Per un partito comunista di massa

Lucio Magri, nell’ultimo numero de l’enesto, con l’articolo “Un programma per l’alternativa”, affrontava i temi di un progetto politico per la pace, una politica economica che rimetta al centro l’iniziativa pubblica e gli interessi di massa, una sinistra unita contro il liberismo e contro la guerra”. Questo tema, di fatto, ne richiama un altro, quello di “quale il partito per il progetto politico per la pace, una politica economica che…ecc”.. Un programma di massa e un partito di massa. Ci si propone di svilupparli entrambi (i temi) in prima approssimazione.

1. Il movimento “cammini domandando” il Partito “risponda camminando”

Oggi, a tutte le forze che si riconoscono nel no alla guerra e al neoliberismo, sono poste due domande: si chiede loro un progetto radicale di trasformazione, si chiede loro l’unità sul progetto. Le domande sono state avanzate, al Forum Sociale Eu-ropeo (FSE) di Firenze, da un movimento ampio e assai composito che ha rilanciato il conflitto. Un movimento che non si chiude nella propria autoreferenzialità, ma riconosce che, quello dispiegato, è un conflitto che, almeno in Italia, risponde solo in replica all’aggressione delle destre. E comprende che non basta. È’ indispensabile ma non basta. Non basta il conflitto senza il progetto, anche se c’è chi, richiamando Bernstein, sostiene proprio questo e, quindi, sostiene che “lo scopo finale è niente, il movimento è tutto”. All’opposto è, oggi, proprio il movimento che, nella sua larghissima prevalenza, chiede il fine. E il fine sarà dato da un progetto (massimo) di trasformazione, difficile da comporre. Ma che può essere già indicato da un programma minimo di alternativa. È solo su questo (il fine) che una forza politica descrive, e fa percepire, la propria identità. Altra cosa sono le forze di un movimento, o dei movimenti oggi dispiegati, che possono “domandare camminando”, ponendo quindi di volta in volta problemi ora specifici ora trasversali. Un partito, invece, per essere utile anche ai movimenti, non deve solo collocarsi “dentro e con” uno di loro, ma provare a pensare di “rispondere camminando”, a tutti e con tutti e, definendo proprio lo scopo, il fine, quel partito definisce sé stesso. E prova così a coprire quel vuoto enorme di direzione politica che, da almeno due decenni, si registra a sinistra in Italia, e non solo. Chi ci prova, oggi, è guardato con grande interesse. Sta accadendo.
Questo obiettivo – coprire il vuoto1 lo deve sentire come proprio particolarmente il partito della Rifondazione Comunista, che è uscito da un anno di grandi difficoltà postcongressuali ed è chiamato – dopo aver saputo legarsi come nessun altro soggetto politico al “movimento dei movimenti” – a radicarsi ulteriormente a livello sociale e ad allargare e approfondire il legame ed i rapporti con il movimento operaio complessivo, col mondo generale del lavoro. Tanto più in questa nuova fase sociale e politica, caratterizzata da un ritorno prepotente di quel movimento operaio che non pochi, anche a sinistra, avevano relegato così frettolosamente in soffitta.
Unire sul campo, nelle lotte e persino nella tattica e nella strategia di cambiamento e di trasformazione sociale il “movimento no global” col movimento operaio complessivo è un compito che deve e può assolvere – più e meglio di altri – il Prc. A partire dalla lotta e dalla unificazione vasta di forze per il referendum sull’articolo 18, il cui esito positivo – la vittoria – potrebbe contribuire notevolmente a cambiare in meglio, per l’intero arco della sinistra italiana, la realtà presente.
Una realtà che si manifesta con due volti. L’uno negativo, l’altro posi-tivo.

