato la violenza che era stata fatta loro, e hanno detto “Va bene” e hanno ricominciato ad aspettare. Quella donna ha trovato le parole giuste al momento giusto.
Sui binari del dialogo. Poi il martedì siamo saliti e abbiamo incontrato il questore, abbiamo parlato delle nostre cose. Già da sabato 20, dopo la manifestazione, abbiamo costituito la delegazione. Era un atto di coraggio andare davanti, così quelli che se la sono sentita hanno accettato di farne parte. È stato un fatto spontaneo. Abbiamo scelto anche quelli che parlavano italiano in un modo abbastanza corretto. Anche questo è stato determinante. Poi abbiamo parlato con il questore, c’era anche Mariconda della Digos e il dott. Addato dell’ufficio stranieri, ci hanno detto che il problema non potevano risolverlo loro, e comunque ci hanno ascoltato. Ci hanno parlato sul lato umano e questo ha fatto bene alla gente che era sotto la Questura. Abbiamo capito che non potevamo stare in Questura, perché era solo un punto simbolico, ma dovevamo spostarci. E abbiamo rifatto il corteo fino alla piazza Loggia. Questo è successo il martedì. Due giorni dopo, il giovedì, abbiamo incontrato di nuovo il questore, il sindaco, il prefetto, ma in prefettura stavolta, e lì abbiamo ricevuto la stessa risposta: non potevano fare, non dipendeva da loro, potevano solo portare un documento con le nostre rivendicazioni fino al ministero. Lì anche abbiamo visto che c’è stata la voglia di ascoltare, sul piano umano, del prefetto, del questore, ma non potevano fare niente altro. Ma comunque l’atteggiamento che hanno avuto di ascoltarci, la disponibilità di portare il documento fino al ministero, ci ha permesso di calmare i ragazzi. Perché le cose potevano andare peggio. Questa disponibilità però ha permesso di calmare le teste più calde. Fin dall’inizio la disponibilità che hanno dimostrato ha fatto sì che da noi non poteva venire gente che voleva la violenza, che voleva approfittarne per fare cose non belle. Loro hanno proprio fatto questa strada.
Visibilità nazionale. Il sabato abbiamo incontrato il presidente dei Senato Mancino. C’era un ragazzo della Nigeria, uno dell’Albania, indiani. Nel frattempo erano arrivate Cgil, Cisl e Uil. All’inizio c’era solo il Magazzino 47. L’incontro con Mancino invece sono stati i sindacati ad ottenerlo. Durante la settimana con loro ci eravamo cercati a vicenda, e alla fine ci siamo trovati. Abbiamo fatto vedere la bozza di proposte che aveva preparato il nostro avvocato, Vicini, che è l’avvocato del coordinamento immigrati. Ci abbiamo lavorato. Poi abbiamo deciso come affrontare la giornata del 28 maggio. Abbiamo deciso di far leggere un testo da un immigrato dal palco del 28 maggio. Da quel momento in avanti abbiamo stabilito di prendere le decisioni insieme, loro come sindacalisti, noi come immigrati e quelli del Magazzino 47 che fin dall’inizio erano con noi. Il sabato, quando c’era Mancino, il sindaco aveva chiesto lo sgombero della piazza perché c’era il mercato. Ma noi sappiamo che quelli che vengono al mercato hanno già pagato e vogliono lavorare, e così noi avevamo già lasciato la piazza, eravamo andati sotto la Loggia. Ci siamo visti svegliare dalla polizia che voleva caricarci. Lì anche la Questura ha detto “dovete spostarvi”. In verità loro dovevano spostarci da piazza Loggia, e come non ci hanno trovato in piazza Loggia sono stati un po’ spiazzati. Comunque ci siamo spostati in piazza Vittoria. Il discorso dal palco in piazza Loggia era la concretizzazione di questo accordo sulla tolleranza, la negoziazione. Una linea di cui sono stati protagonisti i sindacalisti bresciani. Quando siamo andati al confronto con il Comune, abbiamo avanzato la proposta di fare due-tre tende in piazza Vittoria con i bagni, e un presidio simbolico in piazza Loggia. Questo l’abbiamo proposto al sindaco il giorno prima che lui andasse a Roma. Invece lui ha detto che non voleva sentirne parlare. Sapeva che doveva andare a Roma, non voleva sentire niente. Intanto c’è stato anche il giro d’Italia, non è accaduto granchè, però anche lì siamo stati visibili. Siamo stati molto fortunati perché Mille Miglia, Mancino, 28 maggio, giro d’Italia, ci hanno dato visibilità.
