Per un unico e più forte partito comunista

– Docente di Diritto Romano, Oliviero Diliberto è soprattutto conosciuto per essere il Segretario del PdCI, partito nato dieci anni fa dalla divisione con Rifondazione. E così, avvolto da una nube di fumo dell’immancabile sigaro, Diliberto inizia a parlare della società italiana, del pericolo delle destre e di quel progetto politico al quale sta dedicando il grosso della sue energie: portare avanti un dialogo con Rifondazione per risanare quella rottura della quale, lui di questo ne è arciconvinto, oramai ne sono venute meno tutte le ragioni politiche. L’incontro va avanti così, tra analisi politiche e ricordi personali delle esperienze di cui è stato protagonista in prima persona e di cui si vedono le tracce sulle pareti del suo ufficio, tappezzate di ricordi. “Come vedi, su questi muri ci sono tanti stati canaglia”, borbotta sornione e mi indica le foto degli incontri avuti in Siria, Vietnam e quelle dei tanti incontri con i dirigenti storici del movimento comunista internazionale, da Alvaro Cunhal al generale Giap. Questo è il peggior governo che il Paese ha avuto negli ultimi decenni che colpisce i lavoratori ed i giovani. Eppure prima della forte protesta degli studenti era riuscito ad abbacinare e legare a sé anche il Pd in nome di una discontinuità col passato. Insomma Diliberto, che destra è quella che ci governa, secondo te?

Avverto un pericolo molto serio: l’esito delle ultime elezioni non è un banale disastro elettorale ma qualcosa di più profondo. È infatti arrivato a precipitazione un fenomeno di lungo periodo che ha origine almeno a metà degli anni ’80, portando alla trasformazione di un intero sistema di valori (e di una gerarchia tra di essi) e che nel tempo ha davvero sovvertito i fondamenti della società italiana. Oggi la vecchia profezia marxiana, secondo cui le idee dominanti sono le idee della classe dominante, si è pienamente avverata. Berlusconi ha creato un elettorato, usando la propria potenza di fuoco mediatica e colpendo il sistema di valori dei grandi partiti di massa della cosiddetta “prima Repubblica”, in particolar modo il solidarismo cattolico e l’egualitarismo della sinistra marxista. I valori che sono stati veicolati prima dalle tv commerciali e subito dopo dalla televisione pubblica, con un inseguimento al ribasso, sono l’egoismo sociale, il rampantismo, l’individualismo: il denaro è diventato l’unico metro per giudicare le persone. Faccio un esempio: quando ero un ragazzo gli insegnati guadagnavano pochissimo, come adesso, però avevano uno status importante perché la cultura era considerata un valore in sé. Oggi, poiché l’unico metro per giudicare le persone è il denaro (e non più la cultura, la buona educazione, l’onestà), agli insegnanti, guadagnando una miseria, non viene più riconosciuto alcun ruolo sociale. Questo è il portato di un disegno politico oggi più che mai evidente: Berlusconi vuole dare un colpo mortale alla scuola, alla cultura e alla ricerca, perché più viviamo nell’ignoranza e nella superficialità e più gli italiani votano per lui. In questo capovolgimento culturale, la destra si appropria di immagini e temi cari della sinistra cambiandone le ragioni e le aspirazioni di fondo. Assisto sgomento a tutto questo, anche perché capisco che a monte c’è la superficialità di una certa sinistra che, in nome del “nuovismo”, ha ancora una volta abbandonato la sua ragion d’essere lasciando a Berlusconi uno spazio enorme. Questo fenomeno può avere ancora lunga durata: spetta alle opposizioni invertire questa tendenza, ma ciò è possibile solo se si riscopre il gusto dell’orgoglio della diversità. Noi siamo cosa diversa da questa cultura e da questa politica, se inseguiamo le destre sul loro terreno -come fa il Pd- siamo inesorabilmente destinati alla sconfitta.

– È in questo che declini la diversità comunista?

Soltanto con una radicalità ed alternatività di fondo a questo iniquo sistema sociale si può essere credibili in una battaglia politica. Le contraddizioni di classe che oggi si accentuano, ci dicono che lo spazio del compromesso riformista è sempre più ridotto. Avere il coraggio di dire cose controcorrente è oggi esiziale: se qualcuno non inizierà a farlo, non ci si riprenderà più dalla questa profonda crisi. Ed il terreno per cominciare a vincere non lo troveremo sventolando un’identità genericamente di sinistra: o i ceti popolari ci individuano come radicalmente diversi ed incompatibili con questo sistema o per noi sarà la fine.

– Giusto, ma non possiamo non prendere atto che i comunisti oggi, in Italia, sono in difficoltà. Ci può essere allora un “nuovo inizio”? E come lo immagini?

