Per un’exit strategy dal berlusconismo

*segreteria naz.le PdCI; responsabile Organizzazione

È’ NECESSARIO ORGANIZZARE LA FUORIUSCITA DAL BERLUSCONISMO, MA URGE PURE LA COSTRUZIONE DI UNA FORZA POLITICA CHE SIA ESPRESSIONE DEL MONDO DEL LAVORO

Anche noi – la composita entità che chiamiamo sinistra, intendo – abbiamo la necessità di definire una exit strategy, quella dal berlusconismo. Non è compito semplice, perché non è semplice il fenomeno col quale dobbiamo fare i conti. Esso infatti va oltre il livello, pur qualificante e comunque prioritariamente ineludibile per tutti gli oppositori, del governo Berlusconi: investe il tema del blocco sociale di cui quel governo è proiezione, include la dimensione di regime con cui ha teso a permeare l’intera realtà italiana, rinvia infine al modello neo ottocentesco conformemente al quale si sta tentando di plasmare la nostra società. L’exit strategy della sinistra dev’essere alternativa a tutto questo, e le nostre azioni lo devono essere in eguale misura: con lucida consapevolezza sia degli obiettivi sia dei rapporti di forza tra gli schieramenti contrapposti e al loro interno.
Il berlusconismo non è affatto finito, come tanti, come troppi hanno cominciato a ripetere dopo lo straordinario successo delle opposizioni alle elezioni regionali. È venuta a proposito, purtroppo, la sconfitta di Catania a rammentarci che è sempre sbagliato vendere anzitempo la pelle dell’orso. E poi ci sono state Bolzano e Rovereto, dove il centro sinistra, dato sicuramente vincente, ha invece perso. Le dinamiche territoriali, dove incidono fattori non sempre preventivati, possono riservare sorprese amare: tanto più che non è corretto proiettare meccanicamente i risultati proporzionali delle regionali sulle elezioni politiche, dato che il meccanismo maggioritario li stravolge in larga misura. Allo stato delle cose, nell’Italia del Nord in termini di collegi non si è spostato quasi nulla dal centro destra al centro sinistra; nel Sud va un po’ meglio, ma non moltissimo, come ci suggerisce, appunto, da ultimo, anche il caso di Catania. A essere ottimisti, se tutto va bene il centro sinistra avrebbe un margine di vantaggio esiguo, calcolabile in poche manciate di collegi. Se tutto va bene…
Ma già ora non tutto va bene. Anzi. Nel centro sinistra la discussione sui contenitori, sui contenuti programmatici e sulle reciproche relazioni, oltre che stucchevole è sempre più autolesionistica. Ciò vale al centro come a sinistra: ovunque si vogliano forzare le differenze profonde (non solo quelle ideali e materiali, ma anche quelle psicologiche e di ruolo, che pesano altrettanto) che il passato ci consegna dentro spazi politici e organizzativi troppo rigidi o troppo escludenti, il risultato non può essere altro che l’accentuarsi delle contraddizioni e dei conflitti. Mentre per combattere il berlusconismo serve esattamente l’opposto, sia in termini di contenuti sia in termini di contenitori, perché non si danno gli uni senza gli altri se non per strumentalità argomentativa di chi punta a imporre il proprio contenuto- contenitore escludendo quelli altrui: “qual è la forma dell’acqua?”, gli chiederebbe Camilleri.
Serve l’unità, dunque, ma l’unità possibile. Vale a dire l’unità rispettosa delle differenze sia ideali, sia politiche, sia organizzative. Se si conviene che l’unità del centro sinistra è fondamentale, si deve anche convenire sul fatto che al soggetto relativamente unitario dell’ Unione – un’unità di soggetti diversi e autonomi e concorrenti, che va costruita col confronto e mantenuta sul consenso –corrisponde come massimo contenuto comune possibile la Costituzione. Che è dire tutto e nulla, lo so, ma che, intanto, costituisce un discrimine fondamentale tra l’insieme della forze che vi si riconoscono (variamente eredi del primo compromesso storico che ha preso appunto la forma della Costituzione), e l’insieme delle forze che vi si contrappongono (quelle della destra secessionista, padronale, e di matrice fascista); e che, poi, in quanto compromesso tra diverse idealità, diversi valori o diverso modo d’intenderli e diversi progetti di società, costituisce anche il teatro di una dialettica e, al limite, di una contesa che non deve diventare distruttiva tra le diverse forze che concorrono a difenderla, ma hanno idee diverse su come essa debba evolversi (essendo, per me, naturale il rifiuto di qualsivoglia formula regressiva sul tipo del “Torniamo allo Statuto” invocata oltre cent’anni fa, in un’epoca di transizione non dissimile dall’attuale ma di segno sociale e politico opposto, da un reazionario come Sidney Sonnino).
