Per esser donna: Carmela Giacometti detta Maria e il PCd’I ferrarese negli anni della semina comunista in Italia*
E’ il giugno del 1935 e probabilmente a Ferrara fa caldo come sempre ai preludi dell’estate. Carmela Giacometti, sposata Rossi e da tutti chiamata Maria, riceve una lettera dalla Francia, indirizzata a lei ma, come presto la polizia politica scoprirà, non a lei diretta. Il fazzoletto nero delle donne di campagna calato sui capelli che cominciano ad ingrigire (anche se Carmela vive ormai da anni con il marito Raffaele e con i quattro figli alla periferia della città, in quella via San Giacomo che al n. 55 già lambisce l’abitato di Mizzana, frazione di Porotto) tradisce la sua origine contadina: essa è nata infatti a Copparo, grosso centro agricolo ai margini della grande bonifica, nel 1893. E’ grassa Maria (la descrizione dei “connotati” nella cartella biografica redatta dalla questura recita “grossa”), precocemente invecchiata, almeno a giudicare dalle fotografie scattate al momento dell’arresto, i grandi occhi castani ed i segni di un’antica bellezza sul viso perplesso, offerto all’obiettivo con una smorfia che sa molto di sprezzo. Probabilmente nella fanciullezza è stata bracciante e sicuramente in gioventù è stata operaia metallurgica, dato che in una perquisizione domiciliare subìta qualche anno prima le hanno sequestrato, insieme alla tessera della Camera del Lavoro di Ferrara, una tessera della FIOM risalente al 1919 e gelosamente conservata. Nel giugno 1935 Carmela ha poco più di 40 anni e quattro figli, fa la casalinga (“donna di casa” recita l’appunto della questura), con ogni probabilità come la fanno le donne povere di città, prestando qualche servizio domestico, lavando la biancheria dei benestanti, prestando qualche “opera” in campagna, spigolando e, quando proprio le variegate risorse dei più poveri non bastano a garantire cibo e vestiario, sottraendo un pò di canapa ai magazzini del Consorzio provinciale obbligatorio per la difesa della canapicoltura, peccato “mortale” per il quale verrà denunciata e processata nel 1938 . E’ comunista. Come lo si è da queste parti, nella Bassa pianura padana, squassata dall’afa, dalle zanzare, dalla miseria, dallo squadrismo balbiano: è comunista senza dimenticare l’antica matrice socialista, senza rinnegare nessuno, si trattasse di anarchici o di chi dal Partito socialista si staccò per dar vita ad una formazione socialdemocratica, agli antipodi di quella a cui lei aderisce nel 1921, quando nasce il Partito comunista d’Italia. Durante la perquisizione, le sequestrano infatti, conservate insieme, una cartolina a colori rappresentante Lenin ed una fotografia di Giacomo Matteotti, stampa ed opuscoli comunisti, l’Unità insieme ad una copia dell’Avanti, un articolo del “Corriere della Sera” che riporta la notizia dell’uccisione degli anarchici Sacco e Vanzetti. Comunista è da qualche tempo anche il marito, Raffaele Rossi, un artigiano “cementista” (divenuto tale dopo aver fatto in gioventù il muratore) originario di Galliera, in provincia di Bologna, “il quale – scrive lo zelante Vice Brigadiere Sardo – nel periodo rosso si dimostrò di tendenze socialiste e negli ultimi [tempi] del movimento socialista aveva avan- zato domanda alla locale Camera del Lavoro per ottenere la iscrizione al Partito Socialista. Egli tale tendenza la conservò anche dopo l’avvento del fascismo” fino ad essere fermato, nel febbraio 1931, “per misure di polizia politica, essendo sospettato di appartenenza al partito comunista” perché sorpreso a farne “propaganda fra i compagni di lavoro”. Il sospetto non fu provato, ma gli valse qualche giorno nelle carceri giudiziarie di Ferrara e la comminazione della cosiddetta “diffida”, che, essendo egli “designato dalla voce pubblica pericoloso all’ordine nazionale dello Stato”, consisteva nell’obbligo “a tenere buona condotta” e ad “astenersi dallo svolgere qualsiasi attività che [potesse] contrastare colle direttive politiche, economiche e sociali del Governo nazionale”, pena la più pesante denuncia “per l’ammonizione o per il confino”. Insieme a lui erano finiti in carcere altri 6 comunisti, Gino Lambertini, Ennio Resca, Corrado Roncarati, Edmondo Vandelli e Federico Curti. La diffida parve indurlo a desistere dall’attività politica: stando ai successivi rapporti degli agenti di PS incaricati di sorvegliarlo egli si sarebbe ritirato “al lavoro in un modesto laboratorio per la lavorazione di oggetti in cemento in via Capo delle Volte n. 46”. Fino all’incrocio con l’attivismo della moglie, comunista fin dal 1921, convinta all’azione da un giovane soldato da poco giunto dalla Francia, Lori Terzo, un ravennate là emigrato fin da bambino, minatore nel Paese d’adozione e futuro martire partigiano in Romagna. E’ evidente che Carmela non dovette essere estranea alla “conversione” del marito da socialista a comunista, nonché