Noi abbiamo intitolato il nostro congresso proprio facendo nostro questo spirito: un nuovo inizio. Sono passati esattamente 10 anni dalla scissione del ’98 ed oggi credo che non abbia più molto senso che ci siano in Italia due partiti comunisti diversi e divisi (parlo ovviamente del Prc e del Pdci che sono, non dico i più grandi, ma almeno i meno piccoli). La nostra proposta è chiara ed io ne sono convinto in maniera “entusiastica”: rimettiamoci tutti insieme! Siamo ridotti ai mini termini, abbiamo bisogno di unità. E la richiesta di cominciare dai comunisti non viene da me, ma dai cittadini italiani che hanno decretato il disastro dell’esperienza dell’Arcobaleno. Non posso non augurarmi che l’esito del congresso del Prc aiuti questo percorso. Guardo con rispetto alla discussione nel Prc, ma anche con molta apprensione visto che dal suo esito derivano conseguenze per tutta la sinistra. La nostra linea è semplice: intanto rimettiamo assieme i due partiti comunisti. So che con la componente de l’ernesto la sintonia su questo è totale e spero che si possa arrivare in tempi ragionevoli – quelli che sono necessari alla politica, ma ragionevoli – alla riunificazione perché se continueremo ad essere divisi, ci spazzeranno via. Anche perché con le leggi elettorali che si fanno avanti (a livello nazionale, europeo, ma anche locale) con soglie di sbarramento tali da impedire l’ingresso alle forze antagoniste, o ci si mette insieme o, separati, non si va da nessuna parte.

– E infatti Berlusconi vuole cambiare la legge elettorale per blindare il quadro istituzionale e non dare spazio a nessuna forma di opposizione.

Per un marxista, e tanto più per uno come me che si ritiene – molto modestamente – un leninista, le istituzioni non sono il luogo della sintesi, ma sono esse stesse il luogo del conflitto. Non esiste la raffigurazione secondo cui c’è la società dove si produce conflitto e, separatamente, nelle istituzioni si fa la mediazione. Tutto è luogo del conflitto: la fabbrica, la scuola, il consiglio comunale. Ma il conflitto può albergare nelle istituzioni solo nella misura in cui queste sono rappresentative della società in tutte le sue articolazioni. La centralità del parlamento, sostenuta dai comunisti dalla Costituente ad oggi, nasceva dal fatto che il parlamento era eletto con una legge proporzionale pura. E quindi era la riproduzione per rappresentazione della società: c’erano tutte le componenti sociali, intellettuali e religiose. La crisi di questo sistema nasce quando iniziano a non essere più rappresentate proporzionalmente queste forze, soprattutto quelle di classe. Già l’uninominale non era altro che un ritorno ad un sistema pre-giolittiano, un ritorno al notabilato, perché in uno scontro personale a due non si rappresentano mai le idee più radicali, ma si cercano di guadagnare voti al centro. E questo non è un danno per chi ne viene escluso, ma per la democrazia stessa perché quell’istituzione non è più rappresentativa della società. Le voci dissonanti oggi sono davvero poche. E allora quelle poche voci devono riunificarsi.

– A luglio si sono conclusi i congressi del Prc e del PdCI. Un mese insolito per un congresso di partito, ma necessitato dal disastro del 13 e 14 di Aprile. Che giudizio dai dei congressi dei due partiti?

Noi abbiamo chiuso il nostro congresso una settimana prima di quello di Rifondazione, con un documento che, a larghissima maggioranza, pone il tema della riunificazione dei comunisti. Venivamo accusati dalla nostra minoranza di essere isolati. Erano convinti che al congresso del Prc prevalesse una linea identica alla loro (quella di Vendola), dando vita alla costituente di sinistra. Il congresso di Rifondazione, viceversa, ha dimostrato che la nostra linea era giusta. Non siamo quindi isolati: si è aperta una interlocuzione molto positiva. Non mi nascondo che ci sono anche tante differenza (altrimenti saremo già nello stesso partito), alcune di cultura politica (dalle questioni internazionali al tema della non-violenza), ma mi sembra che non siano tali da giustificare l’esistenza di due distinti partiti, sopra- tutto in un momento così drammatico per la sinistra ed i comunisti. Francamente fa sorridere invece l’idea di quelli che vogliono mettere insieme tutta la sinistra, ma non vogliono riunificare i due partiti comunisti, le due forze più affini.

– Oggi, seppur con toni ed accenti diversi, è sotto gli occhi di tutti che il dialogo tra Rifondazione e Comunisti Italiani è avviato e l’ipotesi di una riunificazione viene discussa laicamente da tutti. Quanto di tutto questo è il frutto della maturazione di una linea politica e quanto, invece, è condizionato da necessità elettorali?

