Per una filosofia e una teoria della storia

Può avere ancora senso riflettere su un’idea ‘forte’ della storia, quella che si definisce tra la fine del diciottesimo e la metà del diciannovesimo secolo, tra la celebrazione kantiana dell’entusiasmo universale per l’89 e l’annuncio marx-engelsiano di una nuova, imminente rivoluzione? E, soprattutto, può risultare ancora utile, non solo dal punto di vista teorico, ma anche e soprattutto politico, rappresentarsi il corso delle vicende umane come un «processo nel quale la razionalità realizza sé stessa, si incarna nel mondo, modificandolo, e in questo faticoso cimento accresce le proprie conoscenze e capacità»? Una convinta e affermativa risposta a queste domande, e in particolare alla seconda, sta alla base dell’ampio saggio di Alberto Burgio (Strutture e catastrofi – Kant – Hegel – Marx, Editori Riuniti, lire 35000)
L’autore non nasconde lo scarso favore che incontrano oggi i concetti, le nozioni e financo i termini legati a quella rappresentazione del processo storico, in cui la modernità si dichiara, postulando «una entità collettiva, tendenzialmente universale, impegnata nella realizzazione delle proprie finalità razionali (nella prassi)». Al contrario, egli riconosce all’atteggiamento disincantato, tipicamente postmoderno, verso le ‘grandi narrazioni ottocentesche’ un potere pervasivo, una capacità di egemonia, anche e soprattutto all’interno delle culture critiche emerse negli ultimi decenni. E nell’atteggiamento ‘conflittuale’ che queste ultime continuano a intrattenere con la modernità – presupponendola come termine negativo di un ‘discorso’ che spesso si limita a rovesciarne di segno i valori –, egli scorge il sintomo di un rapporto irrisolto, che si traduce non di rado in debolezza politica – come Burgio stesso ha argomentato nel suo saggio precedente, Modernità del conflitto (Derive/Approdi, Roma 1999), in particolare nella seconda parte, dedicata a mostrare l’attualità della critica marxiana del socialismo, con particolare riferimento al più recente dibattito teorico-politico.

La storia dal punto di vista cosmopolitico

Muovendosi in controtendenza, Burgio risale quindi alle fonti di questo modo ormai desueto di guardare alla storia, che per buona parte del Novecento ha costituito il quadro di riferimento teorico per i più importanti movimenti di emancipazione collettiva. E assumendo come bussola della propria ricerca l’asse Kant-Hegel-Marx, ritorna in quel luogo decisivo del pensiero europeo che è la ‘grande filosofia classica tedesca’. La prima, compiuta rappresentazione dell’intera vicenda umana come un processo unitario, in cui il genere umano afferma la propria libertà sottomettendosi ai vincoli di una ragione universalistica, si definisce appunto nell’ambito della riflessione filosofico-politica di Kant. Saldamente radicata in un punto di vista cosmopolitico, tale visione si articola secondo due motivi principali: l’affermarsi di una razionalità economica, attraverso una mediazione spontanea degli interessi privati, secondo la logica della ‘mano invisibile’ di A. Smith, da un lato; dall’altro l’imporsi, su questa base, di una razionalità morale che informa di sé la realtà, trasformando l’imperativo ipotetico dell’interesse rischiarato – dell’agire economico – in imperativo categorico dettato dalla ragion pratica, ovvero fondato sui principi di autonomia e di universalità. In questo modo Kant reinterpreta in termini tedeschi, cioè filosofici, il messaggio politico dell’89 francese, scorgendo in esso l’annuncio della nuova era dei diritti universali, in cui si instaura un nuovo ordine internazionale, fatto di repubbliche che si autogovernato e dove, per effetto dell’interdipendenza creata dal commercio, ogni violazione del diritto individuale viene avvertita come un’offesa dall’intero corpo sociale.