2. Il volto negativo della realtà: dalla guerra a Berlusconi

Il volto negativo della realtà è modellato in quattro tratti.
a) Il primo è dato da una guerra americana che non è “un anacronistico colpo di coda di un vecchio imperialismo ormai in via di liquidazione” come sostiene, apologeta inconsapevole della globalizzazione, Toni Negri….”2. E non è nemmeno “la continuazione della politica con altri mezzi”, secondo la nota definizione di Von Clausewitz3 ma, nell’epoca della globalizzazione neoliberista, essa (la guerra), è la politica stessa. E bisogna opporvisi. Senza se e senza ma. E la guerra, la quarta guerra americana del decennio post-Urss, è già cominciata.
b) Contiguo alla guerra di Bush, anzi del tutto organico alla stessa, è il secondo tratto di quel volto negativo della realtà. Lo si è rappresentato in quel di Johannesburg con l’azzeramento dell’idea, nata a Stoccolma nel ‘72 e ribadita a Rio nel ’92, dello “sviluppo sostenibile”, alla quale gli USA, con cinica tracotanza, hanno contrapposto prima e imposto poi, l’idea del “trade not aid” (commercio non aiuto), che semplicemente vuol dire: via libera alla compravendita di diritti, bisogni, ambiente, salute. Tutto è ridotto a merce e la merce si misura in dollari. È il fine della guerra. E, quindi, della politica e dell’economia della globalizzazione neoliberista.
c) Il terzo tratto è in Italia: si chiama Silvio Berlusconi. Un piccolo Cesare4 che, con i suoi atti, colloca il suo governo ben oltre la definizione di “fascismo diluito” che utilizzò Luigi Pintor in un suo scintillante editoriale. Berlusconi, in soli venti mesi, è scientificamente e brutalmente intervenuto per smantellare la Costituzione, nell’ economia, nello Stato Sociale, nella società, e lo ha fatto in misura tale che ci vorranno, se non vent’ anni, almeno dieci per ricostruire. Berlusconi ha reso legale l’illegalità e ora sparge il sale sulle macerie. Ma, per iniziare a ricostruire, bisogna almeno predisporsi a cacciare questo demolitore (Cesare o Nero-ne?) che: con l’immensità del suo conflitto di interessi “svergogna l’Italia” 5; con la legge Bossi/Fini, non solo viola elementari principi umanitari, ma alimenta una sindrome da fortezza della civiltà assediata dai barbari; con la devolution apre la strada, a un tempo, sia alla secessione con cui paga l’alleato leghista, sia al presidenzialismo con cui salda il debito elettorale con l’alleato post-fascista; con la Finanzia-ria, serra le fila della sua “fabbrica del consenso” 6, un blocco sociale che va dal ceto dei professionisti agli evasori premiati dai condoni; con le sue televisioni e con l’occupazione militare della RAI,“oppia”metà Ita-lia. Ma perché, domandiamoci, non sarebbe un regime questa macchia nera schizzata sull’Italia? E, se lo è, cosa si aspetta a dire senza reticenza alcuna: via Berlusconi? Non era poi questo che si gridava in piazza, nei cortei, e anche ai banchetti delle firme per difendere ed estendere l’articolo 18 che, oggi, sarà da riprendere per raggiungere il quorum “ e far tutti di tutto perché il sì passi”7 ? E, ancora, diciamoci chiara una cosa: se non si pone la questione secca – via Berlusconi senza se e senza ma- e non la si porrebbe perché non sarebbe pronta l’alternativa che, oltretutto, non si vede in allestimento, ebbene significa non lavorare oggi per l’alternativa di domani e, quindi, significa condannare i cittadini a subire passivamente il regime per anni e, infine, farebbe capire che quel ceto politico che, dall’ottobre del ‘98, ha spianato la strada al ritorno di Berlusconi, si è talmente distaccato dalla realtà da non cogliere che, nel 2002, si è levata una domanda possente di cambiamento, sospinta da masse imponenti, che non aspettano più i rituali di questa politica, e i bizantinismi dei “costruttori di sconfitte”. Per Rifondazione è di fatto dispiegato un grande terreno di iniziativa, sul quale essere il propulsore di quella domanda che sale dai movimenti e, insieme, il propulsore della risposta che dovrà “scendere” dai partiti. È perciò offerto al partito un doppio compito che, per ora, non è ricoperto da quanti – il prestigioso sindacalista, il famoso regista, il medico pacifista – sono alla testa dei movimenti. Ma il Partito, per essere all’altezza del compito, non deve guardare a senso unico: deve comprendere che è, ancora, dalla classe operaia, dall’intero mondo del lavoro che può scattare la molla della trasformazione, e oggi la molla è carica. Rifondazione, rispondesse a questa condizione, si troverebbe con molte più carte in mano di quante ne dispongano altri. Bisogna giocarle, fare politica.
d) Il quarto e ultimo tratto del volto negativo della realtà è dato, anche simbolicamente, dalla vicenda della “crisi Fiat-auto” che, nella sua assoluta rilevanza, mette in ombra le vicende parallele di Pirelli, Marzotto, Cirio, Fincantieri, Marconi e anche dei 300.0000 lavoratori che, secondo le stime della CGIL, rischieranno il posto di lavoro nel 2003. Al capolinea, con Fiat auto, è arrivata però una storia industriale lunga un secolo. Così Gramsci, beffardamente, ne commentò la nascita: “In Italia è nato il primo Soviet dei capitalisti, la Fiat di Giovanni Agnelli, piccolo Stato locale con polizia propria… con una legge generale propria, che dovrà instaurare…la esplicita dittatura del capitalismo che abolisce la lotta di classe” 8. Ora quel “Soviet” se ne va e, squadernata dinanzi a chi non è cieco o sordo volontario, sta la dissolvenza del miraggio del laissez faire del mercato9.

