Per i 90 anni dell’Ottobre bolscevico.
“Ogni soldato, ogni operaio, ogni vero socialista, ogni onesto democratico si rende conto che nelle presenti condizioni vi sono solo due alternative. O il potere rimane nelle mani della ciurma borghese e possidente, e questo significherà repressioni di ogni genere per gli operai, i soldati e i contadini, la continuazione della guerra, e l’inevitabile fame e la morte… o il potere passa nelle mani dei rivoluzionari operai, soldati e contadini; e questo significa la completa abolizione della tirannia dei possidenti, l’immediato crollo dei capitalisti, le immediate proposte di una giusta pace. Significa anche la terra assicurata ai contadini, il controllo sull’industria assicurato agli operai, il pane assicurato alla fame, e la fine della guerra insensata…”. Così si esprimeva il bolscevico Zinovev sul quotidiano Dien mercoledì 7 novembre 1917, poche ore prima della presa del Palazzo d’Inverno a Pietrogrado, l’episodio simbolo della Rivoluzione d’Ottobre.
“Giovedì 8 novembre. Il giorno sorse – ricorda John Reed in quella meravigliosa epopea dell’Ottobre che sono I dieci giorni che fecero tremare il mondo – su una città in preda a un’eccitazione e a una confusione selvagge, un’intera nazione si levava in una muggente ondata di bufera”. Da una parte il II Congresso dei Soviet e il Comitato Militare Rivoluzionario, i primi decreti del governo sovietico, dall’altra il Comitato per la Salvezza, la Duma di Pietrogrado, i fautori del deposto Governo provvisorio di Kerenskij, che accusavano i bolscevichi di aver tradito la Rivoluzione di Febbraio, di essere agenti tedeschi o austriaci, di aver attentato alle nascenti istituzioni democratiche. Proprio loro, menscevichi e social-rivoluzionari, che si rifiutavano di porre fine ad una guerra inutile e disastrosa per la Russia a fianco dell’Intesa, che non distribuivano la terra ai contadini, tollerando il persistere della grande proprietà terriera, che reprimevano scioperi e manifestazioni operaie a fianco dei capitalisti. “Tuttavia – commenta ancora Reed, ragionando del periodo tra il marzo e l’ottobre 1917 – fra le masse degli operai e dei contadini v’era l’ostinata impressione che «il primo atto» non fosse ancora finito. Al fronte, i Comitati militari erano sempre più osteggiati dagli ufficiali che non potevano abituarsi a trattare i loro comuni come esseri umani; nell’interno, i membri dei Comitati della Terra eletti dai contadini venivano arrestati quando tentavano di ottenere dal governo un regolamento concernente le terre; e gli operai nelle officine dovevano combattere le liste nere e le esclusioni (…). Intanto, i soldati cominciarono a risolvere la questione della pace semplicemente disertando, i contadini diedero fuoco ai castelli e si impadronirono delle grandi proprietà, gli operai ricorsero allo sciopero e al sabotaggio”.
Chi ha voluto in questi anni superare, liquidare la pesante eredità del comunismo ha sempre fatto riferimento alla “presa del Palazzo d’Inverno” come modello non tanto non riproducibile – e fin qui nulla di strano -, quanto piuttosto da rimuovere, da ridurre ai minimi termini. L’Ottobre avrebbe dovuto essere ricordato come la prima di una lunga serie di rivoluzioni che avrebbero dovuto travolgere almeno l’Europa capitalistica: la storia è andata diversamente, nonostante la generosità di milioni di operai e contadini che si sono battuti da Berlino alle terre australi della Patagonia, da Budapest a Gilan. La presa del Palazzo d’Inverno è rimasta come una sorta di cartolina dell’Ottobre, di evento-simbolo, ma sarebbe forse più utile ricordare l’immagine straordinaria della “muggente ondata di bufera” che ha travolto tutto, capovolgendo a furor di popolo le vecchie e statiche maggioranze nel Comitato Esecutivo Centrale dei Soviet dei Deputati degli Operai e dei Soldati e nel Soviet dei Contadini, nei sindacati (a partire dal Comitato Centrale Russo del Sindacato Ferrovieri) come nell’esercito, e rovesciando le vecchie istituzioni come le più recenti. Più volte la rivoluzione è stata sul punto di essere sconfitta, dentro e fuori Pietrogrado, più volte è risorta su quelle che parevano essere le proprie ceneri, raccogliendo nuove forze e nuovo vigore A sollevarsi non è stata solamente Pietrogrado, la capitale, che aveva già vissuto il 1905 e il febbraio 1917, ma la Russia profonda, operaia come contadina, i milioni di soldati al fronte mandati al massacro a difendere una causa che non avrebbe mai potuto essere la loro.
