Pietro Secchia e il PCI come strumento pedagogico per l’egemonia

Per un partito comunista di quadri e di massa

È da ritenersi che l’importanza addotta dai classici del marxismo al fenomeno militare, primo tra tutti Engels, studiosi tutti, in grado diverso, maggiore o minore, dell’arte dell’organizzazione in chiave bellica, non derivi dalla propensione autonoma per l’utilizzazione pratica dello strumento della forza in guerra, ma dal convincimento profondo che gli assetti dominanti hanno un formidabile strumento di organizzazione dell’apparato coercitivo in chiave reazionaria e controrivoluzionaria e che il movimento proletario deve essere pronto, in ogni momento e a seconda delle circostanze, a fronteggiare questo apparato, incrinandolo nella sua struttura e opponendo una struttura altrettanto “organizzata”. Di questo è comunque profondamente convinto Pietro Secchia, che lo ribadirà in più momenti della sua parabola sia di politico che di studioso della storia del movimento operaio e del marxismo. Proprio in quest’ultima veste, dopo che negli anni della Resistenza in termini di “guerra di movimento”, e negli anni post-bellici fino al 1954 (quando regge le sorti dell’organizzazione del PCI) in termini di “guer ra di posizione”, aveva cercato di rendere operativi quei principi, egli si batterà, pur in posizione ormai emarginata, per la sensibilizzazione a temi che erano stati troppo presto dimenticati a favore del – l’ “accomodamento” alla situazione, sottovalutando proprio il ruolo che la forza della coercizione organizzata che la borghesia può mettere in azione gioca nel tentativo di annullare, se non di distruggere fisicamente, l’antagonismo di classe. Nel 1972, un anno prima della sua morte, proprio nell’ambito della sua coriacea battaglia per la democratizzazione delle Forze Armate e contro tutti i tentativi, cruenti, stragisti, di eversione antidemocratica ad opera della “strategia della tensione”, guidata in Italia da frazioni della borghesia più retriva e anticomunista mobilitate illegalmente negli apparati legali dello Stato, Secchia accusa l’intera sinistra di non prestare la dovuta attenzione al problema1. Incomprensione destinata a durare a lungo e per chissà quanto tempo, a meno che, questo il pensiero di Secchia, la sinistra di classe non ritrovi la sua capacità di azione realmente rivoluzionaria, guidata da un partito comunista che pur in situazioni estremamente complesse, non rinunci a legare la sua tattica politica a un respiro strategico che non può non avere inscritto la capacità della sua organizzazione di portare all’offensiva il movimento proletario e antagonista al sistema di sfruttamento capitalista, e quindi di essere pronto a rintuzzare in ogni momento, con un’“adeguata attrezzatura”, le forme palesi, ma sovente occulte in cui si esprime la reazione delle classi dominanti minacciate nei loro atavici e parassitari privilegi2. L’“adeguata attrezzatura” è innanzitutto un partito di autentici quadri rivoluzionari, premessa indispensabile per potersi radicare nel popolo e configurarsi come “partito di massa”: ma non, appunto, una qualsiasi formazione politica di massa – ciò è possibile ai partiti della borghesia, le idee dominanti sono quelle della classe dominante (Marx) – ma un partito comunista di massa, dunque di classe e rivoluzionario. La formazione dei quadri è vitale in un partito comunista e lo è, per usare un lessico delle moderne scienze della formazione, con una funzione intenzionalmente pedagogica: la selezione dei gruppi dirigenti, l’organizzazione, non può che avvenire nella lotta di classe e per la lotta di classe, attraverso la capacità di dirigere l’azione politica, aborrendo il burocratismo che deriva dall’inazione e dalla passività. L’intenzionalità pedagogica è rivolta all’interno del partito stesso, ma il partito esso stesso diventa strumento di emancipazione all’esterno, per costruire gramscianamente l’egemonia, innanzitutto sul piano dello smascheramento analitico delle false apparenze e illusioni dell’ideologia e della prassi concreta con cui si sostanzia il dominio economico, politico, culturale, della borghesia. La selezione dei quadri è al contempo frutto e risultato della lotta di classe, ma è anche funzionale all’organizzazione della stessa su larga scala, in un processo dialettico che rende l‘alfabetizzazione politica lo strumento culturale più efficace per interpretare la realtà e dunque modificarla strutturalmente, in profondità, nelle “trame minute” del conflitto sociale. Questo è il filo che lega le riflessioni e la concreta azione politica di Secchia in tutte le fasi della sua vicenda all’interno del Partito Comunista. Il fulcro di questa vicenda è costituito dagli anni che vanno dal 1945 al 1954. Sono gli anni in cui Secchia dirige l’organizzazione, ha cioè, come si usava dire un tempo, “l’intero polso del partito”, assurge a figura di primissimo piano (il numero “tre” dopo Togliatti e Longo, fino alla vicesegreteria nel febbraio 1948), “controlla” l’apparato e l’applicazione della linea politica. Sono anni cruciali: dopo il partito “cospirativo” della Resistenza, il PCI sfonderà nel 1947 la cifra di due milioni di iscritti. Ma sono anche gli anni delle amare disillusioni rispetto agli ideali resistenziali, gli anni del rimodellamento dello Stato borghese post-fascista, formalmente democratico e costituzionalmente democratico, sostanzialmente autoritario e asservito agli interessi dell’imperialismo americano. Non senza la stessa responsabilità dei partiti di sinistra e dei suoi gruppi dirigenti, databile in particolare dal dicembre 1944, da quando cioè i rappresentanti del CLNAI firmarono i Protocolli di Roma, in cui senza ottenere nessun riconoscimento per sé di funzioni di