Dialettica hegeliana e scoperta del lavoro

Il primo, importante apporto a questa concezione della storia – che Burgio ricostruisce in maniera assai articolata, inseguendo gli slittamenti semantici del concetto kantiano di natura – viene fornito da Hegel. Non si tratta qui certo del filosofo reazionario, dell’ideologo dello stato prussiano che conosciamo da una certa vulgata interpretativa, ma piuttosto dell’‘operaio della filosofia’ cui il giovane Marx riconosce il merito di aver scoperto “l’essenza del lavoro”.
Riguardando Hegel con questi ‘occhiali’ interpretativi, l’attenzione si concentra naturalmente sulla dialettica signoria/servitù, la famosa figura della Fenomenologia dello spirito con cui si apre il movimento dell’autocoscienza. Scopo della lotta è il riconoscimento, che non può venire dalla negazione assoluta di uno dei sue soggetti in lotta, ma dal rapporto di subordinazione in virtù del quale la coscienza che rimane attaccata alla vita si sottomette all’altra coscienza, quella che non esita invece a rischiare la morte. In una relazione che vede la prima ‘pagare’ il proprio legame con la vita sensibile con il lavoro, cui viene costretta dalla seconda, la quale, per parte sua, trova nella liberazione dalle incombenze materiali la ‘ricompensa’ per la dimostrata indipendenza dal mondo. Ma è proprio attraverso il lavoro che la relazione si rovescia; infatti, l’attività formativa che il servo esercita coattamente sulla natura, per renderla atta al godimento del signore, si traduce in una più alta consapevolezza di sé – la certezza di chi, avendo trasformato il mondo, si ritrova in esso come a casa propria –; mentre l’autocoscienza apparentemente più ‘coerente’, quella che si realizza attraverso il rapporto mediato con la cosalità – dedicandosi cioè al mero consumo e alle ‘occupazioni superiori’ –, è destinata a scoprire la propria dipendenza dalla coscienza servile.
Nel luminoso quadro storico tracciato dal filosofo di Königsberg si innesta quindi un nuovo, decisivo motivo teorico, che deriva da una più approfondita riflessione sugli scritti degli economisti inglesi e francesi. Seguendo una tradizione interpretativa consolidata – che rimonta appunto al giovane Marx, ma annovera, tra gli altri, i nomi di Lukacs, Kojève e Marcuse – Burgio considera questa dialettica come qualcosa di più che una tra le tante esperienze della coscienza. E avvalendosi di numerosi luoghi dell’opera hegeliana dedicati al tema del lavoro – dalla Propedeutica filosofica, alle Lezioni di filosofia della storia, passando per le Lezioni di filosofia del diritto, per arrivare all’Enciclopedia delle scienze filosofiche – mostra come essa si saldi per un verso alla concezione hegeliana della storia, e, per un altro, al tema, solo apparentemente teoretico, del nesso dialettico tra ragione e realtà. Non potendo qui ripercorrere tutti i passaggi dell’argomentazione – che si misura con i più recenti orientamenti interpretativi – ci limitiamo a sottolinearne il punto cruciale, intorno a cui ruota il passaggio successivo. Alla base del modo in cui Hegel analizza le patologie della società moderna, come il pauperismo e la disoccupazione, Burgio intravede infatti il medesimo schema logico operante nella lotta per il riconoscimento. “Il conflitto tra ricchezza e povertà (disoccupazione) costituisce una variante del rapporto servo/signore, che, nell’ampliare l’ambito sociale rappresentato dalla figura del “servo”, non modifica tuttavia il significato essenziale della relazione”. Al posto della soggettività astratta postulata da Kant, subentra così una figura assai più concreta, che si riproduce lavorando e che attraverso il lavoro istituisce un duplice rapporto: con il mondo naturale, da un lato, e con le altre soggettività dall’altro; e invece della relazione paritaria tra individui formalmente eguali, entra in gioco un rapporto asimmetrico, di asservimento, in cui un individuo è sottomesso ad un altro.