Sintesi parziale: dal volto negativo della realtà al “che fare”. Alla guerra americana, bisogna opporsi con la lotta di “nuovi partigiani della pace” fino allo sciopero generale europeo, tesaurizzando la giornata di lotta, a Roma, il 15 febbraio; per cominciare a ricostruire l’Italia dalle macerie, bisogna cacciare Berlusconi “senza se e senza ma”; e infine – e non è un estremista ma Mario Pirani a suggerirlo – per rovesciare i termini di una deindustrializzazione galoppante e, quindi, rilanciare una economia non colonizzata e non polverizzata in nano imprese (quelle senza l’art. 18), bisogna riproporre una programmazione economica, se non “coercitiva” come sostenevano gli economisti comunisti (del Nove-cento), almeno indicativa che, appunto, dica cosa fare dell’auto, già a partire dalla Fiat, dell’acciaio, della navalmeccanica, delle telecomunicazioni, della ricerca. La programmazione è, perciò, il primo mattone del progetto di ricostruzione, il primo passo in direzione dell’alternativa. Ma bisogna conquistarla. Con chi? Con i soggetti del risveglio. Che oggi, finalmente, sono apparsi. Analizziamoli, perché sono forse loro il motore (o i componenti del motore) della trasformazione degli anni 2000. Ed è proprio il progetto di trasformazione che dobbiamo strappare, a partire dalla programmazione. E dal conflitto sociale.

3. Il volto positivo della realtà: i soggetti del risveglio di un movimento uno e trino

Al negativo della realtà si contrappone il volto positivo di un “insieme” di soggetti che sono tornati a battersi per la pace, il lavoro, i diritti e un diverso modello di vita e di consumi. Questo “insieme del risveglio” ha assunto, perlomeno in Italia, un’ampiezza tale da non incontrare riscontri né in Europa né nel mondo intero. Discettare della sua genesi – se esso nasce a Seattle o trova la sua levatrice con le lotte operaie, se insomma è Genova che porta al Circo Massimo o è il Circo Massimo che porta a Firenze – è sì interessante ma solo per le dispute filosofiche dei convegni. Fonda-mentale è, di converso, rilevare come in Italia, nel 2002. si siano incontrati tre soggetti – il movimento che nasce appunto a Seattle, il movimento che rinasce dai luoghi della produzione e dello sfruttamento, il moto dei girotondi che nasce in reazione al regime – che premono, tut-ti, sui partiti con quella coppia di ineludibili domande: di un progetto radicale di trasformazione e di unità. Ripartiamo dai movimenti, questo è il punto vero. Ricomincia-mo da tre.

3.1. Il movimento dei movimenti: a Firenze si cambia
Sono i giovani che si schierano contro il fondamentalismo del mercato e la guerra. Si battono contro la mercificazione globale dell’ambiente, della salute, dell’acqua, dell’agricoltura, della scienza, delle biotech, della scuola. Sono loro i portatori di una rinnovata cultura della trasformazione. – un soggetto articolato che va dalla componente anarchi-ca10 ai boy-scouts, è presente in molti paesi e, anche per ragioni generazionali, esso ha il futuro davanti a sé. A Firenze FSE, è la novità, questo movimento sa rettificare il proprio carattere in cui “forme di lotta troppo radicali intorno a contenuti riformisti…. si sono rovesciate in una radicalizzazione dei contenuti e una moderazione delle forme di lotta” 11. La novità è sospinta da un passaggio, in quanto questo movimento, che si autorappresentava, almeno fino a ieri, nell’originalità di un inseguimento alle tappe del Circo Barnum itinerante dei grandi poteri economico-finanziari (WTO, G8, FMI BM), passa ora a una fase superiore dello stesso attacco, che è sempre al primato dell’avere sull’essere, producendosi in un salto oltre la critica al sistema con cui si cimentò il movimento degli anni 70. Il passaggio, che interroga l’alternativa, avviene su due piani: in alto, rivolto al modello di consumi dei paesi ricchi che, per reggere, deve soffocare i bisogni dei paesi poveri ai quali sempre si sottrae tutto: dall’energia all’acqua, fino alla digni-tà12. In basso, rivolto ai cittadini, ai quali si chiede di partecipare alle decisioni che riguardano le comunità (il verde, i servizi, l’edilizia, la formazione). Si chiede insomma di partecipare alla costruzione del “bene comune”, ma senza illusioni o scorciatoie simboliche: “il bene comune è solo il risultato di dure lotte sociali” 13. E alle dure lotte sociali saremo costretti già per fermare i “Gats”, la liberalizzazione totale dei servizi pubblici. Su questo piano, esso (il movimento), si prova così a riscoprire concetti – la municipalità, il decentramento, la “cit-tà nella città” – che, se recuperati, conferirebbero un formidabile valore aggiunto alle idee di Porto Alegre, e strapperebbero il bilancio partecipativo alle pure declamazioni. Da Firenze FSE è uscito questo. Se questa conclusione si afferma nei fatti, si va a scolorire conseguentemente il connotato esclusivo della “disubbidienza” che aveva fatto percepire il movimento solo attraverso una gestualità tesa a fini mediatici e circoscritta alla dimensione difensiva dell’ “io non ci sto”. Letto attraverso questi atti, e il volto televisivo dei suoi leaders, il movimento si autorappresentava in una sua parzialità che, appunto, la ricchezza e la pluralità dei soggetti di Firenze FSE ora marginalizza. “I movimenti spettacolo non fanno politica”. 14
Nelle istanze di questo movimento oggi appare altro: appare la chiave di volta dell’alternativa di sistema che, per decollare, deve misurarsi sul “ cosa produrre, per chi e dove”.