Protagonisti dell’Ottobre sono stati gli operai delle grandi fabbriche, la parte più cosciente della società russa, i soldati, la grande massa dei contadini poveri, gli stessi che Majakovskij, uno dei grandi poeti della rivoluzione, avrebbe messo in scena nell’opera teatrale Il mistero buffo come “gli impuri”, nel momento in cui essi hanno deciso di rompere le catene della servitù e dello sfruttamento. Possiamo ricordare l’Ottobre e il suo significato per la storia non solamente del movimento operaio, ma dell’umanità intera attraverso un’immagine, una straordinaria immagine, insieme pungente e amaramente ironica: quella del servo Jernej di Betaina, così come ci è stata descritta nel romanzo di Ivan ´Cankar, rivoluzionario sloveno, nel 1907. L’anziano Jernej, alla morte del vecchio padrone, viene cacciato di casa dal giovane erede perché ormai inabile al lavoro e vaga per cercare con puerile fiducia ragione del torto subito presso le diverse autorità preposte (dal Sindaco al Tribunale, fino all’Imperatore d’Austria), convinto che la giustizia umana fosse una sorta di emanazione diretta – seppure imperfetta – della giustizia divina, in teoria uguale per tutti. L’intero suo percorso sarà, al contrario, una faticosa e amara presa di coscienza della realtà, dell’indifferenza del sistema e delle autorità verso i deboli, che si traduce facilmente in sostegno ai forti, ai detentori del potere economico. Isolato e deluso, Jernej compie allora un gesto lucidamente folle, individuale e nello stesso tempo universale, bruciando la fattoria dalla quale era stato cacciato, trovando poi la morte per mano di altri contadini nel rogo che lui stesso aveva appiccato. Un paradigma di rivoluzionario senza coscienza e senza rivoluzione, quello di Jernej, che chiedeva semplicemente di poter godere dei frutti del proprio lavoro, di poter possedere quella terra che lui stesso per quarant’anni aveva lavorato, di poter mangiare quel pane che aveva prodotto con il suo sudore. In una parola, chiedeva di riscattare la propria condizione, di ottenere la propria libertà.
Tanti Jernej, costretti al lavoro servile nelle campagne, sfruttati in condizioni inumane nelle fabbriche o mandati a morire al fronte nelle tante guerre volute dalle diverse potenze imperialiste, sono insorti a Parigi nel 1871 come nella Russia del 1905 o nel Messico di Villa e Zapata – da Cuernavaca a Torreòn -, impadronendosi delle haciendas e della propria dignità.