Il trauma dello sgombero. Il sindaco comunque va a Roma il 1° giugno e nella notte c’è stato lo sgombero. Non erano poliziotti di Brescia. La notizia a noi è caduta sulla testa. I ragazzi hanno passato chi la giornata dai carabinieri e chi dalla polizia. Alla fine sono stati rilasciati, senza nessun rigetto, senza nessun foglio di via, perché anche se uno aveva chiesto lo sgombero, a Roma la gente era seduta a un tavolo per cercare una soluzione. Se avessero dato i rigetti avrebbero bloccato tutto, la linea di tolleranza e di pace presa fin dall’inizio sarebbe saltata. Lì c’è stata incomprensione, e rabbia e rivolta.
Anche lì però la questura di Brescia è stata molto molto brava, ha gestito la situazione sul piano psicologico, umano. Infatti la questione era psicologica, umana, non era di sicurezza. Dopo questo sgombero abbiamo firmato gli accordi col Comune. Loro ci hanno dato il calendario delle manifestazioni in piazza Loggia fino a luglio. Noi abbiamo firmato, impegnandoci a spostarci in piazza Vittoria e lasciare piazza Loggia libera quando c’erano manifestazioni. A noi è sembrato giusto. In base all’accordo ci sarebbero state tre tende pagate dai sindacati e i bagni. Le cose che avevamo proposte dopo una settimana sono state accolte. Comunque la situazione a quel punto è diventata più rilassata, la gente a quel punto credeva in una soluzione per tutti. E siamo rimasti lì aspettando il viaggio per Roma. Il 2 giugno intanto c’è stato l’incontro col vescovo, è stato molto bello perché il giorno prima eravamo stati sgomberati da piazza Loggia e lui ha detto “Io vi ospito. Sarò lieto di ospitarvi sotto il duomo”. Uno ci ha fatto sgombrare, e due passi dopo trovavamo ospitalità. Questo è stato molto incoraggiante. All’incontro col vescovo noi abbiamo deciso di portare i nostri colori, i nostri abiti tradizionali, perché quello era il giubileo degli immigrati.
Il pullman dei bresciani. Finalmente è arrivato il viaggio a Roma tanto atteso. È stato bello perché sui pullman c’erano un po’ tutti. C’eravamo noi con i nostri amici dei Magazzino 47, il nostro avvocato, i sindacalisti, c’erano rappresentanti dei partiti della sinistra, i giornalisti, ma c’eravamo tutti noi venuti da tutte le classi sociali, dagli altri Paesi, tutti noi formavamo un pullman di bresciani. E questo mi ha colpito. Anche noi siamo bresciani, anche se non siamo nati a Brescia o siamo neri. Ma era il pullman dei bresciani che andavano a Roma. Questo è stato molto bello. Dopo di questo tutti ci siamo chiesti: come ce la facciamo a stare tutti insieme? Perché quando ci sono rivendicazioni si parla di razza? Si vede che non sono cose importanti. L’importante è vivere assieme, avere rispetto degli altri.
La sicurezza per tutti. Dunque siamo arrivati a Rema. Al sottosegretario io ho parlato del buon senso. Ho detto che noi da 18 mesi aspettiamo le cose senza capire. Poi un giorno ci siamo alzati e abbiamo detto “Facciamo lo sciopero della fame”. È una violenza contro noi stessi, perché non volevamo fare del male a nessuno, ma volevamo solo che ci ascoltassero. E il modo per ottenere questo è stato di farci violenza. E ci siamo seduti, uno vicino all’altro, davanti alla Questura. Abbiamo iniziato questa rete di solidarietà, abbiamo iniziato a parlare dei nostri problemi. Poi ci siamo alzati perché non vogliamo più essere clandestini. Nella clandestinità c’è il pericolo di essere sfruttati, di non essere nessuno, di essere associati alla delinquenza, perché nella clandestinità uno può essere reclutato dalla mafia, dalla prostituzione. Io come immigrata non voglio più essere scambiata per quella ragazza che è per strada, e non voglio più avere paura se un domani lascerò fuori la mia bambina, paura che abbia problemi con la droga. La sicurezza di cui parlava il sottosegretario la voglio anche per me, non solo per gli italiani. È la sicurezza di tutti quelli che vivono in Italia che ci interessa. Questa Italia, di cui faccio parte, non la voglio come Italia solo per gli italiani ma come Italia per tutti quelli che ci vivono. L’Italia non è più quella di prima, dove c’erano solo italiani che avevano problemi, quelli del nord con quelli del sud. È un’Italia diversa, dove ci sono immigrati che sono sopportati fino a che sono al lavoro, nelle ditte non hanno problemi. Ma io penso a un’Italia dove un immigrato può vivere vicino all’italiano, e portargli – come noi abbiamo portato con i nostri costumi – la nostra cultura, la nostra tradizione, le nostre cose, per farla diventare un’Italia multietnica più ricca e anche più colorata perché ci siamo anche noi.