La democrazia si difende sviluppandola, sosteneva il Pci togliattiano. La sinistra attuale può sostenere, analogamente, che la Costituzione si difende attuandola; e che attuare la Costituzione implica sviluppare la democrazia. Nella situazione data, battersi in tutte le direzioni per attuare la Costituzione è quanto di più alternativo si possa dare nella vita politica italiana: centralità del lavoro, ripudio della guerra offensiva, antifascismo coerente, socialità dello stato, laicità delle istituzioni, reale divisione dei poteri. autonomia della magistratura, sistema di governo effettivamente parlamentare… Su questi temi, e su tanti altri di analogo rilievo costituzionale, la sinistra deve e può essere unita nel dire la sua e nell’esigere dai suoi alleati la comprensione del fatto che porsi fuori o superare questi pilastri non solo valoriali ma anche programmatici (per le conseguenze operative, di governo, che ne derivano) significa introiettare il berlusconismo anziché combatterlo e, dunque, significherebbe minare l’Unione e registrare la sconfitta prima ancora di ingaggiare la battaglia elettorale del 2006. Noi siamo invece determinati a fare tutto il possibile per vincerla, quella battaglia. Ciò significa, però, che per contrastare e invertire la pervasiva transizione contro la Costituzione in corso da troppo tempo, la sinistra deve sapere radicare la sua lotta politica e istituzionale negli interessi di concreti pezzi di società, da ricomporre in un blocco sociale alternativo a quello delle destre. Alla base di questo blocco sociale la sinistra non può non collocare l’insieme del mondo del lavoro con al centro la classe operaia. Cominciamo a ribadire in ogni circostanza che quella della ‘scomparsa’ della classe operaia italiana è una fola ideologica interessata, priva di alcun fondamento fattuale, che va contrastata con la massima determinazione sul piano sia della lotta culturale sia di quella sociale e politica. Gli operai nel 1970 erano in Italia oltre 9 milioni e mezzo; oggi, trentacinque anni dopo – e dopo una trasformazione epocale delle campagne, che ha visto ridursi al minimo il numero dei salariati agricoli – essi sono 7 milioni e 300.000: una cifra che è assolutamente rilevante sotto il profilo quantitativo, ma pressoché ininfluente socialmente, culturalmente e politicamente. Ciò è stato frutto di molteplici e noti processi: la profonda modificazione della relazione tra grande e piccola impresa (per esempio oggi gli operai Fiat sono oggi 50.000, a fronte di un indotto che ne conta oltre 150.000), l’accresciuta disunione anche territoriale dei lavoratori, il venir meno di molte condizioni materiali dell’identità operaia, l’indebolimento del sentimento di sé (della coscienza di classe: quando una coscienza di classe è sopravvissuta al contributo volonteroso e sapiente che, anche da sinistra, molti hanno dato a devastarla) e dell’orgoglio del proprio ruolo produttivo e della propria funzione sociale, l’insicurezza salariale e del lavoro, la paura del futuro per sé e per i propri figli, il crescente isolamento materiale e, soprattutto, culturale.