Con la vittoria del primo assalto al cielo e il tentativo di costruire un sistema economico e sociale completamente nuovo e affrancato da ogni ipotesi di sfruttamento, le masse russe hanno riscattato la propria condizione, dato un senso del tutto diverso alla propria esistenza come soggetto collettivo, prima ancora che come singoli individui. Nonostante la generosità di milioni di individui sfruttati, la rivoluzione, pur se più volte sul punto di affermarsi nell’Europa capitalistica tra il 1918 e il 1920, è stata sconfitta, contesto che ha finito per influire pesantemente anche sul successivo sviluppo dell’esperienza sovietica. Capire le ragioni di questa mancata affermazione – come indagare la successiva evoluzione della storia del movimento operaio nei diversi paesi dell’Occidente europeo – acquista oggi un’importanza centrale. Il primo a misurarsi con questo contesto è stato il più lucido e meno legato alla “frase rivoluzionaria” astratta e avulsa dal contesto reale tra i dirigenti bolscevichi, vale a dire Lenin, a partire dal VII Congresso del partito (marzo 1918). Senza nulla togliere alla grandezza della vittoria della rivoluzione, egli ha ricostruito con grande franchezza e lucidità quegli elementi di contesto che hanno senza dubbio favorito l’affermazione dei bolscevichi a Pietrogrado e che non si sarebbero più ripetuti altrove con quelle modalità: le peculiarità del quadro internazionale, con le potenze imperialiste divise e troppo impegnate a combattersi per accorgersi della minaccia bolscevica, e la situazione interna russa (arretratezza, peso del dispotismo e dell’autocrazia, condizioni materiali della grande maggioranza della popolazione). Nonostante questo, l’Ottobre segna il secolo delle rivoluzioni e dell’ingresso delle masse popolari nella storia: l’ondata rivoluzionaria non ha trionfato, ma il mondo ha tremato dalle fondamenta: da Berlino a Budapest, da Londra a Parigi, dalle steppe della Mongolia ai moti operai di Córdoba, come alla rivolta e brutale repressione – quasi sconosciuta – dei braccianti agricoli e degli indigeni del distretto australe di Santa Cruz, nella Patagonia argentina.
Non è forse solamente grazie a questi avvenimenti che milioni di individui hanno fatto il loro ingresso nella storia, con la volontà ferma di cancellare con ogni mezzo secoli di soprusi e sfruttamento, sul piano nazionale come di classe, da parte delle grandi potenze come del grande capitale economico e finanziario? Quanti miliardi di Jernej ci sono ancora nel mondo? E’ questa la caratteristica essenziale del Novecento, di questo secolo sì breve, ma grande e drammatico. Se provassimo a considerare la storia dell’umanità senza di esso, con al centro proprio l’Ottobre, rischieremmo di trovare un mondo più arretrato, dominato dalle grandi potenze coloniali, pronte a spartirsi risorse e mercati, con la classe lavoratrice, nell’accezione più variamente intesa, costretta a vivere come variabile dipendente del capitale e delle compatibilità del sistema, soggiogata, abbruttita, avvelenata. Sono queste le ombre che si allungano pericolosamente oggi su tutti noi, in un nuovo secolo, inaugurato con la disgregazione dell’URSS e segnato in profondità tanto dal manifestarsi del più mostruoso e perverso piano di egemonia mondiale mai concepito nella storia dell’umanità dall’unica superpotenza rimasta, quanto dal dominio del sistema capitalistico, con un carattere strutturalmente neoliberale e una tendenza accelerata alla concentrazione e finanziarizzazione. Le conseguenze di tutto questo sono purtroppo sotto gli occhi di tutti, nei paesi a capitalismo avanzato come nel sud del mondo. L’Ottobre ha rallentato il processo di espansione globale del capitalismo, la vittoria della controrivoluzione nel 1991 lo ha di nuovo imposto, ma non come “fine della storia” – al di là delle speranze delle classi dominanti -, date anche le crescenti resistenze e contraddizioni che sembrano emergere con sempre maggiore nettezza. Per questo l’Ottobre costituisce un ricordo imbarazzante e, soprattutto, pericoloso, un passaggio da rimuovere nel più breve tempo possibile. Per le classi dominanti, certamente, ma anche per i tanti ex comunisti in circolazione, oggi rispettabili e responsabili riformisti, ben felici di liberarsi del peccato originale e recuperare una collocazione non molto diversa da quella delle socialdemocrazie europee di allora, pronte a schierarsi da una parte contro la rivoluzione bolscevica e ogni tentativo insurrezionale a sostegno della Russia dei Soviet e, dall’altra, a favore delle rispettive borghesie nazionali e della guerra. Una lezione, questa, che si ripropone oggi con sconcertante e disarmante attualità, pur se calata in condizioni generali profondamente mutate.
