È indiscutibile l’importanza che le riviste hanno rivestito nell’intero arco della storia della presa di coscienza e del conflitto di classe, sia per quanto attiene a quelle di impronta più specificatamente teorico culturale che a quelle molto più numerose che sono nate e morte come momento militante di esplicazione e diffusione di progetti politici. Ma io credo che oggi, a fronte della natura e dei caratteri di questa fase, esse vadano a prefigurare un ruolo fondamentale, vorrei dire dirimente e indispensabile in altre parole strategico, insieme, per ragioni che ora cercherò rapidamente di chiarire, ai collettivi politici ed alle associazioni di base. Noi siamo nel pieno di un conflitto di classe, aperto, dichiarato e condotto, questa volta dal padronato attraverso le forme classiche del conflitto: contrazione dei salari, rigonfiamento dell’esercito industriale di riserva, precarizzazione del rapporto di lavoro e generalizzazione del cottimo, fino all’estreme conseguenze rappresentate dal superamento della contrattazione collettiva sostituita dalle forme del ricatto, dell’imposizione, prendere o lasciare, delle posizioni unilaterali dell’impresa. A fronte della crisi strutturale del capitalismo e dell’inasprirsi di questo conflitto di classe la sinistra in generale vive una sua propria crisi che non è figlia di quella capitalista anche se questa ha certamente accelerato in qualche modo il suo moto.
LA CRISI DELLA SINISTRA DI CLASSE
La crisi della sinistra di classe, in Italia e più in generale in Europa ha radici lontane. Certamente la prima incrinatura profonda si ha l’11 settembre del 1973, con la destituzione violenta a seguito di un colpo di stato militare appoggiato dagli USA, di Salvator Allende. La prima grande esperienza di conquista del socialismo in modo democratico crolla miseramente e la tragedia che si apre non è solo per il popolo cileno, ma direttamente per l’idea stessa di un’ipotesi di via pacifica e democratica al socialismo e questa spina nascosta nel fianco della sinistra non è mai stata rimossa. In uno scenario occidentale che vive a partire dai primi anni ’80 i prodromi di quella che poi esploderà come “globalizzazione” attraverso enormi trasformazioni nelle strutture sociali, nei rapporti tra capitale e lavoro, negli stessi modelli di evoluzione dei processi di produzione ed accumulazione, nelle nuove forme del lavoro e del suo mercato, quando, nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, va a chiudersi la fase storica della politica dei due blocchi, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, vanno a cadere quelle ultime certezze sulle quali si era costruito il bipolarismo politico e culturale della seconda metà del ‘900. L’incrinatura si trasforma in rottura, in cesura storica e culturale. A cadere, infatti, a venir meno non è stata semplicemente l’esperienza reale dell’URSS, ma l’intera esperienza del novecento: il comunismo, il socialismo e quindi ogni alternativa antisistemica. “la lotta di classe è finita” declamava dieci anni dopo, nel 1999, Blair.
CADUTA CULTURALE E POLITICA
La fuoriuscita della sinistra dal paradigma rivoluzionario, dalla prospettiva del socialismo ha portato alla sostituzione di concetti basilari come quello di coscienza di classe con quello di coscienza civile, quello di conflitto di classe con quello di bene comune, l’emancipazione dallo sfruttamento con la politica di sostegno agli ultimi e alla introduzione di nuove categorie del linguaggio e della cultura come: nuovo, plurale, laico, autonomo. Ma questa cesura storica non lascia indenne neppure le forze della sini – stra, tra virgolette, “comunista”. La questione del potere, dunque del partito, si traduce, ma anche si esaurisce, ormai troppo spesso, tut ta in un ambito, anche linguistico, “di governo”, magari di “governo e di lotta”. Oppure, attraverso una vera e propria rivoluzione culturale, il partito diviene “sociale”, rinunciando quindi alla sua prerogativa “politica”, “il partito non sale più in cattedra: siamo uguali agli ambientalisti, alle suore, ai precari, ai volontari, a tutto ciò che oggi vuol cambiare la società” scriveva Bertinotti su la Repubblica nell’aprile 2002 in occasione del Congresso di Rimini. Il partito, una volta sociale, assume in sé forma di rappresentanza, sindacato, patronato evocando il primato dell’azione volontaria, del volontarismo, la questione del potere rimane come in sospeso, non si capisce più se addirittura lo si voglia. Se sul piano del conflitto di classe sembra di essere regrediti alle fasi primordiali del capitalismo industriale, così sul piano di molte culture della sinistra “radicale” sembra di essere regrediti alla stagione storica premarxista a quelle forme concettuali di comunismo basate sull’egualitarismo, sul terreno delle “giu stizie sociali”, dei diritti, del con flitto fra ricchezza e povertà, potremmo dire, in altri termini, della “filosofia della miseria”. C’è stata davvero nel passato una linea stregata che attraversava i partiti ed i pensieri di sinistra: rivoluzione e riforme, sovvertimento o miglioramento del capitalismo; lotta di classe o governo, questa alternativa è stata una dannazione del novecento socialista, oggi appare quasi come una dimensione da riconquistare. Questa rivoluzione, questa trasformazione politica e culturale messa in atto in modi e con nature diverse dalla sinistra e dalla sinistra comunista non ha pagato e non sta pagando, né in Italia, né in Europa. Le esperienze di partecipazione al governo, l’avventura dell’Arcobale – no non solo non hanno portato niente alla crescita elettorale delle due forze comuniste oggi in campo in Italia, ma neppure sul piano della loro crescita e consolidamento organizzativo. Lo stesso paradigma – perché di questo si tratta e non di semplice formu – la politica – del centrosinistra si è logorato ed evaporato.