governo, accettarono però di cedere ogni autorità precedentemente assunta al governo militare alleato. Anche l’esperienza greca (un tentativo da parte dei comunisti e delle forze rivoluzionarie di “sfidare” frontalmente e militarmente la ristrutturazione borghese dello Stato e della società, approdato in un bagno di sangue repressivo) fu utilizzata falsandone i dati; invece l’esperienza jugoslava (esempio di liberazione senza alcun aiuto esterno, neanche di quello “fraterno” dell’URSS) che provava la falsità dell’argomento dell’inevitabile intervento imperialista, furono utilizzate ai fini di propaganda interna per spegnere ogni velleità realmente antagonista3. Comunque in quel periodo si accende e si consuma un coraggioso tentativo: la costruzione di un partito radicato nel popolo che sarà presidio delle tante insidie antidemocratiche, ma che non riuscirà a porsi concretamente il problema della conquista del potere politico. Quando Secchia insiste in quegli anni per un’“attrezzatura adeguata” del partito, lo fa per una duplice ragione: – essere pronti in caso di ripresa delle mene fasciste e reazionarie (difesa); – mantenere un quadro di partito rivoluzionario e di classe, che lo salvaguardi dai rischi dell’omologazione e dai pantani del riformismo, che mantenga salda la strategia rispetto alla tattica, cioè l’edificazione del socialismo (controffensiva strategica-offensiva). Secchia accetta la svolta di Salerno togliattiana del marzo ‘44 (insieme a Luigi Longo e alla direzione milanese del PCI, contrariamente, all’inizio, alla direzione romana capeggiata da Scoccimarro) perché in quel momento rispondeva maggiormente alla fase della guerra di movimento: battere il nemico fascista ad ogni costo, azione politico-militare unitaria, ecc., non perdersi in bizantinismi ideologici che avrebbero costituito freno all’azione decisa contro il nemico. Ma non rinunciò mai a interpretare i capisaldi di quella linea politica, il “partito nuovo” e la “democrazia progressiva”, in senso classista e rivoluzionario. Quando nell’immediato dopoguerra Secchia prende la guida del settore organizzativo, quella linea politica deve e può trovare attuazione proprio e solo tramite l’organizzazione del partito: la verifica di una linea politica è nella lotta di classe, la verifica, per un partito comunista, è nell’organizzazione della lotta di classe. Ecco perché Secchia, anche in sede di ricostruzione storica, rivendicherà come una necessità assoluta l’“adeguata attrezzatura”, e dunque, in sostanza, la stessa coerente filosofia con cui aveva cercato di guidare il PCI dopo la Resistenza. “Partito nuovo”: e certo il partito cospirativo e dei piccoli gruppi con difficoltà di coordinamento tra di loro, non poteva più rispondere alla sfida della guerra di posizione, al primato della politica, alla necessità di legare a sé le grandi masse lavoratrici e dirigerle, con l’egemonia della classe operaia, verso il traguardo della propria assoluta autodeterminazione socialista, definitivamente fuori dal sistema dello sfruttamento capitalista. Ma ciò era possibile, allora, proprio perché si veniva da una guerra di movimento, dove la selezione dei quadri era avvenuta impietosamente nella capacità d’azione contro il nemico nazi-fascista, un patrimonio prezioso, indispensabile e insostituibile per costruire il radicamento di massa. In questo senso, “partito nuovo” era la continuità con la Resistenza, in una fase storica nuova, non certo il suo accantonamento. E democrazia “progressiva”, era soprattutto la convinzione che non più attraverso la rottura rivoluzionaria, l’ora x che sarebbe dovuta scoccare per la riscossa del proletariato, ma con la costruzione di un processo rivoluzionario, con la spinta ai movimenti di massa, si sarebbero potute ricostituire le basi per l’edificazione del socialismo nel nostro paese. Il partito comunista di massa, allora, era il partito radicato nel popolo, il partito della lotta di classe, che poteva assumere un profilo quantitativo straordinariamente consistente senza perdere la sua identità e la sua ragion d’essere per la qualità dei suoi quadri rivoluzionari. Azione politica, studio e lotta di classe, organizzazione: il gramsciano “blocco storico” doveva essere antagonista e di massa, opporre all’“apparecchio” delle classi dominanti dello Stato borghese, che aveva però dovuto cedere terreno sul terreno costituzionale proprio in virtù del grande ruolo assunto dal PCI nella lotta antifascista, un “apparecchio” potente e articolato, forte nelle minute pieghe della società subalterna, capace di una lotta a tutto campo, difensiva e offensiva, e in cui ogni tattica doveva divenire “opportuna”, non opportunistica, legata alla strategia e alla prospettiva socialista. Prospettiva che si costruisce con le proprie mani, non attendendo messianicamente l’intervento, prima o poi, della “patria socialista”. Nemico acerrimo dell’attendismo nella fase più acuta della guerra di liberazione antifascista dalle colonne de La nostra lotta, il giornale comunista più letto e seguito dai partigiani comunisti nel ‘43-45, Secchia lo sarà con altrettanto vigore nella fase post-bellica. Proprio il dirigente accusato, ancora oggi, a distanza di oltre sessant’anni, di preparare i famosi piani K per permettere ai cavalli moscoviti di abbeverarsi alle fontane di S. Pietro (mentre la borghesia reazionaria preparava ben più corposi piani di eversione antidemocratica e anticostituzionale!), spronava senza risparmiarsi in energie a prendere l’iniziativa, a non aspettare le direttive dall’alto, ad una vitalità che facesse riconoscere alle masse la qualità del militante e del quadro comunista, a farlo riconoscere come reale avanguardia della lotta di classe, in quanto interprete e