A questo tentativo di rimozione, assai più che di denigrazione, noi non possiamo rispondere con la semplice rievocazione, con il ricordo dei bei tempi andati, dei fasti che furono e che oggi, sfortunatamente, non sono più. Questo per una ragione molto semplice: perché se così fosse avremmo già perso, saremmo destinati a ritagliarci un ruolo residuale quando invece dovremmo tentare di riprendere il cammino, di tornare protagonisti. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di capire cosa non ha funzionato nel primo tentativo di costruzione del socialismo, di transizione al socialismo, perché l’esperienza sovietica è finita come sappiamo. Senza alcun atteggiamento nostalgico e senza alcun furore iconoclasta o liquidatorio, dobbiamo avere la forza di investigare i limiti oggettivi (contesto internazionale e sviluppo delle forze produttive), come quelli soggettivi e culturali che hanno consentito alle forze controrivoluzionarie di imporsi nel 1991. In questi anni sono stati fatti passi avanti e coraggiosi tentativi, ma la strada da percorrere è ancora lunga. Per fortuna, non siamo soli e non partiamo da zero nella scommessa di declinare al futuro i termini di socialismo e comunismo. L’importante è non valutare le esperienze di oggi – a partire dal Venezuela di Chavez – con gli schemi mentali di allora, anche perché le esperienze rivoluzionarie, nelle loro evoluzioni – mai scontate e semplici – tendono a rifuggire da percorsi segnati e costruiti a tavolino. Questo è il grande insegnamento dell’Ottobre e dei primi anni dell’esperienza sovietica, costretta ad adattarsi a un contesto profondamente diverso da quello ipotizzato dai suoi protagonisti.
Di fronte all’offensiva tedesca, con le forze rivoluzionarie in difficoltà, i bolscevichi si sono trovati ad affrontare, drammaticamente divisi al proprio interno, una situazione terribile, si sono trovati di fronte ad una scelta tanto dolorosa quanto inevitabile: proseguire la guerra, con l’esercito però in fase di smobilitazione, o accettare una pace mortificante e ben diversa da quella inizialmente ipotizzata. Nel primo caso, il grosso dell’esercito e dei contadini non avrebbe compreso il passaggio e, con ogni probabilità, si sarebbe sollevato contro lo stesso governo dei soviet, determinando la fine della rivoluzione. Lenin, al contrario di altri (con diverse modalità, ad esempio, Trotskij e Bucharin), non era disposto a sacrificare il neonato potere sovietico in Russia nel disperato tentativo di suscitare un’ondata rivoluzionaria in Germania, a porre il futuro della rivoluzione nelle mani del destino. Occorreva una tregua per consolidare la rivoluzione in Russia – inizio della transizione al socialismo e lotta contro le forze controrivoluzionarie, sostenute da Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna – e rilanciare la rivoluzione in Europa, e per farlo occorreva accettare anche una pace umiliante. Al VII Congresso Lenin avrebbe affermato senza mezzi termini: “Se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre nel fango, non sei un rivoluzionario ma un chiacchierone”.
“Il marxismo non è un dogma – ha scritto nel maggio 1983 Jurij Andropov, allora alla guida dell’URSS, ultimo grande protagonista di un tentativo di cambiamento e modernizzazione dell’intero sistema a partire però dalla transizione al socialismo – bensì una viva guida per l’azione, per il lavoro autonomo atto a risolvere i complessi problemi che ogni nuova svolta storica ci impone… Solo un siffatto atteggiamento verso il nostro inestimabile retaggio ideale, atteggiamento di cui Lenin diede un esempio, solo questo continuo autorinnovarsi della teoria rivoluzionaria sotto l’azione della prassi rivoluzionaria rendono il marxismo una scelta autentica e l’arte della creatività rivoluzionaria”.
Queste parole acquistano, paradossalmente, una maggiore importanza proprio oggi, in quest’epoca difficile e contraddittoria, dove ci sentiamo, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, orfani dello “spirito” dell’Ottobre, anche al di là di quelli che sono emersi come elementi peculiari di questa esperienza, sui quali occorre proseguire la riflessione.