Il fardello dell’immigrato. Lì ho parlato anche dello stress che viviamo noi da 18 mesi, aspettando senza capire, avendo anche la barriera della lingua e il problema di farci capire, perché le leggi italiane noi vogliamo rispettarle e le rispettiamo. Dopo due anni in Italia noi però l’italiano lo capiamo, però adesso c’è l’assurdità di una legge che dice che 63mila nuovi immigrati possono entrare quest’anno in Italia. Queste 63mila persone non parlano italiano, non sanno niente della cultura italiana, ma lo Stato ci dice: “Voi che siete qui da due anni, che sapete le nostre cose, dovete andarvene”. E anche questo è assurdo. Lo Stato italiano non ha la possibilità finanziaria, materiale, organizzativa, di mandare via 52mila persone. Io al sottosegretario ho chiesto di trovare una soluzione, di non dire “va beh, non vi diamo il permesso, dovete tornare nella clandestinità”. Ho spiegato che la clandestinità è sinonimo di insicurezza perché uno che non può lavorare ed è solo sfruttato può reagire in un modo non piacevole. Ho detto che lo Stato non poteva essere complice degli sfruttatori, non poteva legalizzare le organizzazioni che hanno sfruttato gli immigrati o gli errori degli uffici di collocamento. Se lo Stato diceva no, dava rigetti a tutti, allora lui ci avrebbe portato all’esasperazione. Ho insistito anche sulla parola permesso. Ci vuole sempre un permesso per qualcosa. Noi volevamo soltanto un permesso di soggiorno per poter vivere e lavorare, per contribuire di fare di questa Italia un’altra Italia, perché anche a noi dà fastidio l’insicurezza, dà fastidio la clandestinità. Poi abbiamo parlato anche di cosa ha sulle spalle dal lato umano un immigrato. Non è che uno emigra solo per sé. Uno che emigra dai paesi del Terzo mondo ha dietro di sé la famiglia, sorelle, fratelli, cugini. Uno che emigra non prende i soldi per mangiare da solo, deve mandarne una parte a casa. Nei Paesi dei Terzo mondo mancano tante cose. E anche lì, aiutandoci ad organizzarci, possiamo fare qualcosa di più concreto.
Il potere non mette soggezione. Questo ho detto al sottosegretario. Comunque l’impatto col Viminale non mi ha fatto impressione. Il mese prima ero in Senegal, dove avevo avuto contatti con uffici presidenziali. No, il Viminale non mi ha impressionato. Io di fronte ai rappresentanti del governo italiano non ho provato soggezione. C’è un versetto del Corano che dice “Solo Dio è unico”. Uno che sa questo, sa che Dio è unico, non può permettersi di avere paura. Questo lato ha sempre determinato le mie scelte. Quando andavo agli incontri i ragazzi pensavano che io ero abituata a quelle situazioni perché non mi vedevano tesa. Ma tutta la mia vita è stata determinata da quella frase, che Dio è unico e tu non puoi avere paura. Quando c’è da parlare non è che mi manca la voce. Io penso che dentro ognuno di noi ha abbastanza forza per fare qualcosa della sua vita e aiutare qualcuno. Abbastanza forza per fare qualcosa per sé e per gli altri. Dopo il Viminale, abbiamo cominciato a incontrare i partiti e poi, una cosa molto importante, noi immigrati abbiamo incontrato gli immigrati di Roma all’Università La Sapienza e abbiamo fatto un’assemblea, e abbiamo deciso di fare una manifestazione nazionale: una al Nord – il 17 a Brescia – e una a Roma il 18. Nei partiti che abbiamo incontrato abbiamo trovato atteggiamenti positivi verso la proposta presentata da Cgil, Cisl, e Uil d’accordo con noi.