3.2. Ceti medi o no, i girotondi suonano la carica
Il secondo soggetto del risveglio ha invece carattere nazionale. È il moto dei girotondi. Nasce di fatto nel febbraio 2002 quando, in Piazza Navona, Nanni Moretti viene issato su un palchetto improvvisato e, rivolto a Rutelli e Fassino impietriti, grida:” Con questi dirigenti non vinceremo mai!” L’invettiva incrocia il nobile “resistere, resistere, resistere” con cui Saverio Borrelli chiu-de il suo ultimo atto istituzionale e, strada facendo, raccoglie il “Bella ciao” di Santoro. Sorge e si amplia così un moto che, di girotondo in girotondo – dal Palavobis, all’inizio sottovalutato anche dal Prc, alle cento iniziative su giustizia, scuola, informazione, Cirami – porta, a settembre, a un milione di persone stipate in Piazza S. Giovanni, gente in carne ed ossa che ritorna alla politica o la riscopre, ma non attraverso i partiti che, prima le ignorano, poi cercano di esorcizzarle. Chi sono? Soggetti indignati? Ceti medi riflessivi? Certo, costoro non sono i “ceti medi ed Emilia rossa” che Togliatti analizzò in un antico saggio, ma (essi) recuperano – appunto su temi della giustizia, della scuola, dell’informazione, dei diritti – elementi forti che si possono benissimo comporre in un programma e tutti si riconducono al denominatore comune della critica alla guerra e fanno da catalizzatore del tutto15. Valorizziamo questa convergenza prima di indagare sul loro limite . E il limite c’è, e non da poco. Essi , questi soggetti, contestano solo gli effetti di una situazione ma sta ai partiti, perlomeno a quelli che accostano la lotta alla guerra alla lotta al neoliberismo, indurli a ragionare delle cause (del liberismo e della guerra) che stanno: nel modello di vita e di consumi, nelle privatizzazioni, nel sistema maggioritario, in questo federalismo, nella politica dei redditi, nella concertazione sindacale, nel lavoro nero, nel Patto di Stabilità, nel fallimento di Maastricht, nella deindustrializzazione, nella politica di esclusione, nella latitanza dello Stato in economia (ecco la grande assente sia nei girotondi che nei partiti: l’economia). Da Moretti a Cofferati, da Rosy Bindi a Lilliput, da Gino Strada a Micromega, questo è il vero limite dei girotondi. Il limite anche di quella grande serata di gennaio al Palasport di Firenze. Ma sta, ripetiamo, ai partiti recuperare un loro ruolo ragionando di cause e di un progetto di trasformazione. Sbaglia, o permane nell’errore, chi sostiene sia da respingere “l’idea classica (del Novecento di cui liberarci) del rapporto tra movimento e politica laddove al primo si assegni la radicalità e alla seconda il compito del realismo anche cinico”.16 Aldilà del cinismo, ma chi avvicina sogno a realtà, utopia a risultati se non i partiti? Chi, se non Rifondazione, può costringere la Firenze di Cofferati e della Bindi, a mettere i piedi nel piatto della nazionalizzazione della Fiat, del contratto dei meccanici, dei referendum?