rappresentante dei bisogni delle classi lavoratrici e del popolo. Ciò che era stato La nostra lotta negli anni precedenti, diventò Il Quaderno dell’attivista nel dopoguerra, pubblicato regolarmente per oltre dieci anni dal settembre 1946 al febbraio 1958, e nelle cui pagine è ben spiegata la filosofia dell’organizzazione di Secchia e, a nostro avviso, dell’intera leva di resistenti e quadri comunisti della lotta partigiana alle prese con il partito nuovo di impronta togliattiana4. Sfogliando l’annata 1954 de Il Quaderno dell’attivista, troviamo l’impegno di Secchia a ribadire la sua filosofia dell’organizzazione, legata indissolubilmente a una generale concezione pedagogica della politica, ma soprattutto a realizzare concretamente l’intenzionalità pedagogica del partito dei comunisti, elaborando una vera e propria didattica funzionale non alla riproduzione autoreferente di un ceto politico staccato dalle masse, processo tipico delle formazioni politiche di rappresentanza delle classi dominanti, ma diretta al fine dell’emancipazione, tramite la lotta, della classe lavoratrice guidata da avanguardie coscienti che costruiscono l’egemonia da classe dirigente prima di diventare dominante (dove è evidente l’impianto leninista e gramsciano del modello di riferimento valoriale). Secchia mantiene fede a quest’impostazione nella preparazione dei congressi provinciali e della IV Conferenza organizzativa di partito, che si terrà a Roma dal 9 al 14 gennaio 1955, dunque dopo il fatidico 25 luglio 1954 (fuga di Seniga, segretario e più stretto collaboratore di Secchia e successivo “processo interno” ed “epurazione” del dirigente comunista biellese). Nel n. 7 del 1 aprile 1954, “Il Qua – derno” dà conto di alcuni significativi passaggi del discorso di Secchia al Congresso provinciale di Sa – vona, tenutosi il 14 marzo di quell’anno, e in cui si ribadisce la necessità di legare l’azione politica incisiva, la lotta di classe, l’organizzazione di questa lotta, alla prospettiva strategica ineludibile per un comunista, il socialismo, senza cedere nulla all’opportunismo tatticista che era pericolo costante, questo Secchia lo sapeva bene, della politica togliattiana, né all’attendismo e all’inazione tipici della “sindrome della sconfitta”: “Non dobbiamo creare nessuna illusione, dobbiamo dire chiaramente ai lavoratori, agli operai, agli impiegati, ai contadini, ai lavoratori di ogni categoria che le cause fondamentali di tutti i nostri mali e delle nostre miserie saranno eliminate soltanto quando sarà eliminata la società capitalista. Ragione per cui è necessario che noi ci preoccupiamo non soltanto di guadagnare i lavoratori alle lotte immediate, ma di conquistarli all’ideale socialista, di persuaderli a lavorare e a lottare per obiettivi più avanzati. (..) Nessuno più di noi si rende conto che difficili sono le lotte e che esse costringono i lavoratori a duri sacrifici. Sappiamo anche che vi sono delle lotte che sono costate dolori, lacrime e sacrifici e che non hanno dato quei risultati immediati che noi avremmo desiderato, che i lavoratori si attendevano; ma non per questo dobbiamo lasciarci vincere dallo scoraggiamento e dall’apatia. (..) Dobbiamo studiare e scoprire nuove forme di azione e queste nuove forme si trovano con l’attività e con la lotta stessa. Nessuna nuova forma di lotta può essere trovata senza la discussione, senza il dibattito, senza lo scambio di esperienze. (..) Dobbiamo studiare di più. Ogni comunista deve far lavorare il suo cervello, deve tener conto di ogni esperienza di lotta, deve sforzarsi per assimilare e fare assimilare i princìpi e i metodi d’azione del marxismo e del leninismo. Quando noi parliamo di critica e autocritica noi non chiediamo delle vane lamentele sulle deficienze e sugli errori, ma chiediamo uno sforzo, un contributo da parte di tutti i compagni per scoprire le nostre debolezze, le nostre deficienze, le cause dei nostri errori, noi chiediamo un contributo di studio e di esperienza per impostare meglio, preparare e condurre con successo le lotte”5. Erano passati sette anni dalla Conferenza d’organizzazione di Firenze del gennaio 1947, in cui Sec – chia aveva riproposto con forza e convinzione e con esiti indiscussi la sua filosofia dell’organizzazione e le sue concezioni politico-ideali, ma in cui aveva anche interpretato la linea politica in senso classista e modernamente rivoluzionario. Così recentemente Lucio Magri, con estrema onestà analitica, ha sintetizzato la personalità di Secchia in quegli anni e la natura del modello organizzativo del PCI: “(..) Secchia non aveva un carattere caporalesco e autoritario, si circondava anche di giovani intelligenti (Bufalini, Di Giulio, Pirani), aveva un rapporto continuo e umanamente comprensivo, condivideva il nucleo della politica togliattiana, pur con non poche riserve sulla sua gestione. Era un quadro formato della Terza Internazionale nei primi anni trenta, non della sua degenerazione burocratica-repressiva: per lui il partito vero doveva essere inteso come un’avanguardia disciplinata, composta anzitutto dai quadri di origine operaia e legata in modo indissolubile alle scelte e ai destini dell’Unione Sovietica e del suo capo, perciò pronta ad affrontare ogni temperie. Non un soldato, tanto meno un aspirante deputato o sindaco, ma un rivoluzionario di professione, intelligente e creativo entro i limiti stabiliti e accettati. Alla costruzione di questo tipo umano assegnava la priorità e, in quello scorcio di tempo, il modello funzionava”6. Quella impostazione ora rischiava concretamente l’emarginazione, sotto il segno del “rinnovamento”, ma forse più prosaicamente per rendere l’organizzazione del partito adeguata a interpretazioni diverse della linea politica.

