Piani Fiat: per i lavoratori un’agonia infinita

Siamo ormai al 4° Piano Industriale presentato dalla FIAT negli ultimi 18 mesi per tentare di far fronte allo stato di dissesto in cui è precipitata la più grande industria italiana.
Dopo anni nei quali si sono occultati i conti e si sono drogate le quo-te di mercato della casa torinese con la tecnica delle “chilometri 0”, anche Cantarella non è più riuscito a nascondere il disastro, aggravato anche dalla decisione di aumentare l’indebitamento del Gruppo per garantire lo shopping americano del Presidente Fresco con l’acquisto di CASE e PICO. Ha questa origine il primo dei 4 Piani della FIAT, quando a dicembre 2001 l’azienda annuncia una ristrutturazione che taglierà 6.000 posti di lavoro all’estero e chiuderà 17 stabilimenti in tutto il mondo, di cui 2 a Torino (Fiat Rivalta).
Naturalmente la passione per “i giochi di prestigio” nel gruppo dirigente Fiat non si affievolisce, e al Sindacato l’azienda racconta che non vi saranno ripercussioni in Italia. Subito dopo Cantarella viene dimissionato con 40 miliardi di lire di risarcimento e arriva Boschetti, che nel breve volgere di 2 mesi presenta un nuovo piano: il 2°.
A maggio dello scorso anno, la FIAT annuncia 3.500 esuberi in Italia, 2/3 dei quali a Torino. Smentendo se stessa, e scaricando tutte le responsabilità sul precedente gruppo dirigente, il nuovo management spiega i licenziamenti come “l’ultimo sacrificio necessario” per affrontare la crisi, e accompagna questa decisione con una nuova struttura organizzativa che divide Fiat Auto in 4 Businnes Unity per ridurre i costi e un nuovo programma di investimenti fino al 2005.
Quasi tutti in Italia cominciano a capire che non siamo più di fronte alla ciclica ristrutturazione e molti, sollecitati anche dalla FIOM e dalla CGIL, cominciano a pensare che la FIAT non sta dicendo tutta la verità.
Tutti meno Fim, Uilm e Fismic, che dopo un finto negoziato, a luglio del 2002 firmano il Piano della FIAT e gli consentono di procedere con l’espulsione dei lavoratori.
Passano meno di 2 mesi ed ecco il nuovo colpo di scena: anche Bo-schetti si è sbagliato. Le perdite di bilancio che si mangiano tutte le operazioni di cessione messe in campo dal Gruppo, e la perdita di quote di mercato di FIAT Auto che in un solo anno passa in Italia dal 35% al 30% delle vendite “impongono – dice Boschetti – nuovi sacrifici e un nuovo Piano”.
È l’ottobre del 2002 quando la FIAT presenta il 3° Piano. Questa volta il prezzo è altissimo, 8.100 esuberi, la chiusura di Arese, il ricatto su Termini Imerese che chiude e potrà riaprire solo se i lavoratori accetteranno un peggioramento delle loro condizioni con il taglio dei tempi di lavoro, e il progressivo smantellamento di Mirafiori con la fine delle produzioni della Marea e della Panda, senza che siano destinati a Torino nuovi modelli sostitutivi.
Inizia a quel punto un conflitto durissimo in tutti gli stabilimenti, e comincia a farsi strada l’idea che la FIAT non ce la farà e che la capacità di comando e l’autonomia nelle scelte della casa torinese vengono, giorno dopo giorno, indebolite dalla pressione del sistema finanziario, esposto in modo gravissimo e preoccupato della non solvibilità della FIAT, e fagocitate dal grande alleato americano, la General Motors, che aumenta il proprio potere ben oltre il 20% delle azioni possedute, facendo valere il proprio potere di veto sulla ricapitalizzazione di FIAT Auto, come ha dichiarato Wagoner Amministratore Delegato della General Motors, e confermate anche dal nuovo Amministratore Delegato della Fiat Morchio in queste settimane sui giornali.
A dicembre del 2002 a Roma, a Palazzo Chigi, il Governo annuncia di avere raggiunto un’ intesa con la FIAT e firma un Accordo di Programma che accoglie integralmente il 3° Piano e concede alla FIAT risorse per poter espellere 2.500 lavoratori dagli stabilimenti con la mobilità lunga.
L’accordo tra Governo e FIAT, come già era avvenuto con General Motors prima e con le Banche poi, esclude il sindacato ed i lavoratori dal negoziato e dal controllo del processo di ristrutturazione.
L’azienda, che pratica sul campo la concezione del “dialogo sociale” inaugurata dal centro-destra e dalla Confindustria, procede sulla sua strada senza pagare prezzi al Paese e colleziona stabilimento per stabilimento, intese separate firmate da FIM e UILM che cooptano quei sindacati dentro al Piano Industriale dal quale erano stati esclusi insieme a CGIL-CISL-UIL alla Presidenza del Consiglio.