Brescia culla dei movimenti. La protesta è nata proprio a Brescia perché Brescia è al tempo stesso una grande città e una piccola città. È grande come provincia, ma la concentrazione degli immigrati è tutta nelle stesse zone. E poi per noi ci sono punti di incontro che esistevano già prima di questi problemi. Per noi, comunicare a Brescia è più facile che comunicare a Milano o a Roma. A Brescia la gente è più raggiungibile. I punti di riferimento sono la via San Faustino, i centri di telefonia e la Questura, e poi il residence Prealpino. Con le lunghe attese davanti alla Questura, i ragazzi si sono visti tante volte, si sono già incontrati, si conoscono quasi tutti. La manifestazione del 17 giugno l’abbiamo organizzata per dimostrare la solidarietà, far venire gente da altre città e fare vedere che il problema non è solo di Brescia. Organizzarci in questo modo permette anche di far sapere che l’immigrazione di prima e quella di adesso è diversa. È una immigrazione che ha deciso di lavorare ma anche di partecipare alla vita dell’Italia, alla vita di tutti i giorni. Penso che il movimento non si disperderà, rimarrà per tutte le cose della vita. È vero, a Brescia c’è lavoro, ma la casa non c’è. Quando un Paese crea posti di lavoro per 63mila persone, deve ricordare che uno che lavora deve dormire, deve avere dove abitare. Quando c’è una nuova zona, nuove case, subito si fa un supermercato, una lavanderia, una farmacia per dare comodità alla gente. Ma quando si fanno 60mila, 100mila nuovi posti di lavoro, perché nessuno si chiede dove va ad abitare quella gente? Brescia dal ‘90 a oggi ha avuto migliaia di immigrati, ma non ha avuto migliaia di case nuove. Adesso le cose si sono svegliate. È già un passo. La gente si chiederà adesso come organizzarsi. Noi in grande maggioranza abitiamo nel Carmine, che nessuno vuole più adesso. Questa concentrazione è pericolosa, è come se si volesse creare un ghetto: l’integrazione dobbiamo dimenticarcela se restiamo sempre tutti insieme. Vai dal macellaio e parli la tua lingua, ti trovi sempre con i tuoi amici: quali rapporti hai con la comunità che ti accoglie? Ci vuole qualcosa d’altro per le case, per la politica dell’integrazione.
La città non ha avuto paura. Alla prima manifestazione ho visto la sorpresa della città. Poi quando siamo tornati dalla Questura ho visto segni di solidarietà dai bresciani: chi suonava il clacson, chi alzava la mano, chi salutava, chi faceva sorrisi. È strano. La prima volta no, questo non è successo, ma dopo la gente ha reagito in modo positivo, ha cominciato a leggere i volantini che lasciavamo in giro. Il 17, quando abbiamo fatto la manifestazione più grande, abbiamo visto la gente che andava a fare shopping: se uno ha paura non va a fare shopping, sta chiuso in casa. E se va a fare shopping vuol dire che i negozi sono aperti. Per me vuole dire che a Brescia erano preparati positivamente, ci avevano già visto in giro. Era la terza manifestazione, senza mai fare un danno a nessuno. Per me il fatto di tenere aperti i negozi è stata una forma di solidarietà da parte dei negozianti. Vuol dire che sanno che questa protesta è fatta da bresciani, anche se vengono da un altro Paese, ma che fanno parte della città e hanno anche il diritto di dire le cose.
Brutti apre uno spiraglio. Poi c’è stato il secondo viaggio a Roma, l’incontro col sottosegretario Brutti. Brutti era più preparato di Di Nardo che comunque – è strano – non s’è fatto vedere. Poteva comunque passare a salutarci, ci avrebbe fatto piacere. Comunque, vabbeh, abbiamo incontrato un altro del ministero, stavolta Brutti. Anche lì c’è la disponibilità a regolarizzare – non di sanare, perché la sanatoria è già una vecchia storia – tenendo conto che quelli che hanno fatto questa domanda sono da due anni inseriti nel tessuto sociale e economico dell’Italia. Da questo momento abbiamo cominciato a discutere delle cose concrete, come fare. Noi gli abbiamo chiesto di dare alle Questure il personale, perché così i tempi non saranno lunghi. Abbiamo chiesto di preparare la gente a queste cose, di spiegare che nessuno ci guadagna a fare durare le cose a lungo: costa solo e nessuno ci guadagna niente. La tavola lì era più piena, c’era tanta gente, c’erano quelli di Roma seduti vicino a noi, c’erano Cgil Cisl e Uil nazionali e locali. Questa tavola era bella perché tutti quelli che erano seduti lì avevano la stessa cosa in comune, la voglia di risolvere il problema, e i tecnici che avevano esperienza hanno fatto le proposte legali, dentro la legge, per regolarizzare tutti quelli che erano fuori dalla sanatoria. Brutti è stato più preciso, sapeva di cosa parlava, mi sa che l’altro sottosegretario non era molto preparato.