3.3. Quel che avanza è uno strano operaio, ma esso avanza a milioni
Nei nostri occhi sono ancora impresse le immagini del popolo del Circo Massimo. E poi gli scioperi generali. Altri sono proclamati in questo inizio d’anno. Nel 2002 la classe operaia, che c’è, è tornata alla lotta e, in prima fila, ci sono proprio loro: i lavoratori industriali, quelli della Fiat, della FIOM e dei Cobas. E il 21 febbraio i lavoratori dell’industria sono tornati alla lotta. E il lavoro che, pur essendo centrale socialmente ma, fino a ieri, reso nullo politicamente, riconquista così centralità politica. Gli era stata tolta la voce, la riprende e la alza. E, riprendendola, e ripartendo dai rapporti di produzione, interroga tutti i partiti di sinistra: chi è il nostro punto di riferimento, chi ci rappresenta sino in fondo? Con quale progetto di lunga lena?
Occuparsi di lavoro, però, non significa solo essere al fianco di chi lotta, raccogliere le firme per difendere ed estendere l’articolo 18, ma ragionare proprio a partire dal “cosa e per chi produrre” per arrivare al “come”.. Ragionare perciò di programmazione, di lavoro precario sicuramente ma anche di lavoro industriale, ragionare dei soggetti del lavoro sui quali un partito deve investire, se questo partito vuol combattere idee distorcenti come quelle dell’ “operaio sociale” e della fine della classe operaia sostituita dalle moltitudini. E, nel ragionamento, arrivare a capire tre cose: che la lotta di un nuovo proletariato contro la precarizzazione e per un lavoro “certo” è una delle due facce di quell’alienazione che i soggetti no global denunciano nell’altra faccia, quale esproprio di diritti, della natura, della formazione.
Mettere al centro il lavoro significa anche, oggi, valorizzare la svolta che CGIL e FIOM imprimono alle relazioni sindacali, che avviene contro l’opinione prevalente dei DS e dell’Ulivo, significa appoggiare chi dà battaglia per far depositare questa svolta nella rifondazione dell’Ulivo. E oggi occorre cimentarsi – come talune forze provarono nel ’68, quando ci si cercò di mettere in relazione operai e studenti e, tra gli operai, di mettere in contatto quello di mestiere che usciva di scena, con quello “massa” che vi era entrato – occorre cimentarsi nel tentativo di far avvicinare, 35 anni dopo, l’operaio dell’automazione flessibile al precario interinale e al supersfruttato del call center e, ancora, occorre operare come collante tra queste figure del nuovo proletariato e quelle che sono nei soggetti che animano il movimento dei movimenti. Sintesi parziale: se “al cosa e per chi produrre” e al “partecipare dal basso al bene comune”, che erano i messaggi inviati dalla Firenze del FSE, si riesce ad accostare il piano della lotta per i diritti civili promossi dai girotondi, e il “come produrre” e il piano della lotta per i diritti sociali del proletariato sospinta dal sindacato, ecco che si configura già un semilavorato di un progetto di trasformazione, in cui è leggibile la bozza del programma di alternativa. E se la programmazione, sgomberate le macerie di Berlusconi e bonificato il campo dalle destre, è il primo mattone della ricostruzione, questi sono altri mattoni inviati nel cantiere. Costruiamo. E il Partito della Rifondazione Comunista si proponga, nell’opera, sia come architetto/ingegnere sul CAD del progetto di massima, che come carpentiere, nella polvere del lavoro esecutivo. Il partito sia decisivo nel progetto e nella lotta. È il progetto di massima che declina il carattere del partito di massa di domani.