Credo che la chiusura del Congresso di Rifondazione con l’elezione a segretario di Paolo Ferrero e con il ruolo determinante avuto dalla componente de l’ernesto, rappresenti un passo avanti molto importante. Tanto è vero che abbiamo indetto insieme la manifestazione dell’11 di Ottobre che è diventata, nei fatti, la giornata dell’orgoglio comunista. Dopo la durezza della sconfitta elettorale, la difficoltà dei congressi, il malessere ed il disorientamento di tante compagne e compagni, la manifestazione dell’11 è stata l’occasione per uscire dall’invisibilità in cui i media ci hanno cacciato. E per rimettere al centro questioni come il carovita, il razzismo, la scuola e l’università. Dopo gli scioperi e le imponenti manifestazioni degli studenti la protesta si allarga. I comunisti devono esserci: insieme dobbiamo costruire il massimo di unità con tutto ciò che si muove nel Paese contro il governo e contro la melassa d’opposizione condotta dal Pd.

– Per fortuna assistiamo nelle ultime settimane a numerosi segnali di mobilitazione e di protesta, con caratteri di massa.

Se noi analizziamo con attenzione le piazze dell’11, del 17 ed anche quella del 25 ottobre, non possiamo non vedere che, seppur diverse tra loro, in fondo volevano un’opposizione seria, coerente. Il gruppo dirigente del Pd questo non lo sta facendo nella maniera più assoluta. Anche per parlare a queste piazze noi pensiamo che sia importante la riunificazione dei due partiti comunisti. Questa riunificazione potenzialmente è in grado anche di suscitare un effetto attrattivo verso tantissime compagne e compagni che, dal 1991 a oggi, di scissione in scissione, hanno abbandonato l’uno e l’altro partito. E contemporaneamente può rappresentare uno straordinario punto di riferimento per le nuove generazioni che positivamente stanno tornando in piazza a lottare – penso al movimento degli studenti e alle occupazioni – e che hanno bisogno di uno sbocco politico. Un partito riunificato sotto le insegne comuniste può rappresentare un punto di riferimento per queste lotte.

– Facciamo un piccolo passo indietro: pochi giorni dopo il disastro elettorale è uscito l’appello Comunisti Uniti, sottoscritto da migliaia di comunisti in tutto il paese. Pensi che la funzione di quell’appello sia finita o possa, con nuove forme, continuare?

Parliamo con franchezza di quanto accaduto: alcuni di noi erano persuasi che l’arcobaleno fosse sbagliato. Aggiungo: obbligato, ma sbagliato. E prefigurando un brutto risultato -mai avrei immaginato però così disastroso- io ed altri abbiamo lavorato prima delle elezioni perché ci fosse una prospettiva in campo subito dopo. Anche per evitare lo sbandamento di migliaia di militanti ed elettori. E meno male che ci siamo mossi in questo solco. Perché tanto più è stato negativo il risultato e tanto più necessario è stato il bisogno di proporre una prospettiva su cui lavorare ed orientare le nostre forze. Quell’appello ha avuto allora una grande funzione. Le tante adesioni pervenute erano appunto il segnale di quanti dicevano: ci hanno battuto ma non ci arrendiamo. E secondo me rimane tutt’ora importante perché è uno stimolo per tutti ad essere più celeri in questa operazione, uno stimolo utile anche al nuovo gruppo dirigente di Rifondazione.

– Lasciamo stare per un po’ l’Italia e volgiamo lo sguardo al mondo. Come cambia, secondo te?

Se metto il naso fuori dall’Italia, mi torna il buon umore e l’ottimismo. Negli ultimi dieci anni sono accaduti fenomeni enormi. Ho l’età sufficiente per ricordarmi cosa fosse l’America Latina negli anni ’70, era un gigantesco lager fascista a cielo aperto. Dittature militari appoggiate dagli Usa ed ogni tentativo (sia di natura strettamente rivoluzionaria, sia di matrice riformista come nel caso del Cile di Allende) di cambiamento soffocato nel sangue. Oggi assistiamo ad un fenomeno straordinario: movimenti tra loro diversissimi diventano maggioranza nei loro paesi e vincono le elezioni. Sono tutti accomunati dal fatto che i poveri prendono coscienza della loro condizione e decidono così di non essere più sfruttati. All’inizio c’era solo Cuba. La tenuta straordinaria di quell’esperienza ha funto da detonatore che ha aperto la strada ad esperienze originali ed interessanti. Pensiamo a Chavez: è stato il primo che, negli ultimi due secoli di storia di quel continente, è stato in grado di sconfiggere un colpo di stato, dopo solo un giorno. E questo perché dalla sua parte c’era il popolo e l’esercito. Dal Venezuela il contagio è stato dilagante in tutto il continente Latinoamericano. Ovviamente ciascuno ha intrapreso la sua strada, ma il risultato è che oggi al potere troviamo il presidente indio, quello cocalero, il presidente vescovo. Ma queste esperienze sono in buona compagnia nel mondo: se ci spostiamo in estremo oriente notiamo, per esempio uno straordinario sviluppo di paesi come la Cina ed il Vietnam, che coniugano crescita economica con una politica sociale molto attenta e positiva, o il Sudafrica, dove una interessante esperienza sta migliorando la vita a milioni di persone.