1948-1951: la dialettica del “partito nuovo”

Il periodo 1948/1951 era stato per Secchia il periodo di massima incisività politico-organizzativa: si potrebbe affermare che è proprio la fase in cui il rapporto politica/organizzazione si rovescia; il primato dell’organizzazione è de facto lo strumento attraverso il quale, nonostante le ripetute dichiarazioni contrarie, Secchia tenta un’applicazione della linea politica elaborata da Togliatti in chiave più marcatamente classista. E maggiori sono le asprezze della “guerra fredda”, maggiori devono diventare le capacità del partito di radicarsi nella classe e nella società e dunque essere pronto a fasi di “guerra di movimento” piuttosto che logorarsi in una permanente ma molte, troppe volte sterile “guerra di posizione”. Che ciò corrisponda ad un’attendibile ricostruzione storica della vita del PCI, viene dallo stesso atteggiamento di Togliatti, che progressivamente avvertirà un pericolo di leadership e di “svuotamento” della linea che vorrebbe sempre più marcatamente disponibile all’accettazione delle compatibilità del quadro politico generale (fino ad arrivare alla dichiarazione di disponibilità nei confronti dei governi) e dunque maturerà un’avversione nei confronti di Secchia e di quei dirigenti a lui legati, che da politica diventerà personale dopo le vicende successive all’incidente dell’agosto 1950 e il rifiuto togliattiano di accettare l’incarico voluto da Stalin di segretario del Cominform (gennaio 1951). La vicenda culminerà poi nel 1954 con l’estromissione di Secchia dalla segreteria nazionale e da responsabile dell’organizzazione e la sua definitiva emarginazione in seguito al “caso Seniga” del luglio 1954. La stella nascente che sostituirà Secchia sarà Giorgio Amendola, ma quella vicenda non è improvvisa: ha le sue basi di nascita e sviluppo proprio nel periodo 1948-51. La scomunica di Tito e l’attentato a Togliatti del luglio, inframmezzati dalla delusione per il risultato elettorale del 18 aprile, avevano rafforzato nel 1948 la sezione organizzativa diretta da Secchia. Egli assume responsabilità e compiti sempre più ampi, interpretando lo stesso modello organizzativo come principale strumento per l’egemonia piuttosto che la troppo flessibile arte della politica (e delle sue fasi contingenti), evidentemente, per la sua impostazione politico-ideale, anche pericolosa per lo “snaturamento” potenziale dei fini che il partito deve proporsi; d’altra parte si dimostra sensibile al malumore piuttosto diffuso per un partito dimostratosi non all’altezza di fronteggiare le sfide in corso. E non perché il 14 luglio sarebbe stata un’occasione propizia per scatenare un’insurrezione rivoluzionaria, questa si prepara e non si improvvisa, non è dietro gli avvenimenti ma davanti, ma perché incapace di fronteggiare l’urto del nemico e dunque di progettare la controffensiva. Ma un partito comunista incapace di questo, per Secchia, non ha futuro. Ciò è presente già al momento dei fatti immediatamente successivi al 14 luglio: “Perché non dobbiamo neppure in questo campo abbandonarci alla spontaneità e all’improvvisazione. Non siamo dei mestieranti, né dei dilettanti di politica. Nostro compito è quello di fare tutto quanto sta in noi per guidare con successo le lotte dei lavoratori contro i loro oppressori” e con l’esperienza maturata nella guerra di liberazione antifascista, scrive Secchia, sarebbe stata impensabile una tattica che portasse dallo sciopero generale di protesta al “coup de théatre” insurrezionale: “Si può seriamente pensare che noi avremmo seguito una tattica così idiota e tale da dare la possibilità e il tempo al governo di spostare le sue forze, di prendere tutte le misure atte a reprimere e a battere le forze popolari prima ancora che queste avessero iniziato la lotta decisiva? (..) Sarebbe pure grossolano errore pensare che non vi può essere uno sciopero generale politico vittorioso senza che questo sbocchi nell’insurrezione. Lo sciopero generale è uno dei mezzi di lotta più antichi del movimento operaio moderno”7. Un partito comunista di massa non può non essere un partito di quadri e di massa. Per diventare un partito di quadri e di massa, bisogna costruire un partito di quadri con una linea di massa, che non rinunci per l’arte politica ad un’intenzionalità pedagogica e dunque miri coscientemente a costruire un’egemonia nella società, ciò che permette il radicamento del partito di classe nel