Nel frattempo sono cambiati tre gruppi dirigenti alla FIAT, dopo Cantarella e Testore vanno via, dopo una breve apparizione, Galatei e Barberis e si dimissiona anche Fresco, individuato da molti come uno dei principali responsabili delle operazioni finanziarie che hanno messo in ginocchio l’azienda. Dopo la morte di Giovanni Agnelli arriva un nuovo Ammini-stratore Delegato: è il dott. Morchio scelto da Umberto Agnelli per affrontare una situazione che non offre segni di miglioramento.
Morchio, appena insediato annuncia un nuovo Piano per la fine di giugno: il 4° in 18 mesi.
Il 13 maggio del 2003 a Torino si svolge l’Assemblea degli azionisti del Gruppo FIAT, e per la prima volta la FIOM partecipa all’assemblea con il supporto degli esperti della Banca della Solidarietà, a cui la Fiom e la Cgil hanno dato l’incarico tecnico di analizzare i bilanci per restituire ai lavoratori, ma anche ai piccoli azionisti ed agli imprenditori della componentistica, la trasparenza che è finora mancata sulle scelte e sul destino di un comparto industriale decisivo per le sorti del Paese.
L’iniziativa della FIOM sostenuta dagli esperti finanziari mette in evidenza il carattere velleitario delle scelte fino ad allora compiute, incapaci di risanare e rilanciare le attività del Gruppo FIAT. L’indebita-
mento finanziario è salito ad oltre 27 miliardi di Euro (era a 14 nel 1998), il bilancio del 2002 si chiude con un buco di 4.260 milioni di Euro, con il degrado significativo di tutti gli indicatori economico-finanziari, compreso l’autofinanziamento che assume un preoccupante valore negativo.
Alla assemblea degli azionisti la FIAT non prospetta alcuna misura per il rilancio della Fiat e si limita a rimandare qualunque soluzione alla presentazione del 4° Piano industriale, il piano Morchio che verrà reso noto a fine giugno.
Sembra che il nuovo piano “rottami” la nuova struttura organizzativa ideata da Boschetti, e che tramite questa operazione di unificazione nelle funzioni si interverrà sui “doppioni” con nuovi licenziamenti. Le scelte di Morchio saranno senza dubbio condizionate dalle scelte dell’alleato americano e da una situazione di Bilancio che anche per il 2003 si annuncia gravissima.
La Fiat continua a perdere quote di mercato (sotto il 29% in Italia e al 7,1% in Europa) e i risultati del 1° trimestre 2003 consuntivano una perdita di 700 milioni di Euro e un indebitamento, che nonostante le cessioni avvenute, è salito a oltre 28 miliardi di Euro.
La vendita della TORO e dell’AVIO invece di dare fiato a nuovi investimenti o anche solo ad intervenire per ridurre il debito pregresso, serviranno a tamponare gli assorbimenti di cassa e i debiti che farà quest’anno la FIAT.
Dal punto di vista industriale la FIAT non ha prodotto alcuna innovazione nei suoi programmi; sul piano finanziario la situazione è vicina al collasso, con una esposizione smisurata dell’intero sistema bancario nazionale; il Governo e purtroppo anche le istituzioni locali, che nei mesi scorsi si erano mobilitate a fianco dei lavoratori, sembrano aver accettato (lo si desume dal silenzio di questi mesi) tutto ciò come un destino inevitabile, il Sistema politico brilla per la sua assenza. I lavoratori sono soli e sembrano gli unici davvero interessati a difendere e rilanciare l’azienda.
Questi 18 mesi hanno reso evidente lo stato di dissesto del Gruppo Fiat e l’inadeguatezza del management, che non è in grado di gestire una crisi strutturale così profonda né di proporre alcun piano realistico e convincente per il suo superamento. Attendere, dare credibilità ad un management e ad una proprietà che stanno portando l’azienda allo sfascio non è più possibile.
Bisogna prendere atto che l’attuale assetto manageriale e proprietario della FIAT non ha futuro, e che solo un mutamento radicale nel governo della società e nell’analisi delle cause di questo dissesto, con la predisposizione degli interventi industriali e finanziari necessari, può impedire al paese di perdere il controllo di una produzione strategica come l’automobile.

Quella della FIAT è innanzitutto una crisi industriale, di strategie e di prodotto. La radice strutturale di questa crisi risiede nella scelta, compiuta dall’azienda già nell’80 di caratterizzare la sua presenza sui mercati con vetture di segmento basso e a basso prezzo, e con una strategia tutta rivolta al contenimento dei costi. Una politica che a 20 anni di distanza ha confinato la FIAT nella produzione di utilitarie, tradizionalmente a bassa redditività. Man mano che è cresciuta la competizione sulle utilitarie e sulle city car, con una violentissima guerra sui prezzi, la FIAT, incapace di competere sull’intera gamma dei prodotti automobilistici, ha visto erodere sempre di più i propri margini. Questa scelta è stata aggravata da politiche della proprietà che hanno distolto ingenti risorse dalle attività industriali per investire in operazioni finanziarie e speculative, si pensi all’avventura nelle telecomunicazioni o alla recente scalata della Montedison.