Il coraggio di decidere. Lì durante la riunione c’è stato un momento in cui Brutti doveva andare fuori, mi sa che doveva rispondere ai partiti. Io gli ho chiesto di avere il coraggio di decidere. Perché anche se l’opinione dice clandestinità uguale insicurezza, vabbeh, bisognava rispondere: “Non volete la clandestinità? Allora regolarizziamo i clandestini”. Era una risposta coraggiosa a un problema che persone di altre parti volevano usare come propaganda. “Voi dite clandestinità uguale insicurezza, ma quelli dicono che vogliono uscire dalla clandestinità e noi li facciamo uscire”. A me questa sembrava la risposta giusta. Questo secondo incontro è stato diverso dal primo, lì si vedeva una luce, la fine dei tunnel. Un fatto che a noi di Brescia non è piaciuto è che volevano iniziare proprio con Brescia, mentre noi abbiamo ribadito che vogliamo che inizino con tutti insieme. Se c’era da aspettare un mese in più dopo i 18 già passati, non c’era problema per noi. Brescia non chiedeva privilegi.
I momenti topici. Il momento più bello di questa lunga lotta è stato il primo giorno davanti alla Questura. Poi tutti gli altri momenti sono stati belli a loro modo, tutti momenti diversi. Sono cose nuove. L’Italia, non solo noi che viviamo queste cose, ma tutta l’Italia sta vivendo una cosa nuova, un confronto diverso, una relazione diversa fra immigrati e enti, immigrati e partiti, immigrati e italiani. È una grande avventura. Il momento più brutto è stato lo sgombero. Lì abbiamo visto che qualcuno cercava la prova di forza. L’insegnamento che esce da questa vicenda è che con la voglia, la voglia che ti rende più ricettivo verso le cose degli altri, con l’ostinazione, si possono cambiare le cose. E io da questa esperienza mi sono ritrovata ad avere un atteggiamento diverso con il mangiare, il cibo, questo fatto di rimanere senza mangiare ha cambiato le cose. Perché ogni giorno mangiare la mattina colazione, mezzogiorno, sera, adesso è diverso. Le cose sono cambiate anche sul piano culturale. Adesso sono diventata più ricca della cultura del Pakistan, dell’India, adesso so cosa succede nel Kashimir, perché c’è il Bangladesh. Adesso di storia, di cultura ne so tanta di loro. Prima li salutavo, parlavo due minuti con loro, adesso so che c’è una disponibilità di quasi tutti a comunicare, a sapere degli altri. Alla fine abbiamo visto che c’era lo spavento di tutti: degli immigrati non sapendo come muoversi verso gli altri, e degli italiani verso gli immigrati perché non sapevano come comportarsi. Prima c’erano solo i cliché: come quando si diceva che l’Italia era mafia e pizza, così gli immigrati erano delinquenti e rubatori di posti di lavoro, gente che viveva in case sovraffollate. Ma perché? Perché non hanno altro. Adesso invece la gente inizia a cambiare. È molto bello questo. Una cosa che invece non capisco molto, che è brutta, è cambiare questore. Noi pensiamo che fin dall’inizio lui ha gestito bene la storia. E alla fine, quando ci sarebbero da raccogliere i frutti di tutto questo lavoro, lui viene mandato via. Peccato. Lui non sarà con noi alla festa che faremo se tutti prendono il permesso di soggiorno. Lui come tutti quelli che si sono avvicinati a noi ha potuto gestire il lato umano, di questa vicenda, perché noi abbiamo chiesto solo questo. E anche il fatto di vestirci con i nostri abiti tradizionali è servito a fare vedere il lato umano. Noi non eravamo strumentalizzati o usati da qualcuno, noi eravamo qua, abbiamo avuto la fortuna di avere gente intelligente e comprensiva verso le nostre cose, amici che ci hanno appoggiato, e hanno sempre fatto come abbiamo deciso noi, non loro. Così siamo arrivati a questo, ad avere la gente che si sveglia: “Avete 50mila persone che vivono nella clandestinità vicino a voi, svegliatevi, non lasciate più che vengano sfruttate nel lavoro, non lasciate che siano sfruttate per tutte le cose della vita. Dovete svegliarvi perché questi 50mila fanno parte di altri 250mila della sanatoria del ‘98, e ci sono altri del ‘96, altri del ’90, altri dell’87, sono circa un milione gli immigrati che vivono vicino a voi in Italia, e dovete provare a capire chi avete in fianco a voi”. Ecco. Questa lotta ha fatto svegliare le cose.
Tratto dal libro i due viaggi