popolo. Questa filosofia dell’organizzazione che è essa stessa una concezione politica e che si risolve poi in una determinata pratica militante, inevitabilmente può sciogliersi se non supporta una linea adeguata e coerente. Secchia lo ribadisce nel suo intervento al Comitato centrale del 23-25 settembre, il primo dopo il 14 luglio, con un’impostazione che “rispetta una lineare coerenza di fondo e indica nel rafforzamento organizzativo – ma in senso antitetico a quello espresso dal carattere di massa del ‘partito nuovo’ – la chiave di volta della situazione”8. La reale contraddizione dialettica di quegli anni è proprio nell’individuazione del carattere di massa del partito “nuovo”: non dunque una maggiore o minore fedeltà a Mosca. Il legame con l’esperienza sovietica era molto forte sia al vertice che alla base nel PCI del dopoguerra, sia nelle varie sensibilità del gruppo dirigente. L’insistenza del primato di un modello organizzativo da parte di Secchia, che fa parte, come si è visto, anche della costruzione egemonica guidata da valori e fini che pedagogicamente devono intenzionalmente guidare l’azione politica, si riscontra pienamente negli anni ’48-’51, ed è dovuta a quella contraddizione dialettica, o ancora meglio, alla diversa architettura da dare al partito di quadri con una linea di massa e dunque radicato nel popolo, o al partito di massa molto attento al politicismo istituzionale. Entrambi si fregiano dell’etichetta di “partito nuovo”; e sono l’unico partito, il Partito Comunista guidato dalla linea politica di Togliatti e dalla “formidabile attrezzatura” di Secchia. Una dialettica che si dipana in un contesto che chi – ama all’azione continua dei comunisti per resistere ai colpi dell’offensiva reazionaria: dopo il 14 luglio 1948, si assiste ad un prolungamento dei conflitti di classe nel nostro paese, sia nel mondo agricolo che in quello industriale. La risposta dello Stato clericofascista post-18 aprile non si fa attendere a lungo. Dalla tribuna del VII Congresso del PCI vennero denunciate con dati di fatto le cifre della pesante repressione: il numero delle condanne comminate nel triennio 1948-50 supera quello del Tribunale speciale fascista nell’intero arco della sua esistenza: tra il 1948 e il 1950 sono condannati 15.249 comunisti a un totale di 7.598 anni di carcere. Tra il 1927 e il 1943 il Tribunale speciale aveva comminato 4.596 condanne per un totale di 27.735 anni di carcere9; nel periodo 1948-52, il repertorio compilato sulla base del New York Times Index, conta 65 morti per violenza politica in Italia. È il costo della ristrutturazione post-bellica delle classi dominanti, sotto l’egida anticomunista e clericale. Quando nel luglio 1949 il Sant’Uffizio di Pio XII scaglia la sua scomunica contro i nuovi e più pericolosi “infedeli”, i comunisti o i loro simpatizzanti palesi e/o occulti (“qui communistarum doctrinam materialisticam et antichristianam defendunt vel propagant”), Secchia nel Comi – tato Centrale dello stesso mese richiama alla coerenza di comportamenti tutti coloro, e i comunisti in primo luogo, che, pur non professando alcuna fede religiosa, si adeguano conformisticamente alla prassi corrente: “non dovrebbero essere tollerate certe forme di ipocrisia e di opportunismo di compagni atei i quali si sposano in chiesa e contribuiscono con i loro atteggiamenti pratici alla riuscita delle manifestazioni religiose”10. Ma è un mero riflesso etico; la posta politica alta Secchia l’ha ben presente, tanto da accentuare in questo periodo la sua concezione del partito leninista “organizzatore” diretto dei movimenti e del conflitto di classe: lo appunta nei suoi diari dopo l’eccidio sanguinoso di Modena (a Modena il 9 gennaio 1950, agli operai che protestavano contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite, la polizia aveva risposto sparando. Una azione preordinata che aveva provocato la morte di sei lavoratori: Angelo Appiani di 30 anni, Renzo Bersani di 21 anni, Arturo Chiappelli di 43 anni, Ennio Garagnani di 21 anni, Arturo Malagoli di 21 anni, Roberto Rovatti di 36 anni), dopo la pubblicazione su l’Unità del 12 gennaio dell’appello firmato dai parlamentari di PCI e PSI riuniti nella città emiliana: “Vi era chi riteneva che tale dichiarazione dovesse essere soltanto un monito severo ai governanti e la minaccia di un eventuale movimento generale e chi, come me, pensava che i movimenti generali non sorgono da soli