Dalla filosofia alla teoria della storia

Arriviamo così a Marx. O, meglio, torniamo al Marx dei Manoscritti economico-filosofici, il giovane hegeliano che, scoprendo nell’opera del maestro “tutti gli elementi di critica dell’economia politica”, si appresta a oltrepassare i confini della filosofia, per fornire, su queste basi, una nuova e più cogente teorizzazione della storia come svolgimento progressivo. Lasciato sullo sfondo il rapporto di signoria e servitù, centrata quindi l’analisi sul rapporto tra lavoro salariato e capitale, Marx traduce in termini materialistici l’ontologia hegeliana e giunge a individuare nel proletariato industriale – in quanto incarnazione moderna del lavoro servile – il soggetto ‘in carne e ossa’ del processo storico, destinato a sanare la lacerazione tra mente e corpo, restituendo l’agire pratico-teorico alla sua potenzialità originaria (ciò che Marx intende con il concetto di “prassi”).
Nella seconda parte del saggio, Burgio sviluppa questa tesi interpretativa attraverso una rilettura dell’opera marxiana tesa a evidenziare le implicazioni epistemologiche che accompagnano il passaggio dalla filosofia alla “teoria della storia”, delineando una nuova concezione del lavoro teorico, che – a partire dall’Ideologia tedesca, se non dai Manoscritti del ’44 – si distingue nettamente dalla filosofia tout court. Gli elementi portanti di tale ‘rottura’ sono più in particolare individuati nella rinuncia definitiva alla concezione onnicomprensiva del sapere, nell’adesione a un empirismo sui generis, che tempera l’attenzione per il ‘fatto’ con una moderna consapevolezza circa la non neutralità dei dati osservativi, ma, soprattutto, nel ‘movimento pendolare’ con cui la ricerca marxiana si realizza, oscillando cioè tra l’istanza sistematica dei testi economici, che punta a interpretare i fenomeni sociali attraverso l’elaborazione di strutture teoriche, e la strategia osservativa messa in campo nei numerosi scritti di argomento storico e politico (saggi, interventi politici, lettere, ecc.), volta a comprendere la specificità di eventi storici determinati, anche attraverso la partecipazione diretta. In altri termini, mentre da un lato si adotta il metodo naturalistico proprio delle scienze empiriche, che consiste nell’assumere tutti gli elementi in gioco come funzioni di un equilibrio dinamico – quello che assicura la riproduzione della formazione economico-sociale –, riducendo i soggetti sociali a semplici maschere di categorie economiche, dall’altro si dimostra una spiccata sensibilità per quegli eventi catastrofici in cui le strutture della vita economica individuate dalla teoria vengono messe in crisi dall’azione consapevole dei soggetti sociali. Siamo così giunti al punto centrale del libro. Attraverso la rivalutazione di questa ‘dimensione evenemenziale’, che agisce come momento di verifica e di correzione del lavoro analitico, emerge infatti il legame profondo tra la ricerca marxiana e le filosofie della storia di matrice idealistisca. Al tempo stesso, diviene possibile difendere la teoria marxiana dalle critiche di quanti (M. Weber, G. Sorel, B. Croce e K. Popper tra gli altri), sopravvalutando gli elementi evoluzionistici presenti nella sua componente economica, l’hanno tacciata di determinismo riduzionistico. Contro tali interpretazioni Burgio si impegna a mostrare come, non solo nei testi di contenuto storico – dove Marx scopre l’insospettata “autonomia delle forme politiche”, o la persistenza di figure intermedie come la piccola borghesia, o l’effetto destabilizzante della guerra – ma anche negli scritti economici – dove l’attenzione per le cause antagonistiche lo porta a formulare previsioni probabilistiche –, si delinei una strategia di indagine più complessa.

Il caso russo

A conferma di questa interpretazione, l’ultimo capitolo del libro offre un’ampia ricostruzione della riflessione sulla situazione russa sviluppata da Marx nel suo ultimo decennio di vita. Più che alla notevole mole di studi sulla rendita – che sarebbero dovuti confluire nella VI sezione del terzo libro del Capitale – Burgio si riferisce alla notevole mole di lettere, appunti e altri testi incentrati sulle prospettive politiche legate alla crisi dell’impero zarista. Qui si delinea infatti un mutamento di prospettiva, un nuovo interesse, che porta Marx a studiare il russo per approfondire le questioni dell’obscina – la comune contadina russa, tipica forma precapitalistica di produzione. Mutamento solo in parte spiegabile con l’intuito del vecchio rivoluzionario, che ‘fiuta’ l’avvicinarsi di profondi sconvolgimenti. Secondo Burgio si tratta piuttosto di un ultimo e particolarmente significativo esempio del movimento pendolare sopra descritto. In particolare, il progressivo distacco dalle posizioni dottrinarie dei marxisti russi – che in nome di un rigido evoluzionismo consideravano la distruzione dell’ob__ina come una conseguenza necessaria dello sviluppo capitalistico – e il favore dimostrato per le tesi dei populisti – che a quella forma precapitalistica attribuivano un ruolo politico decisivo alla comune contadina – vengono letti da Burgio come altrettanti indizi di un aggiustamento rilevante, che investe non solo le ipotesi stadiali formulate nei Grundrisse e nella Prefazione del 1859, ma, più in generale, prefigura “una nuova configurazione della transizione al comunismo: nuova e in linea di principio incompatibile con l’idea della funzione universalmente progressiva della modernità borghese” (p. 200).