4. Il partito: ingegnere e carpentiere

Il positivo ed il negativo della realtà così si scontrano sulla scena della politica italiana. Nel campo di “tutto quel che non è centro destra” è in corso d’opera una diaspora. Eviden-te e aspra. Si sono configurati, sotto la spinta dei movimenti, due “insiemi” che si stanno allontanando, l’uno dall’altro. Al primo, fanno riferimento, tuttora non organizzato, quanti – partiti, aree dei partiti, sindacati, aree dei sindacati, associazioni, giornali, intellettuali, persone – si sentono protagonisti del risveglio e portatori di un desiderio di cambiamento radicale. Al secondo fanno riferimento, tuttora organizzato ma con segni evidenti di smottamento, quanti invece riducono il cambiamento al solo proposito di sostituire, prima o poi, Berlusconi ma per continuare a praticarne la sostanza della sua politica, ripulita solo dalle sue manifestazioni più eticamente repellenti. A un appuntamento elettorale, i due “insiemi” potrebbero anche ricomporsi “contro il comune nemico” ma, oggi, su quale politica (anche corrente), su quale programma (anche elettorale) lo potrebbero fare? I movimenti insomma, ponendo quelle domande ai partiti, ne allargano le contraddizioni. Un’analogia: oggi, ad esempio, tutti ci rallegriamo per l’elezione di Lula a presidente ma, in Brasile, si presentò proprio la contraddizione del come comporre gli obiettivi a lungo termine dei movimenti con quelli a breve termine dei partiti e, più forti sono i movimenti, più forte è la contraddizione. Il conflitto tra partiti e movimenti è, quindi, il portato naturale di una situazione in cui i movimenti trovano la loro forza quali portatori di grandi obiettivi, anche di utopie, e i partiti la trovano solo se riescono a far quadrare i conti con le domande dell’immediato e con le dinamiche istituzionali. Manca loro, pur tuttavia, il progetto di società su cui declinare anche l’immediato.
I movimenti sono perciò indispensabili per i partiti e i partiti sono necessari ai movimenti. Ma è evidente che la cosiddetta ”contaminazione” tra loro non possa che essere problematica. Essa può essere più semplice e naturale con il movimento operaio, che rivendica interessi immediati e concreti di gruppo sociale; è resa più complessa con la novità che presenta il movimento dei movimenti, che si propone grandi obiettivi trasversali, dall’ambiente all’alimentazione. Insomma, se il movimento dei movimenti è “presbite”17 e se, di converso, quello operaio è miope, ci vorrà pure qualcuno che veda giusto “per tutti e due”. E se non è il Partito Comunista, chi altri può essere che tiene alta l’iniziativa dei movimenti, incalza i partiti, costruisce alleanze e mette in campo, fa vedere, un progetto? Guai se il Partito si isolasse in un suo “limbo” identitario da cui scendere al momento di un voto. Non sarebbe capito né dai movimenti, a partire da quello operaio, né dagli elettori, la cui stragrande maggioranza è composta da quei soggetti degli strati subalterni che da troppi anni sono in attesa di risposte: in attesa della sinistra. E non votano più o votano a destra (anche gli operai). Partito Comunista: “qui si parrà la tua nobilitade”. E la si parrà dal come, oggi, copri un ruolo che è offerto su tre livelli. Oggi, primo livello, il Partito deve essere, come già vi accennammo, l’architetto/ingegnere del progetto economico/sociale di trasformazione, raccogliendo e assemblando i mattoni di cui un movimento “uno e trino” è il portatore. E li componga in un progetto di massima con il collante, la calce, delle proprie idee. Oggi è vacante proprio il ruolo dell’architetto/ingegnere ma, di fatto, è aper-to, in metafora, il “concorso pubblico” per ricoprirlo. Dal carattere della scelta discende la prospettiva stessa dell’ “insieme del risveglio” e del suo rapporto con i movimenti. Partecipiamo alla gara, abbiamo titoli e cultura per affermarci, perché al FSE è apparso un progetto ricco sì di valori etici e di leadership ma povero di contenuti programmatici e di classe. I comunisti hanno una marcia in più. La innestino. Ma c’è un secondo livello da coprire: oggi il Partito deve anche essere, o più modestamente proporsi di essere, l’“integratore” tra i tanti soggetti, le anime plurali di una torre di Babele dei movimenti, frequentata da cattolici, comunisti, socialdemocratici, liberaldemocratici, anarchici e confusi.” Il partito è il momento della sintesi critica delle molteplici esperienze del movimento”18. E, infine, c’è un terzo livello: perché la credibilità, per essere ora architetto/ingegnere ora integratore, la conquisti solo se stai sul campo, se ragioni e cammini se, insomma, nel cantiere aperto del progetto di trasformazione fai anche il carpentiere. Se il Partito non prova a coprire le tre funzioni – architetto/Ingegnere, integratore, carpentiere – se non prova a operare su tre livelli e non offre, quindi, un progetto alto a lungo termine, un orizzonte almeno (il progetto massimo della trasformazione) e un progetto a breve termine (il programma minimo di alternativa), ebbene questo partito, questo nostro Partito, potrebbe essere lasciato per strada anche da un movimento che, senza orizzonte né programma minimo, può decollare per una parte verso il cielo della sola utopia ma, nella sua parte ”prevalente”, può precipitare ed essere calamitato dalla parte “prevalente” dell’insieme politico del risveglio: che è moderata. Sareb-be la deriva triste: dall’altro mondo possibile all’altro Ulivo possibile. Alle masse non basta e non serve. Ai compagni nemmeno. Giochiamo la partita a tutto campo, non commentiamola dalla curva sud.

