Perché ho firmato l’Appello del 17 aprile scorso

*economista

Sono tra i firmatari dell’appello per l’unità dei comunisti che è stato pubblicato su diversi quotidiani il 17 aprile scorso. L’ho sottoscritto perché in quel momento mi sembrava la cosa più ragionevole e ovvia da fare. Non ho cambiato idea. Neppure le critiche provenienti da molti esponenti del PRC, e anche da qualcuno del PdCI, mi hanno convinto del contrario. Al contrario, ho trovato in alcune di queste dichiarazioni critiche dei veri e propri fraintendimenti del testo che avevo sottoscritto. Qualche esempio. 1. La Costituente comunista: “scelta da museo, di pura sopravvivenza, di chi crede che la sconfitta sia irrimediabile e si rifugia appunto nel vecchio orticello” (Nichi Vendola, l a Repubblica, 11 maggio 2008). Però nell’appello si legge: “proponiamo una prospettiva di unità e autonomia delle forze comuniste in Italia, in un processo di aggregazione che, a partire dalle forze maggiori (PRC e PdCI), vada oltre coinvolgendo altre soggettività politiche e sociali, senza settarismi o logiche auto-referenziali”. 2. “Il problema non è l’identità comunista intesa come eredità statica” (Gennaro Migliore, intervista a l a Rinascita della sinistra, 8 maggio 2008). Però nell’appello si legge: “Abbiamo il senso, anche critico, della nostra storia, che non rinneghiamo; ma il nostro sguardo è rivolto al presente e al futuro. Non abbiamo nostalgia del passato, semmai di un futuro migliore”. 3. “Sono contrario alla Costituente della sinistra, così come a quella comunista; queste proposte invece di unire spaccano la sinistra su appartenenze ideologiche” (Paolo Ferrero, intervista a Liberazione, 16 maggio 2008). Però nell’appello si legge: “Il nostro non è un impegno che contraddice l’esigenza giusta e sentita di una più vasta unità d’azione di tutte le forze della sinistra che non rinunciano al cambiamento. Né esclude la ricerca di convergenze utili per arginare l’avanzata delle forze più apertamente reazionarie. Ma tale sforzo unitario a sinistra avrà tanto più successo, quanto più incisivo sarà il processo di ricostruzione di un partito comunista forte e unitario, all’altezza dei tempi”. “Scelta da museo”, “identità comunista intesa come eredità statica”, scelta che “spacca la sinistra su appartenenze ideologiche”. Mi sembra evidente che né la lettera, né lo spirito dell’appello possano legittimare interpretazioni del genere. E allora perché lo si fraintende? Lasciando da parte i posizionamenti tattici precongressuali, che non sono del tutto comprensibili a chi scrive (e comunque tirarli in ballo significherebbe fare un processo alle intenzioni che qui è fuori luogo), mi sembra che le posizioni citate sopra siano viziate da alcuni cliché che ormai sono profondamente penetrati anche a sinistra. Quando si dice che la proposta di unità dei comunisti è “roba da museo”, “che l’identità comunista è intesa come eredità statica”, si fanno affermazioni che non hanno molto a che fare con il testo che viene criticato. Ma che hanno invece qualcosa a spartire con il modo in cui oggi l’informazione e la politica politicante dipingono il comunismo: per l’appunto roba da museo, un’eredità del passato che al passato resta aggrappata, una bandiera ideologica che non serve più a nulla. Secondo una nota formulazione di Marx il comunismo è “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. È difficile sottrarsi all’impressione che questa formulazione abbia oggi subito un ironico rovesciamento, che ha trionfato nella coscienza comune: è lo stato di cose presente che ha abolito il movimento comunista, privandolo di ogni possibilità di futuro e consegnandolo al passato. Secondo questo punto di vista, oggi largamente egemonico, i comunisti sarebbero portatori di una vuota teleologia, di un millenarismo senza oggetto che finisce per convivere da un lato con prassi concrete che non hanno nulla a che fare con una prassi di trasformazione dell’esistente, dall’altro con un culto della memoria sterile e patrimonio di cerchie iniziatiche sempre più ristrette. Millenarismo nebuloso e culto monumentale di un passato morto e sepolto, che in concreto convivono con una pratica politica di conservazione. Diverse reazioni al nostro appello nascono anche da questi luoghi comuni. Ora, i firmatari dell’appello non ignorano affatto che oggi il “comunismo” è associato – nella migliore delle ipotesi – a qualcosa di museale, di statico e di ideologico. Ma pensano che questa associazione sia dovuta da un lato al bombardamento ideologico politico e mediatico a senso unico avvenuto nei quasi venti anni che ci separano dalla caduta del muro di Berlino, dall’altro alle politiche insoddisfacenti condotte dai due partiti che in Italia si richiamano alla tradizione comunista. E credono che non basti evocare l’“innovazione” per produrla, né ritengono che tutto ciò che si autodefinisce “nuovo” sia veramente tale. Troppe volte in questi anni dietro il feticcio del nuovo si è nascosto malamente il vecchio. Troppe volte si è scambiato per un “superamento del Novecento” quello che in verità era un ritorno all’Ottocento (alla sua assenza di garanzie per chi lavora, alle sue guerre coloniali, alle sue dame