Difficile, infine, ragionare dell’Ottobre senza considerare il ruolo che in esso svolse la parte più avanzata degli intellettuali e degli artisti, quelle “avanguardie” che in Italia finirono invece per schierarsi a fianco di Mussolini. Al di là di quello che sarebbe accaduto in seguito, dal dibattito sul ruolo dell’arte nella costruzione del socialismo alle difficoltà e disillusioni che incontrarono diversi esponenti degli autodefiniti “comunisti di sinistra”, fino alla scelta – discutibile ma non incomprensibile – del realismo a partire dal 1928, gli anni compresi tra il 1915 e il 1917, con il progressivo affermarsi del futurismo in poesia, del costruttivismo in architettura e del cubofuturismo in arte, fino al suprematismo estremo di Malevic, hanno finito per segnare davvero un’epoca intera. La parola d’ordine era rinnegare il passato, ribaltare i canoni, capovolgere le dimensioni, creare una nuova lingua. Pur se a partire da un approccio non necessariamente marxista, e con un furore iconoclasta con pochi precedenti nella storia (straordinarie, da questo punto di vista, le dichiarazioni teoriche quanto le sperimentazioni pratiche), gli avanguardisti hanno sostenuto con decisione la rivoluzione, si sono immedesimati in profondità con essa, hanno percepito in essa tutto il peso della cesura con la storia precedente. Una nuova arte per la nuova classe emergente e vittoriosa. Così si esprime Majakovskij nel 1915: “Il futurismo, come una morsa d’acciaio, ha afferratoLa nuvola in calzoni del 1915, avrebbe ribadito, riferendosi ai valori borghesi: “Abbasso il vostro amore. Abbasso la vostravostro regime. Abbasso la vostra religione”. L’Ottobre è anche il Decreto n. 1 sulla democratizzazione delle arti, secondo il quale l’arte avrebbe dovuto uscire dal morto tempio del passato e del presente per collocarsi al servizio del popolo, inondando le città e le piazze e procedendo insieme alla grandiosa campagna per l’alfabetizzazione delle sterminate masse popolari russe, elemento che avrebbe segnato l’uscita da una condizione di inferiorità e frustrazione. Una tensione che si riscontra anche nel poderoso e mai statico dibattito relativo all’emancipazione della donna e alla radicale riforma del diritto di famiglia, dibattito che ha davvero poco da invidiare a quello attuale. la Russia. Incapaci di scorgere il futurismo davanti a voi, impotenti a guardare in voi stessi, ne avete proclamato la morte. Sì, il futurismo è morto come gruppo particolare, ma su tutti voi si riversa come un’inondazione. Se il futurismo è morto come idea di pochi eletti, non ci è più necessario. Riteniamo conclusa la prima parte del nostro programma di distruzione”. Ancora più chiaro sarebbe stato nel 1918, quando, pubblicando per la prima volta in versione integrale l’opera teatrale arte. Abbasso il
Avviandomi verso la conclusione, rimane ancora oggi drammaticamente aperto un lacerante interrogativo che Sklovskij, padre dei formalisti russi, rivoluzionario senza partito, richiama in una straordinaria intervista datata 1968 e recentemente ripubblicata: il destino delle rivoluzioni è quello di tramutare la propria difesa in puro conservatorismo, anche se gli elementi di contesto risultano essere drammaticamente ostili e complessi? Cercare una risposta a questa domanda significa scavare nel profondo della nostra storia, dei suoi protagonisti, nel tentativo di individuare non la soluzione, ma delle risposte che possano avvicinarsi alla verità, alla realtà.