se non si organizzano”11. Secchia non propone una velleitaria alternativa di carattere insurrezionalista, ma una accentuazione quantitativa della mobilitazione dal basso, nonché un’attivizzazione della propaganda nelle fila dell’Esercito e delle Forze Armate. È contro le due “deviazioni”: opportunista di destra ed estremista insurrezionalista, ma “il rischio maggiore per il partito in questo momento risiede, secondo lui, nella deviazione op- portunista ed è contro di essa che bisogna, in primo luogo, combattere”12. Secchia aveva già avuto modo di ribadirlo nel dicembre 1949, in un articolo per il fascicolo di Rinascita (a. VI, n. 12) dedicato ai 70 anni di Stalin, un’occasione per parlare del partito e del socialismo, non per cantare sterilmente le lodi e i peana al “grande maestro” e ciò che più gli preme è dare un contributo effettivo alla causa del socialismo, riprendendo la sfida del “partito bolscevico di massa”, vista la buona opportunità per sottolineare il “bolscevico” rispetto a “massa”. E questo partito deve essere formato da uomini di “una tempra particolare”, che non permettano l’omologazione e l’infiltrazione opportunista: “organismo vivente”, il partito si rinnova ogni giorno, ma non perde mai i suoi connotati. L’organizzazione non è uno schema prefabbricato, non predilige formulari dogmatici, ma è funzionale agli obiettivi politici: ecco perché la costruzione del processo rivoluzionario è una cosa seria, altro che piani K che il nemico strombazza per scongiurare il terrore che lo prende di fronte ad una capacità grande del partito di organizzare la lotta di classe! Non è l’apparato la forza del partito comunista, ma il suo profondo legame con le masse: il partito di quadri che riesce a radicarsi nel popolo, che diventa di massa e popolare, che non potrebbe vivere senza questa sintonia:13 “Ma un partito comunista non lo si crea una volta per sempre. Esso è un organismo vivente che opera nella società che si trova ad ogni momento di fronte a nuovi problemi e a nuove necessità, che si costruisce, si tempra, si rinnova perciò ogni giorno. Il Partito Comunista è un partito diverso da tutti gli altri, non serve solo per le campagne elettorali e per i dibattiti parlamentari. Non è un partito capace solo di condurre la lotta sindacale o di dirigere il lavoro cooperativo o l’attività propagandistica ed educativa. Il Partito Comunista dev’essere in grado di lavorare in tutti i campi, in ogni direzione ed in tutte le situazioni. I suoi principi organizzativi non costituiscono delle formule dogmatiche. Essi sono determinati assieme alle forme di lavoro e di organizzazione dagli obiettivi politici che il partito si pone in un determinato momento storico”14. Dunque, dopo le elezioni del 18 aprile, ci si interrogò non solo sulle cause politiche della sconfitta, ma anche su quelle organizzative, e nel corso di tutto il 1949, Secchia mise in guardia sullo stato critico del partito di fronte all’offensiva padronale, clericale e poliziesca15. Sul piano interno, la relazione che Secchia tiene nel Comitato Centrale del 30 luglio 1949 è un vero e proprio “manifesto” contro la burocratizzazione e il “caporalismo” e per la sollecitazione della creatività degli organismi di base: “Alcune federazioni non hanno ancora superato una mentalità burocratica; si limitano ad applicare le direttive e le iniziative che partono dall’alto. Per cui certi comitati direttivi si trasformano in strumenti esecutivi, invece di assolvere alla loro funzione di organismi dirigenti capaci di iniziative proprie. (..) Vi sono poi le cause di carattere pratico- organizzativo che possono individuarsi nella pesantezza della nostra macchina organizzativa che si mette in movimento con lentezza e a gradi; nel difettoso funzionamento degli organismi dirigenti intermedi (..). Le federazioni dirigono ancora le sezioni con sistema scolastico e primitivo. L’istanza inferiore non si muove se prima non ha ricevuto la direttiva dell’istanza superiore”16. C’è chi imputa a questo schema l’insufficiente “modernizzazione” del PCI, un circolo vizioso tra richiesta centralistica di iniziativa e di obbedienza insieme: insomma, una “doppiezza nella doppiezza”. E invece la sfida per un Partito comunista è proprio quella di non venir meno alla coesione interna sui fini e tratti identitari, pur nell’incessante capacità creativa dei suoi quadri di saper rispondere adeguatamente alle fasi storico-politiche. Il