– Ma nella sinistra italiana non tutti le pensano come te. Per esempio nel giudizio che dai sulla Cina ed il Vietnam.

Ma io invece ne sono fermamente convinto. Lì è nato un polo evidentemente alternativo a quello statunitense. E poi non c’è solo l’estremo oriente. Il mondo arabo è in subbuglio. Fenomeni molto diversi da quelli marxisti, ma indubbiamente antimperialisti. Lì c’è un paese come la Siria che può rappresentare un contraltare importante alle politiche che in quella regione vengono propugnate dagli Stati Uniti e da Israele. E basta guardare la vicenda caucasica per capire di come va il mondo: sembra che la Russia sia dalla parte del torto, quando è evidente ai più che la sua azione era il frutto di una politica aggressiva e di accerchiamento militare ad opera della Nato. Bisogna guardare con fiducia a quanto accade nel mondo e lavorare per costruire nella vecchia Europa una sponda a tutto questo, ovviamente avendo il senso delle proporzioni.

– Quindi?

Dobbiamo indagare a fondo la struttura della società europea ed occidentale. L’impatto con l’immigrazione sta creando nuove forme di sfruttamento inedite e non studiate. L’America Latina ci insegna una cosa fondamentale: si può vincere! Ma noi non dobbiamo guardare quelle esperienze con la lente dei classici. Ciascuno è comunista a modo suo: non esiste più né un paese guida, né una rivoluzione che funga da esempio. Ciascuno segue la sua strada -e noi in Europa dobbiamo trovare la nostra – ma una cosa rimane centrale: che la contraddizione principale è quella tra capitale lavoro. Dal 21 al 23 Novembre, si svolgerà a San Paolo, in Brasile, il 10º Incontro internazionale dei Partiti Comunisti. Ci sarà anche una delegazione del PdCI? Assolutamente si. Purtroppo, dati i costi, sarà molto più ridotta di quella fatta l’anno scorso per Minsk, ma il PdCI ha sempre creduto nell’importanza di questi momenti di confronto e discussione fra i comunisti di tutto il mondo. Nel mondo globale, totalmente interconnesso c’è bisogno che i comunisti siano in contatto. Aiuta a ricostruire quella rete di rapporti che sono venuti meno dopo il crollo dell’Urss. C’è bisogno di portare avanti una ricerca ed un confronto: è un compito al quale non possiamo sottrarci.

– Un ultima domanda: vedo tanti giovani alle manifestazioni del tuo partito. Ma come si costruisce e forma, secondo te, una nuova generazione di comunisti?

Si diventa comunisti per un moto dell’animo contro le ingiustizie della società: o perché le si vive sulla propria pelle o perché le si vede attorno a sé. Quando scopri che l’Africa si ammala perché le industrie del farmaco non danno loro i brevetti, questo di per sé ti spinge a voler cambiare questo mondo. Oramai è evidente che il capitalismo non risolve le contraddizioni del mondo, ma le accentua. Ecco perché noi comunisti abbiamo ancora l’ambizione di cambiare le cose. “Un altro mondo è possibile” è lo slogan dei giovani contro la globalizzazione capitalistica. Non è diverso dagli slogan che scandivamo noi, tanti anni fa, nelle piazze e nelle strade, inneggiando ad un mondo migliore. Nessuno di noi è divenuto comunista dopo aver letto il Capitale di Marx, ma lo siamo diventati perché trovavamo orrende le ingiustizie di questo mondo e le volevamo combattere. Ai nostri giovani compagni direi principalmente due cose. La prima: non fate mai politica guardando indietro, ma fatela con la consapevolezza di essere eredi di una grande storia. La seconda cosa che direi è che ne vale ancora la pena. A questi giovani auguro davvero, tra tanti anni, di poter dire ciò che affermava Enrico Berlinguer e che anche noi oggi ripetiamo, e cioè che siamo rimasti fedeli agli ideali della nostra giovinezza.