di carità). Di fronte a tutto questo, le fughe in avanti, il frettoloso voltare pagina (Andreotti giorni fa ammoniva che a suon di voltare pagina il libro finisce), il vergognarsi di ciò che si è, ovviamente travestito da “apertura al nuovo”, sono destinate ad un miserabile fallimento: per il semplice motivo che sono operazioni insincere che come tali sono percepite. La catastrofe elettorale dell’aprile scorso – che può facilmente aprire la strada ad altri e più definitivi fallimenti – insegna anche questo. Contro tutto questo, l’appello dice una cosa molto semplice, già nel titolo: “cominciare da noi”. Dice cioè che il punto di partenza inevitabile per ricostruire una sinistra degna di questo nome sono i comunisti, a partire da coloro che si raccolgono nel PRC e nel PdCI, ma aperto ai comunisti che (come chi scrive) non fanno parte di nessuno dei due partiti, ai comunisti attivi nel sindacalismo di base e nella parte più avanzata della CGIL, a quelli che hanno dato vita al movimento contro le basi militari in Italia, e così via. Già nell’uso del verbo “cominciare” è chiaramente espresso che si tratta di un punto di partenza, non di un punto di arrivo. Ma questo punto di partenza è inaggirabile. Lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio il fallimento politico ed elettorale del progetto della Sinistra Arcobaleno, insipido e privo di identità quanto il simbolo che gli era stato affibbiato. Abbiamo scritto che “rivolgiamo un appello… perché non si liquidino le espressioni organizzate dei comunisti e anzi si avvii un processo aperto e innovativo, volto alla costruzione di una ‘casa comune dei comunisti’”. Francamente, mi riesce difficile capire cosa vi possa essere di “statico” (o addirittura “regressivo”: ancora Migliore) in questa proposta. Diciamo le cose come stanno: al di fuori di una cerchia ristretta di gruppi dirigenti, ci sono ben pochi elettori del PRC e del PdCI che non ritengano insensata la presenza di due partiti comunisti in Italia; e forse la sicura modifica in senso antidemocratico della legge elettorale per le elezioni europee convincerà di questa insensatezza anche una parte di quei gruppi dirigenti. Detto questo, è evidente che il problema non è di convenienza elettorale, ma di buon senso. A meno che l’ostacolo non sia oggi la definizione stessa di “comunista”. In effetti, è ovvio che chi ha appena finito di liquidare il comunismo riducendolo a una “tendenza culturale” (riduzione, prima ancora che politicamente sbagliata, semplicemente insensata, in quanto il comunismo non è mai stato soltanto una “tendenza culturale”) non applauda a scena aperta un’ipotesi che prevede di “ripartire dai comunisti”. Ma allora il problema è politico. E chi la pensa così dovrebbe avere il coraggio di disfarsi anche della denominazione di Rifondazione Comunista. Se non lo fa, è per il timore che perdere il “marchio” possa provocare dei danni sul mercato elettorale. (Anche su questo, come sull’operazione “Sinistra Arcobaleno”, aleggia lo spettro della Bolognina e di ciò che ne seguì: come si ricorderà, infatti, allora il PCI fu liquidato, ma il PDS mantenne la proprietà del marchio e del simbolo.) Ma quali sono le vere alternative in campo? Da una parte abbiamo un processo di riunificazione che, per la prima volta da due decenni in qua, sarebbe un processo riaggregativo, e non di ulteriore diaspora a sinistra (e già questo consentirebbe di essere più della somma delle parti). Dall’altra, un tirare a campare, continuando a coltivare i rispettivi orticelli, in modo più o meno “innovativo”. Magari col retropensiero che quel simbolo e quel nome vadano prima o poi cambiati con qualcosa di più aggiornato, moderno e accattivante. Non mi sembra difficile capire quale delle due alternative possa maggiormente giovare alla ripresa delle battaglie sociali, culturali e politiche richieste dalla drammatica situazione attuale. “Faccio parte di coloro che pensano che si debba continuare a cercare delle alternative al capitalismo. Il capitalismo non ci può bastare… Un esempio: crede che ci sarà possibile controllare con successo i cambiamenti climatici senza porre vigorosamente in questione la dinamica del capitalismo?… Si tratta di fenomeni che il capitalismo e il suo sistema di valorizzazione non permettono di affrontare”. Queste parole non le ha dette un comunista “identitario” e “statico”. Le ha dette il direttore dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio (il WTO). Sono affermazioni utili se non altro a dirci quanto negli stessi piani alti dell’establishment mondiale si vada diffondendo la consapevolezza dell’insostenibilità della situazione attuale. Non si vede perché ciò che è concesso a Lamy non debba essere concesso a noi, o ci debba costare l’accusa di essere utopisti fuori dal tempo o cupi venditori di sogni totalitari. Non si vede perché questa consapevolezza della necessità del cambiamento non si possa tradurre in una prassi coerente, finalizzata – qui e ora – a combattere le crescenti ingiustizie sociali, e più in generale rivolta a far sì che l’umanità giunga a dirigere consapevolmente il proprio sviluppo anziché lasciarne la direzione alle forze “impersonali” del mercato capitalistico.