richiamo al valore della disciplina, della combattività, della razionalità e del controllo dell’esecuzione, dell’educazione ideologica, della coscienza politica, dell’applicazione delle decisioni, ecc.., sono ribaditi da Secchia anche nel Comitato Centrale del 10-12 ottobre 1950 che convoca il VII Congresso, laddove ammonisce che l’eccessiva pletorizzazione dei Comitati Federali possono svuotarne le prerogative: “(..) Il comitato federale dev’essere un organismo dirigente e non solo un organismo rappresentativo (..) bisogna evitare che il comitato federale diventi un organismo talmente grande e pletorico da perdere il suo carattere di organismo dirigente”17. Perché allora affermare che per Secchia “è solo questione di disciplina o di razionalizzazione tecnica”?18 Come tentiamo di dimostrare, qui e più complessivamente nel suo intervento al VII Congresso (3-8 aprile 1951) c’è un’analisi molto più ampia e propriamente politica, oltreché organizzativa. E inserita in un orientamento intenzionalmente pedagogico, di impianto leninista-gramsciano, rivolto alla formazione e selezione dei quadri in un processo di sfida per l’egemonia. Il PCI, gradualmente, negli anni 1954-56 e succes- sivi, prenderà un’altra strada. Proprio quello che è stato indicato con il processo di modernizzazione, pur in maniera non lineare e in modo contraddittorio (vedi la vicenda dello Statuto dell’VIII Congresso) del Partito Comunista, ne mina le fondamenta e subordina l’intera struttura organizzativa a una linea politica finalizzata integralmente al gioco imposto dal quadro politico complessivo. In breve, se l’opera e la riflessione politica di Secchia erano mirate a dare gambe a una strategia supportata da valori, idee e princìpi del marxismo, in particolare attraverso i contributi di Lenin e Gramsci (di cui in quegli stessi anni si pubblicavano dall’editore Einaudi – unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai famigliari – i Quaderni, curati dal dirigente comunista Felice Platone in sei volumi, ordinati per argomenti omogenei) con un’ottica di lavoro di massa capillare e pianificato di cui la tattica era un aspetto rilevantissimo ma coerente con quegli assunti, il PCI di Togliatti dopo il Congresso del 1951 tenderà a rendere centrale il momento tattico come preminente rispetto alle finalità strategiche e detterà modalità e tempi dell’aggiornamento e revisione dei princìpi, caratteristica progressiva nella vicenda del PCI post-togliattiano (pur con fasi diverse e con modalità affatto univoche e lineari) in particolare la perdita di una cosciente intenzionalità pedagogica per costruire l’egemonia delle classi subalterne e un’aderenza a logiche politiche deprivate di finalità strategiche. Un mutamento però che non avverrà nell’arco di un tempo breve: e le maggiori resistenze gli si porranno proprio dall’impianto e dalla struttura organizzativa, la cui “decostruzione” avrà bisogno di tempi differiti, non esistendo altre forme organizzative se non quelle proprie di chi ha rinunciato a trasformare la società in senso socialista. Sono questi i veri motivi che porteranno all’emarginazione di Secchia nel 1954, un’emarginazione che Togliatti programmò subito dopo gli avvenimenti dei primi mesi del ’51 (quelli che precedettero il Congresso). I pretesti, fossero quelli di una complicità di Secchia con Stalin per esautorare Togliatti da segretario del PCI per collocarlo alla guida del Cominform, come nel 1951, o quelli di una scarsa vigilanza nei confronti del transfuga Seniga, nel 1954, potevano essere anche diversi. In realtà, dal 1951 al 1954, inizierà la tendenza ad accantonare l’idea che un Partito Comunista non settario né opportunista, di quadri e di massa, potesse continuare a lavorare per un processo rivoluzionario in direzione del socialismo, come indicato da Gramsci, e che frutterà sì postazioni favorevoli alle classi lavoratrici, ma pur sempre nel quadro delle compatibilità dettate dalle classi dominanti e dunque su basi non permanenti. Un processo non lineare e immediato, lo ripetiamo, non privo di contraddizioni, specie perché filtrato dalla passione, dai sentimenti, dalla coscienza dei militanti e dell’intero popolo comunista. Ma anche qui, appunto, si scopre la fecondità della marxiana dialettica materialista nell’analisi e nell’interpretazione storica: sempre la realtà è più complessa delle rappresentazioni descrittive con cui ci si sforza di comprenderla.