Per chi sta a sinistra non esiste alternativa possibile al berlusconismo che non affronti di petto il nodo del lavoro, in tutte le sue attuali articolazioni materiali, sociali, culturali e politiche, con l’obbiettivo di ricostruirne la centralità e l’influenza. Nostalgia del bel tempo che fu? Tutt’altro. Convinzione che al processo di declino economico del nostro Paese, precipitato ormai nella recessione come effetto di scelte che hanno espropriato lo Stato del ruolo di governo e di regolazione dell’economia, si può reagire esclusivamente facendo perno su logiche di classe alternative a quelle sinora dominanti e, dunque, centrate su un intervento consapevole dello Stato per indirizzare il sistema produttivo italiano lungo direttrici coerenti con gli interessi generali (e dunque rispettose sia del lavoro umano, sia del capitale da esso prodotto, sia del capitale naturale), e su un progetto di difesa e di rilancio del welfare all’interno di un modello di sviluppo alternativo a quello liberista che nega appunto la compatibilità tra welfare e sviluppo. È convinzione, perciò, che il soggetto più interessato a essere protagonista (per evitare di restare, altrimenti, vittima) di questa lotta per la riconversione ecologica e sociale dell’economia è l’insieme del mondo del lavoro, di cui la classe operaia è ancora tanta parte. La condizione necessaria per un’azione efficace del mondo del lavoro è che esso torni a disporre di adeguati strumenti sindacali e politici. Chiunque militi in un partito di sinistra o, più ancora, vi abbia compiti di direzione, non può sottrarsi alla domanda se gli attuali strumenti politici (per quelli sindacali spetta in primo luogo a altri interrogarsi) siano adeguati. La risposta è no: divisi, frantumati, litigiosi, spesso minuscoli come siamo non siamo adeguati, non siamo idonei a svolgere la funzione di rappresentanza che ci attribuiamo né, tanto meno, quella di difesa efficace di quel mondo. D’altro canto, chi è persuaso che i partiti siano ancora la nomenclatura delle classi, quante classi dovrebbe inventarsi per giustificare la propria esistenza? E, tuttavia, so bene che queste esistenze contano: contano le storie, spesso le biografie, sempre le organizzazioni, e dunque bisogna tenerne conto ma senza rassegnarsi alla deriva della frantumazione che ci trascina dal 1991. Dobbiamo trovare antidoti, invertire le tendenze finora prevalenti; e sperimentare vie inevitabilmente nuove: ma perché sarebbe politicistico porsi l’obiettivo di dare agli interessi del mondo del lavoro – cioè al minimo contenuto, possibile e insieme necessario, comunque obbligato, della ricomposizione unitaria della sinistra all’interno del centro sinistra – una rappresentanza più forte e efficace di quella attuale? O perché sarebbe prematuro fare ora quel che si dichiara di volere fare domani, dopo le elezioni del 2006? Si crede proprio che il tempo sia una variabile indipendente per chi ha il problema dell’occupazione, del salario, delle protezioni sociali, dei diritti? Che si possa rispondere domani, e forse mai, ai bisogni di oggi? Che questi bisogni non siano contenuti che esigono idonei contenitori? Qual è, chiedo nuovamente, la forma dell’acqua?
Un pretesto per rifiutare o per rinviare il percorso dell’unità possibile si trova sempre: se non è Stalin è Cuba, se non è Cuba sarà la Costituzione europea, oppure la non violenza… Ma proprio queste sono miserie politicistiche, anche se condite da ormai logore declamazioni sulla politica calata dall’alto, centrate sugli ombelichi di esponenti politici che nella loro vita spesso non hanno fatto altro che questo. Miserie che pagano sempre meno, in ogni caso, come dimostrano, una dopo l’altra, le scadenze elettorali. E che sono miopi e autolesionistiche: perché nessuno di noi – dobbiamo ficcarcelo in testa – è in grado di edificare su se stesso l’unità politica del mondo del lavoro, mentre ciascuno di noi è nella condizione di impedire agli altri di farlo. Bisogna prenderne realisticamente atto.
I problemi da affrontare per imboccare la strada di una reale alternativa al berlusconismo sono evidentemente molti, ma senza la contestuale ri-costruzione di una forma di organizzazione politica che sia effettiva e coerente espressione del mondo del lavoro è certo che essa non potrà mai essere percorsa fino in fondo. La costruzione dell’unità confederale della sinistra, come sintesi di contenuti e contenitore, è dunque la nostra sfida, prioritaria e ineludibile.