RIORGANIZZARE I COMUNISTI: UNA PRIORITÀ
In questo quadro è possibile immaginare un processo reale e non formale di riunificazione della sinistra senza la contestuale riorganizzazione e riunificazione dei comunisti? In altre parole è possibile procedere in avanti senza poggiarsi su un grande progetto di alternativa strategica, senza ritrovare i nessi teorici e pratici per la ricostruzione di un nuovo blocco sociale e di una prospettiva per il socialismo? L’unità dei comunisti non è alternativa all’unità della sinistra, purché l’unità della sinistra non sia alternativa all’unità dei comunisti, questo è il punto. Sul piano della dialettica politica nien – te è impossibile, purché siano ben distinte e chiare le dimensioni strategiche e tattiche dei processi in atto. E allora dobbiamo ancora chiederci: è possibile la stessa riunificazione dei comunisti al di fuori della priorità di una riappropriazione dei comunisti stessi delle proprie radici, delle proprie categorie di analisi e di pensiero, in altre parole di una soluzione positiva della questione comunista? Queste domande dobbiamo porcele anche a fronte di una ipotesi interpretativa di questa crisi ancora più inquietante e cioè che si sia davvero di fronte al termine di una storia, al chiudersi di un percorso, quello che Berlinguer chiamò la fine della “spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre”. Il concludersi, dunque, per esaurimento, di un ciclo storico. Certamente noi ribadiamo la nostra convinzione che con la chiusura di questo ciclo comunismo e socialismo non scompaiono dalle pagine della politica e dalla storia, ma come comunisti, al contrario degli altri, non possiamo non considerare anche questa inquietante prospettiva, porsi il problema del che fare.
PERCHÉ LA NUOVA GENERAZIONE NON RIPARTA DA ZERO
Nel quadro attuale bisogna prendere atto che la nostra classe politica dirigente attuale, in generale, non è più in grado di rigenerarsi, di risolvere ed uscire da quella dimensione di sindrome da sconfitta che la attanaglia, la prospettiva che ci troviamo di fronte è quella dunque di una ricostruzione, della rimessa in moto di un processo politico costituito attorno alla rivendicazione ed alla pratica di una potente autonomia di pensiero, a partire da quello che possiamo, da quello che abbiamo e soprattutto dalle potenzialità di crescita di una nuova classe dirigente, i comunisti hanno ancora un terreno o se volete una grande risorsa su cui poggiare ed investire una prospettiva, questa risorsa si chiama: nuove generazioni. Aldilà di quelle che saranno le sorti progressive o regressive dei processi politici in atto – riunificazioni, confederazioni, alleanze, scadenze elettorali -, noi comunisti abbiamo il dovere di far sì che i giovani, le nuove generazioni di comunisti non debbano davvero ripartire da zero. Dobbiamo scommettere e reinvestire su di noi per loro e con loro. Cosa possiamo fare allora fin da subito? Noi abbiamo un grande patrimonio di storia, di esperienze, di strumen – ti, di idee, non possiamo permettere che si disperda, ma al contrario dobbiamo far sì che possa dialogicamente diventare il patrimonio politico delle nuove generazioni. Lo scenario dell’immediato futuro è quello di un processo di ricostruzione e non di rifondazione, di una ricostruzione a partire dalle strutture (omogenee) elementari di aggregazione collettiva come le riviste, i collettivi, le associazioni. Per questo le riviste, i collettivi, i presidi di studio e formazione come quello di Firenze che vede la partecipazione di compagni della FGCI e dei GC, hanno oggi di fronte questa reale potenzialità ed anche questa grande responsabilità. Mantenendo ognuno la propria dimensione e quindi la propria identità possiamo però coordinare il nostro lavoro, trovare una base problematica, dei temi unificanti sui quali la singola rivista, la singola associazione possa lavorare, riflettere, dare il proprio contributo anche in termini di principi di prassi politica ed anche momenti di confronto e di apertura e propaganda verso l’esterno con confronti pubblici da noi collettivamente costruiti e condotti. Penso ad esempio alla possibilità di investire intanto tutte le strutture presenti oggi di un tema prioritario, di estrema importanza quale quello della centralità, natura, ruolo e forma di un partito comunista del terzo millennio. Aprire un terreno omogeneo di riflessione e di proposta delle riviste, dei collettivi e delle associazioni costruendo anche l’appuntamento per un primo confronto pubblico e collettivo su questo tema, aperto a contributi anche esterni, ma costruito sostanzialmen – te sulla materia del nostro lavoro. Così come sul tema della nuova composizione di classe, dei nuovi rapporti tra capitale e lavoro e le nuove forme di sfruttamento. Provare così a porre le basi per ritrovare le fila di un progetto unitario, trovare la forza e gli strumenti per battere, sul terreno del conflitto, la cultura dei diritti per riportarla sul terreno proprio di clas – se dei bisogni, a riaffrontare, quindi, da comunisti, i termini imprescindibili della formazione di un blocco sociale rivoluzionario. Se oggi, nel nostro piccolo, possiamo far partire questo progetto, avremo posto le basi di un piccolo passo, ma fondamentale per favorire davvero tutti quei processi politici orientati all’unità e alla ricostruzione di un nuovo soggetto politico comunista.
* Intervento al seminario promosso a Milano (26 giugno) dalla rivista Gramsci oggi su “Il ruolo delle riviste comuniste nella lotta per l’unità e la ricomposizione dei comunisti”