Note

1 Cfr. P.Secchia: I corpi armati dello Stato dopo la Liberazione, in Critica marxista, quaderno n.5, febbraio 1972, sta in La Resistenza accusa, Mazzotta, 1973, pp. 553-577.

2 L’espressione è in AS (Archivio Secchia), ‘Diari’, quaderno n.11, 1971, Annali Feltrinelli a. XIX, Milano, 1979, p. 587.

3 Vi è una conferma della tesi in un passaggio di una lettera di Secchia a G.C. Pajetta: “quando ogni volta che si insisteva per tener duro in certe lotte si tirava fuori la situazione greca, come se difendere con maggior forza certe posizioni conquistate significasse voler… fare l’insurrezione”, cfr. AS, relazioni di viaggio e corrispondenza, cit., lettera a G.C.Pajetta, 6 ottobre 1970, p. 730.

3 Cfr. Il “Quaderno dell’attivista” – Ideologia, organizzazione, propaganda, nel PCI degli anni ‘50, (a cura di Marcello Flores), Mazzotta, 1976. «Diretto ai militanti di base e ai quadri intermedi dell’organizzazione, – è scritto nella quarta di copertina – questo periodico intendeva essere uno tra gli strumenti creati per favorire la crescita e il rafforzamento del ‘partito nuovo’. Rivolto inizialmente a orientare il lavoro di reclutamento con un’impostazione prevalentemente ideologica-propagandistica, con gli anni il ‘Quaderno dell’attivista’ diventa sempre più specchio fedele del partito: della sua linea politica ma anche, e soprattutto, della sua struttura organizzativa, della sua funzione politica di avanguardia, delle sue scelte di lotta. La scelta dei testi cerca di offrire l’orizzonte il più ampio possibile degli argomenti, dei problemi, degli avvenimenti legati alla lotta di classe negli anni Cinquanta e del modo in cui essi venivano recepiti e riproposti dagli uomini che dirigevano l’organizzazione e la propaganda. La presenza politica nel paese, il radicamento nella classe operaia e nella società, la lotta contro l’offensiva padronale e il potere democristiano, i dibattiti interni sull’organizzazione e le lotte degli operai e dei contadini, i mutamenti tattici, la contraddittoria elaborazione strategica, le scelte organizzative di partito, emergono dalle pagine del ‘Quaderno dell’attivista’ come una testimonianza diretta e insostituibile per la comprensione storica della “questione comunista”».

4 Ivi, pp. 163-66.

5 Cfr. Lucio Magri, Il sarto di Ulm – Una possibile storia del Pci, Il Saggiatore, 2009, p. 109.

6 Cfr. P. Secchia: Lo sciopero del 14 luglio, Roma, 1948, pp. 26- 27 e 28-29, cit. precedente p. 22. Tutto l’opuscolo, scritto “a caldo”, ci sembra un “doppio messaggio” del responsabile Organizzazione del Pci, all’avversario e ai militanti del partito. All’avversario si manda a dire che il Pci non si troverà im- preparato di fronte a nulla, ma “sa cosa fare”; ai militanti del partito si dice: a) non era certo il momento propizio per scatenare un’offensiva rivoluzionaria, che comunque non si improvvisa; b) il moto di protesta, lo sciopero generale, è riuscito, se non altro a dimostrare la forza del partito. Altri obiettivi erano impossibili.

7 Cfr. Gozzini, Martinelli: Storia del Partito Comunista Italiano – Il “partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile, Einaudi, 1995, p. 68.

8 Cfr. Dal Pont, Leonetti, Maiello, Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del tribunale speciale fascista, La Pietra, 1976, p. 548.

9 AS, cit., p. 223.

10 Ivi, pp. 224-25

11 Cfr. Gozzini/Martinelli, op. cit., p.82. Inoltre, “se sul piano delle proposte le distanze tra Togliatti e Secchia appaiono evidenti, sul piano dell’analisi tendono invece ad appianarsi nella comune equazione tra anticomunismo e antidemocraticità attribuita i governi centristi”, ivi, p. 84.

12 Su questo articolo e sulla categoria dello “stalinismo” applicata a Secchia, cfr. la presentazione di F. Dubla a P. Secchia: I quadri e le masse, – Per un Partito Comunista radicato nel popolo, ed. Laboratorio politico, 1996, pp.121-124.

13 Cfr. P. Secchia: La costruzione del Partito Comunista, in Rinascita, anno VI, n. 12, dicembre 1949, sta in ivi, pp. 132-33.

14 Ha scritto Massari: “Le soluzioni indicate da Secchia concernevano la necessità di maggiore disciplina, di razionalità e di controllo dell’esecuzione, di educazione ideologica, di coscienza politica, di applicazione delle decisioni, nonché di un maggior impegno nella lotta contro l’opportunismo, di uno sviluppo dell’attività di critica e autocritica, di un miglioramento della composizione sociale del partito e dei suoi organismi dirigenti attraverso l’inserimento di un maggior numero di operai”, cfr. La sezione , in Il Partito Comunista Italiano. Struttura e storia dell’organizzazione – 1921-1979, Fondazione G. G. Feltrinelli, Annali a. XXI (1981), Milano, 1982, p. 166.

15 AS, cit., p. 223.

16 Cfr. VII Congresso nazionale del Partito comunista italiano. Documenti politici del Comitato Centrale, della Direzione e della Segreteria, Roma, 1951, p. 220.

17 Cfr. O. Massari: La Federazione, in PCI. Struttura e storia dell’organizzazione