5. Progetti e soggetti: e il partito comunista di massa

I soggetti a sostegno di un progetto non sono predeterminabili d’ufficio. Non è possibile chiudersi a convegno e dichiarare da un palco: “oggi, e qui, nasce la sinistra alternativa”.
E chi lo può dire? La sinistra alternativa è un soggetto che sarà determinato dal lavoro “in progress” necessario alla definizione di una alternativa di sinistra, che è un progetto. Ed è quindi, questa sinistra soggetto, il prodotto di una operazione di ricerca e di apertura, e non un atto aprioristico. Progetto, se è di alto livello, e soggetti vanno ricercati nell’ “insieme del risveglio” e nei movimenti che lo sospingono, non nella separatezza. In quell’insieme rintracceremmo tutte le ani-me del “salto di qualità” di FSE e non solo. E riscopriremmo il loro seguito di massa: troveremmo la CGIL, certo non la sua componente dalemiana; troveremmo la FIOM, i Cobas, la sinistra DS e parte dei Comunisti Italiani che cercano di aggregarsi, da Aprile a Socialismo 2000, da ARS a Lavoro e Libertà (è il segno positivo dell’auspicata implosione della gabbia del centro sinistra); troveremmo l’ARCI, la rete Lilliput e le cento e cento associazioni del pacifismo, dell’ambientalismo, del volontariato. Troveremmo, insomma, un popolo che si è risvegliato e rimesso in cammino. Sono milioni. Il Circo Massimo, Piazza S. Giovanni, il FSE (e Cosenza) ne hanno rappresentato la combattività.. I comunisti devono proporsi quale punto di riferimento decisivo per il nuovo movimento di lotta generale e non rischiare di esserne alla coda. Questo movimento generale di lotta configura il cantiere aperto dell’alternativa, soggetti e progetto, dove i soggetti si muovono e il progetto è tuttora un semilavorato grezzo. Ma tutti sono portatori di parzialità.. Il Movimento di Firenze, il FSE, ci spiega infatti che il modello occidentale di consumi va rovesciato sul lungo termine ma, subito, va costruita l’opposizione alla guerra e, ancora subito, possono essere lanciate idee di partecipazione alla costruzione dal basso del “bene comune” e ipotesi di una integrazione che contrasti la malvagità della Bossi/Fini. Da Firenze FSE il movimento appare, quindi, non solo presbite. Il movimento di Piazza S. Giovanni ci spiega cos’è la “giustizia giusta”, l’informazione democratica e la scuola per tutti e non di censo. Il movimento del Circo Massimo ci spiega come la lotta alla Fiat si componga con l’assoluta esigenza di riscrivere – progetto nel progetto – il Piano del Lavoro e della Piena Occupazione del 2000, con contenuti evidentemente diversi da quelli dell’antico piano con cui, negli anni 50, la combattiva e progettuale CGIL di Giuseppe Di Vittorio, cercò di correlare “lo sviluppo ai diritti sociali”. Un nuovo Piano del Lavoro e della Piena Occupazione, questo ci vuole, in risposta alle domande del nostro tempo e sia il corredo principale dell’alternativa.
Sono poi questi i mattoni che i movimenti, ognuno con le sue peculiarità, hanno già scaricato nel cantiere. Vanno assemblati con la calce delle nostre idee.
Il Partito architetto/ingegnere, perciò, li componga in un progetto che dica: quale Stato, quale programmazione, quale sistema fiscale, quale economia, quale democrazia dei cittadini, quali settori trainanti, quale politica internazionale, quali industrie, quali servizi, quale credito, quali infrastrutture, quale democrazia economica, quale ruolo dello Stato nell’economia, quale decentramento istituzionale, quale sistema elettorale e quali forme di rappresentanza, quale giustizia, quale sanità, quale previdenza, quale sistema di trasporti, quali investimenti sull’ambiente, quale agricoltura, quale energia, quali importazioni, quale Stato Sociale, quali città, quale Europa, quali consumi e quali prodotti, quali riconversioni, quale scuola, quale ricerca, quale lotta alla bio-manipolazione, quale difesa, quali forze armate, quali forze degli interni. La risposta abbozza il paese e la società di domani per i quali valga la pena battersi oggi. È, per capi sommari, il progetto di trasformazione dei tempi medi e lunghi. Il programma dei tempi brevi si ottiene invece aggiungendo l’avverbio “subito” a ogni quesito: quale programmazione “subito”, quale energia “subito”, quali riconversioni “subito” e così via.
Si individui la strada – il progetto- e sulla stessa si individui il primo passo in quella direzione: il programma minimo di alternativa, nel quale va anche detto “subito” con chi incamminarsi e quindi quali alleanze, e per che tratto di strada. Obbiettivi intermedi e transitori, compromessi keynesiani, di cui sia chiaro lo sbocco: la trasformazione in senso socialista.
Non sono insomma, progetto e programma, dei documenti – che sono indispensabili – ma, appunto, idee che compete al “Partito architetto/ingegnere” forzare nei tempi della definizione e al “Partito integratore” forzare nei tempi delle interlocuzioni, lanciando ponti e non bruciandoli.
Operando con queste modalità, l’egemonia diventa un positivo effetto e non un negativo “a priori”. Ma il Partito si misuri, sia sul progetto massimo di lungo periodo che sul programma minimo di breve periodo, con un proprio progetto che affronti le questioni: del blocco sociale di riferimento; delle figure cardine della trasformazione (è il lavoratore industriale? È il lavoratore dei servizi?); del controllo operaio; del Sindacato; del valore d’uso che sovrasti quello del mercato e “della costruzione di una serie di beni sottratti al mercato e, quindi, al profitto per essere pubblici e collettivi (il ciclo vitale dell’acqua, l’energia, il suolo, l’aria, il patrimonio genetico) ….”. Insomma, è il Partito che, attraverso una articolazione delle lotte deve condurre a una resa dei conti tra politica e economia.
In sintesi finale: ci vuole il Partito, non solo antiliberista, non solo antagonista, ma un partito rivoluzionario. Un Partito che sappia alzare il tiro sulla politica, sulla ricerca, sulle idee e lo abbassi sulle polemiche di quanti non accettano confronti e si chiudono nel loro bozzolo congressuale. Un partito parte avanzata della classe e non contenitore di mere proteste e messaggi senza radici.
Il Partito del saper fare e della qualità del pensiero e non dei luoghi comuni alla moda. Riprendendo il cammino per il progetto, riprendiamo anche quello della Rifondazione Comunista. Proviamoci, compagne e compagni