In Unione Sovietica, nonostante i grandi successi conseguiti in condizioni di grandi difficoltà, abbiamo perso la battaglia, la sfida tanto sul piano dello sviluppo economico, come sul piano più genericamente culturale, dei valori di riferimento. Perso la battaglia, non la guerra. Se l’economia sovietica non si è rivelata in grado di modificarsi sulla base delle esigenze di una società sempre più complessa, legando lo sviluppo quantitativo con quello qualitativo, non cogliendo fino in fondo le potenzialità dell’automazione e della robotica e subendo la rivoluzione informatica occidentale, il sistema dei valori è stato travolto dalla stagnazione, non è stato in grado di rigenerarsi, di rinnovarsi, perdendo ogni tensione rivoluzionaria. Per questo tanti giovani, pur avendo un sistema di garanzie sociali che oggi forse rimpiangono, sentivano il bisogno di guardare verso Occidente per trovare stimoli e novità. Quali le ragioni alla base di tutto questo?
Ne Il Bagno, ultima, grande opera teatrale di Majakovskij prima del drammatico suicidio, non a caso segnata da laceranti insuccessi, il mediocre, altezzoso e narcisista Pobedonosikov, uomo d’apparato, afferma, ragionando dell’inventore Ciudakov: “I sognatori non ci servono! Il socialismo è calcolo!”. Anche da qui potremmo partire per investigare sulle ragioni della sconfitta. Al contrario, per la costruzione di un mondo nuovo, per la costruzione del socialismo servono anche i sognatori, a maggior ragione oggi, perché la rivoluzione e i suoi valori o si affermano nella loro interezza, dallo sviluppo dei fattori produttivi alle coscienze individuali e collettive, o, come abbiamo già avuto modo di vedere e vivere, non si affermano, sono destinati al fallimento.
Tracciando un bilancio della propria esperienza politica e letteraria nella sopra citata intervista, Sklovskij così risponde a chi gli domanda quanto l’esperienza sovietica si sia allontanata dalle teorie di Marx e di Lenin sul socialismo: “Aspettiamo che, prima, voi stabiliate la lontananza della realtà del capitalismo attuale dall’ideale scientifico che avevano elaborato Adam Smith e David Ricardo”. Risposta che attendiamo anche noi dai cantori delle magnifiche sorti e progressive di un sistema che continua a sopravvivere solamente grazie alle guerre e al più bieco sfruttamento ai danni della grande maggioranza del genere umano. La schiavitù di molti per il profitto di pochi.
Commentando duramente, nel gennaio 1921, la situazione in Russia così come ricostruita da una delegazione di socialisti che si era recata in quel paese, alla vigilia della scissione di Livorno che avrebbe dato vita al Partito Comunista d’Italia, Filippo Turati non ha potuto però fare a meno di sottolineare che “la Rivoluzione russa osservata ed intesa come avvenimento storico, ha un contenuto ideale che lascerà indubbiamente tracce profonde nella vita e nella storia del popolo russo, perché certe conquiste da essa conseguite, non solo non saranno distrutte né potranno scomparire nel caso di un eventuale cambiamento o trasformazione di regime, ma resteranno sempre le pietre miliari della sua ricostruzione politica e sociale (…). Che cosa ha visto la borghesia in questo grande avvenimento storico, in questo gigantesco rivolgimento politico che è la Rivoluzione russa? Essa non vi ha visto che il gesto della follia politica e della aberrazione individuale di un uomo, senza accorgersi che l’idea non avrebbe potuto trascinare le masse, se non avesse posseduto in se i germi di una nuova morale e se il suo contenuto ideale non fosse stato così potente da poter costituire le basi di una nuova Società. La borghesia di tutti i paesi non ha voluto considerare questo contenuto morale e ideale della rivoluzione se non per negarne l’esistenza, e non ha veduto nel movimento comunista russo se non il pericolo che esso rappresentava per le vecchie concezioni di supremazia, che la minoranza parassitaria della civiltà che sta per tramontare ha sempre esercitato sulla maggioranza lavoratrice e produttrice”.
L’Ottobre è un incendio che non si è spento, la nostra scommessa è far divampare altri fuochi nelle praterie del mondo.
* Relazione al convegno di Torino del 26.10.2007 sul 90° dell’Ottobre, promosso da Resistenze (www.resistenze.org )