I Piani di risanamento presentati ripropongono tutti le stesse strategie del passato: licenziamenti, riduzione della capacità produttiva installata, una forte riduzione dei costi. Piani velleitari, privi di qualunque intervento sul prodotto e sull’innovazione.
Gli investimenti previsti sono del tutto insufficienti: 2,6 miliardi di Euro all’anno, contro i 3,6 di PSA, i 2 miliardi di Euro della Renault solo sul modello della Megane o i 4,5 miliardi di dollari spesi da GM sull’ultimo nuovo modello. Non c’è un piano che acceleri il tourn-over dei modelli FIAT oggi presenti sul mercato, né è previsto un serio piano per colmare il gap tecnologico che sui prodotti a basso impatto ambientale (metano, idrogeno, fuell-cell) separa la FIAT dai più grandi produttori automobilistici (la Toyota metterà sul mercato nel 2004 le prime auto ad idrogeno, la VW industrializzerà tra poco un motore diesel da 1 litro per 100 Km).
Quella che sempre più nitidamente appare a tutti noi come a molti analisti è una “strategia dell’abbandono” delle attività industriali. Perchè a differenza dell’80 e del ’93, la FIAT non ha oggi una strategia di rilancio industriale. Nell’80 voleva ridurre i costi, e per farlo doveva piegare il sindacato, ma aveva una strategia (quella della fabbrica automatica) e soprattutto aveva un prodotto; la UNO, nel ’93 puntava su un nuovo modello organizzativo, sulle terziarizzazioni e la riduzione del capitale fisso investito e aveva un prodotto eccellente la PUNTO; oggi non ha nulla, nè una strategia nè un prodotto, perchè la STYLO viaggia su vendite inferiori alle previsioni del 40%.
Gli effetti sociali a breve di queste strategie sono riassumibili nella cancellazione di decine di migliaia di posti di lavoro alla FIAT (Mirafiori è passata in 3 anni da 27.000 a 15.000 addetti) e circa 30.000 nell’indotto. Un vero e proprio disastro, concentrato tra l’altro nell’area di Torino, dove risiede la parte più consistente della componentistica italiana e dove sono collocati 2/3 degli esuberi FIAT, e che tra l’altro sta già subendo i colpi di una delocalizzazione produttiva (si pensi che se nel 1997 si producevano a Torino quasi 600.000 vetture all’anno, nel 2002 se ne sono prodotte 300.000 e nel 2003 con la fine della Panda si scenderà sotto le 150.000 vetture).
Ma i guasti maggiori saranno quelli di medio e lungo periodo, perchè senza un piano industriale di rilancio dell’intero settore autoveicolistico in Italia, le politiche della FIAT porterebbero ad ulteriori smagrimenti occupazionali e produttivi, fino alla totale perdita del controllo sul prodotto, che trasformerebbe l’industria dell’auto italiana in una industria di “assemblaggio” e quindi povera, che marginalizzerebbe l’intero paese ad un ruolo di sub-fornitore in concorrenza non con le aree forti del mondo, ma con l’est europeo ed i paesi a nuovo sviluppo.
Il paese rischia di perdere l’ultimo grande sistema industriale che fa da volano per l’innovazione tecnologica di tutta la piccola e media industria italiana.
Servono politiche industriali pubbliche che concentrino risorse sullo sviluppo e sulla ricerca, servono politiche del credito che agevolino la piccola e media impresa, servono politiche che indirizzino produzione e consumi verso i veicoli a basso impatto ambientale e che ridisegnino i piani di mobilità, trasformando il pubblico in un volano dell’innovazione di prodotto.
Ma non c’è dubbio che prima di tutto c’è una scelta tutta politica da fare, quella di aprire un negoziato vero tra l’azienda ed il sindacato, che fino ad oggi non c’è mai stato, rompendo quella “convenzione ad escludere” il sindacato che ha caratterizzato tutta questa fase con una complicità che ha coinvolto la Fiat, il Governo, e l’intero sistema finanziario fino agli organismi di controllo.
Bisogna dare vita ad una “Nuova FIAT” con un nuovo management ed un nuovo assetto proprietario, dove lo Stato e le istituzioni locali, nei limiti imposti dalla comunità europea, svolgano un ruolo primario, raccogliendo le risorse necessarie a realizzare un rapido cambio dei prodotti di Fiat Auto e gli investimenti necessari sulle nuove tecnologie a basso impatto ambientale, chiamando in causa i nuovi o potenziali acquirenti (General Motors innanzitutto, ma non solo) per concordare scelte che rilancino e difendano l’industria dell’auto in Italia.