E la critica dell’economia politica?

Può risultare utile, in conclusione, provare a esplicitare quelli che appaiono essere i principali punti critici dell’argomentazione. Gran parte dei quali si addensano intorno all’ultimo passaggio, quello che da Hegel conduce a Marx. Accentuando fortemente la continuità con le filosofie della storia di matrice idealistica, si viene infatti a sottovalutare un motivo essenziale della riflessione marxiana, l’unico in cui, a nostro avviso, si può rintracciare una vera e propria rottura epistemologica. Ci riferiamo alla critica dell’economia politica, quale si configura nell’opera matura di Marx (in particolare nei quattro libri del Capitale, Teorie sul plusvalore comprese).
Che non si tratti di una semplice componente della ricerca marxiana – cioè di uno tra i diversi saperi che confluiscono nella teoria della storia – ma piuttosto dell’asse centrale intorno a cui quella ricerca si sviluppa, ci sembra provato da diverse circostanze, che indichiamo schematicamente. La prima attiene al rapporto con Hegel, e segnatamente all’uso marxiano della dialettica signoria/servitù.
L’insufficienza sostanziale di tale figura rispetto agli scopi conoscitivi di Marx, si misura infatti dalla massa di elementi concettuali che la critica dell’economia deve dedurre per dimostrare l’esistenza dello sfruttamento nelle condizioni propriamente moderne, cioè capitalistiche (dalla nozione di valore a quella di plusvalore; dalla distinzione tra lavoro e forza-lavoro alla teoria del salario; senza scordare le categorie di profitto e di rendita).
Infatti, a differenza di quanto avviene nelle società capitalistiche, dove si ha estrazione diretta di pluslavoro, nella società moderna lo sfruttamento è dissimulato dalla forma di merce, responsabile di quell’eccezionale fenomeno, anch’esso caratteristico della società moderna, che Marx designa come ‘feticismo’ – l’apparenza, tanto fallace quanto necessaria, per cui le relazioni economiche tra uomini vengono da questi percepiti come rapporti tra cose, di modo che, per esempio, la forza produttiva del lavoro si trasforma in forza produttiva del capitale. In questo quadro, segnato dalla prepotente comparsa sulla scena di un terzo fattore di produzione, il capitale – fisicamente rappresentato dalla massa sempre crescente di macchine e mezzi di produzione –, che sussume sotto di sé il lavoro sociale e la condizioni naturali della vita, il processo di autocomprensione del soggetto storico sembra risolversi integralmente nella critica dell’economia politica.
D’altra parte, proprio in virtù del nesso tra teoria del valore e teoria del feticismo, tale progetto teorico si distingue nettamente dalla scienza economica borghese, anche dal punto di vista epistemologico. Infatti, poiché non naturalizza il proprio oggetto (il rapporto di produzione capitalistico), ma lo concepisce come risultato di un processo storico, essa non pretende certo di scoprire l’ordine naturale della società, ma si accontenta di individuare le leggi necessarie della produzione borghese; in ciò differenziandosi anche dal punto di vista metodologico, attraverso quel “metodo genetico” che Marx contrappone al procedere analitico, tipicamente empirista, degli economisti classici (specialmente inglesi). In questa prospettiva, la netta distinzione che Burgio stabilisce tra le due dimensioni della ricerca marxiana tende dunque a svanire, mentre l’oscillazione tra i due poli sembra spiegabile nei termini di una ‘normale’ relazione di complementarietà, ispirata da una corretta divisione del lavoro teorico.
Sarebbe interessante ‘testare’ questa esegesi alternativa proprio con riferimento agli scritti sulla questione russa dell’ultimo Marx, laddove i motivi storici e politici si intrecciano strettamente con la questione cruciale della teoria della rendita.
Ma si tratterebbe senza dubbio di operazione assai complessa, che presupporrebbe tra l’altro l’accesso a testi in buona parte ancora inediti.
Nel suggerire il tema, rimandiamo senz’altro il lettore al saggio di Burgio, cui spetta l’indubbio merito di rilanciare la discussione sull’impianto categoriale di un pensiero critico all’altezza dei tempi.