Note

1 Una società che si muove nello spazio vuoto lasciato da una direzione politica assente, è il pericolo che Antonio Gramsci paventa nelle “Note sul Machiavelli” (Quaderni dal Carcere)

2 Lucio Magri “Un programma per l’alternativa” l’ernesto nov/dic 2002

3 Oggi è Chomsky che ribadisce Von Clausewitz, affermando che “la guerra è l’economia portata avanti con altri mezzi”. Concetto che Carla Ravaioli – Liberazione
4 gennaio 2003 – contesta, domandandosi se l’economia non sia invece e solo lo strumento di supporto della guerra.

4 E’ il titolo del recente e magistrale saggio di Giorgio Bocca.

5 Furio Colombo su l’Unità del 30 dicembre 2002

6 Così Palmiro Togliatti, nelle “Lezioni sul fascismo”, definiva efficacemente il processo di costruzione del blocco sociale che sosteneva Mussolini

7 Rossana Rossanda “Se ci dividessimo di meno”, il Manifesto 19 gennaio 2003

8 Antonio Gramsci “Un Soviet locale” da l’Avanti del 5 febbraio 1919, articolo raccolto nella collana Le Idee, “Scritti Politici” (Ed. Riuniti)

9 Del laissez faire, Berlusconi (assistito da Mediobanca) offre una sua interpretazione cercando di sfilare, nel corso del funerale Fiat, il Corriere della Sera alla famiglia Agnelli. Nel frattempo, l’auto è ambita da scalatori nostrani che devono fare i conti con la proprietà vera, gli americani di GM. “L’auto è diventata una colonia nord americana”, non è l’editoriale del l’ernesto, ma il sontuoso incipit del citato articolo che Gramsci scrisse 83 anni fa.!

10 Componente anarchica predisposta, secondo Francois Houtart (intervento al Forum Sociale Europeo, FSE), a “cadere nella trappola dell’ atteggiamento antipolitico (antistato, antipartito)”. Oggi però la spinta antipartito, che è dei movimenti, viene impugnata da Cofferati ai fini del suo progetto politico: un nuovo centro-sinistra.

11 Sergio Cararo “Riflettendo sul dopo Firenze”, l’ernesto nov/dic 2002. Il concetto è sviluppato assai bene anche da Mario Agostinelli, sulla Rivista de il Manifesto del gennaio 2003, “Dalla protesta alla proposta”.

12 Il modello opera, su un’altra scala, anche in Italia dove il sistema, per reggere, deve “mangiare” ogni giorno un po’ di industria e un po’ di Stato Sociale.

13 Dal citato discorso di Francois Houtart al FSE.

14 “Movimenti Spettacolo” è una citazione da Rossana Rossanda tratta dall’intervista “Ricominciare dai rapporti di produzione”, Liberazione 30 luglio 2000. Ma è la stessa Naomi Klein che, in No Logo, definisce i soggetti che tutto riducono a fiction (il suo riferimento specifico è a Greenpeace), quali “attivisti della TV ”. Il FSE di Firenze gira pagina su costoro.

15 Il concetto è sviluppato da “Pancho” Pardi nell’articolo “Un anno in movimento”, Rivista del Manifesto del gennaio 2003

16 Nichi Vendola, intervento al Palasport di Firenze apparso su Liberazione qualche giorno dopo.

17 E’ ancora la Naomi Klein che utilizza in positivo questa immagine (il movimento non global che vede lontano) in un suo articolo che il Manifesto ha riprodotto

18 Luciano Gruppi. Introduzione al Che fare? di Lenin, in cui si polemizza con la concezione del rapporto Partito-Movimento che fu assunta da Rosa Luxemburg e dagli “economisti”.