al suo coinvolgimento nel gruppo che tentava, a Ferrara come in nu me rose altre località italia – ne, alla metà degli anni tren ta, di “seminare” un po’ di verbo e di azione comunista in collegamento con il Centro Estero del PC ma operando direttamente in Italia, così come la “svolta” inaugurata dal partito in quegli anni richiedeva. E’ interessante a questo punto verificare come si dipanano le relazioni, i rapporti di parentela, di vicinato, amicali, che consentono l’organizzazione di quella che nel gergo corrente si chiamava all’epoca “cellula comunista”. L’inizio viene dal giovane Lori Terzo, rientrato in Italia per assolvere gli obblighi militari, che attiva il primo contatto con un vicino di casa di Carmela, Giuseppe Pavani, birrocciao originario di Cologna, soprannominato “Fin”. E’ subito chiaro a chi indaga che il suo lavoro non è frutto di circostanze casuali o di iniziativa individuale (d’altronde Lori si era già distinto in Francia per il ruolo di primo piano avuto qualche tempo prima nello sciopero dei minatori di Lilla). Scrive infatti il Prefetto di Ferrara al Ministero dell’In terno il 17 luglio 1935, quando ormai la “cellula” è scoperta: “Verso la 2° quindicina del mese di maggio, in occasione dell’arrivo ai corpi dei militari delle classi richiamate alle armi, vengono accasermate provvisoriamente nei capannoni Sinz [si tratta di uno storico canapificio] […] la 1° e la 2° compagnia del 27° Reggimento Fanteria di stanza a Ferrara […]. Fra i soldati della 1° compagnia vi era Lori Terzo […] nato il 9 luglio 1913 ad Alfonsine (Ravenna) domiciliato in Francia fin da bambino con la famiglia […]. Verso la fine di maggio il Lori fece conoscenza con un operaio, detto “Fin” abitante anche egli nei pressi dei capannoni Sinz, insieme alla moglie, alla quale il Lori dava da lavare la biancheria. Stretta una certa amicizia con il predetto “Fin” e con tale Giacometti Car – mela, maritata Rossi, pure abitante in via S.Giacomo, il soldato incominciò a chieder loro notizie circa la disoccupazione ed il trattamento usato agli operai in questa zona, facendo poi il confronto con il trattamento usato agli operai in Francia […]. Insinuatosi così nell’animo dei predetti, cominciò a parlare di organizzazione operaia, di propaganda, di coalizzazione per la difesa degli interessi collettivi […]”. La descrizione della modalità con cui si intreccia la rete dei contatti conferma un dato che per il Ferrarese ritroveremo anche nella Resistenza: in una provincia dove le grosse concentrazioni operaie sono pressoché inesistenti, è il territorio a fare da matrice all’organizzazione comunista. Anche quando nella “zona industriale” di Ferrara sorgerà, costruita dal nulla dal fascismo, il primo nucleo dell’attuale polo chimico, la “Gomma Sintetica”, poi “Montecatini”, non è all’interno della fabbrica che occorre cercare le radici dell’ organizzazione operaia. Le belle interviste** di Abdon Mala guti e Marcello Cavazzini, naturalmente comunisti, che nel periodo badogliano (25 luglio – 8 settembre 1943) costiturono con altri una commissione interna che continuò ad essere operativa anche dopo il ritorno del regime (come si può leggere in altra parte di questo “speciale” ), lo dicono chiaramente, spiegandone anche le ragioni: quanti divennero “operai” nella neonata zona industriale della città, provenivano dal grande mondo della disoccupazione e della inoccupazione bracciantile croniche e da esperienze di lavoro più legate all’artigianato, al piccolo commercio, alle piccole professioni individuali, persino all’ “arte di arrangiarsi”. Non esistevano quindi tra loro legami basati sulla lunga e quotidiana condivisione dello sfruttamento di classe nel luogo tipico della produzione capitalistica come poteva essere la FIAT di Torino (d’altron – de, anche nelle scarse e scar – ne realtà “industriali” del Ferrarese, la parola d’ordine lanciata dai comunisti nei primi anni’20 per la creazione di “cellule d’officina” aveva avuto pochissimo seguito, tanto che nel 1924 le autorità di PS e il Prefetto locali aggiudicano al puro appello propagandistico la notizia apparsa sull’ “Unità” di riunioni tenute all’aperto, nei terreni attorno agli stabilimenti, tra operai e della costituzione anche a Ferrara di cellule comuniste d’officina al fine di creare comitati d’agitazione eletti dalle maestranze). Anche per i comunisti degli anni ’40 ciò che attiva tentativi di organizzazione in fabbrica (finiti anche tragicamente, con un eccidio operaio, come accadde nell’estate 1944 alla “Gomma Sintetica”) sono invece i legami con uomini e donne conosciuti nell’infanzia, nei borghi caratteristici della periferia cittadina, poveri e fortemente comunitari , tra le viuzze del centro medievale e del ghetto, dove si con/dividono, con l’amicizia e spesso la parentela, la miseria e la ricerca di una strada che renda politicamente incidente la tendenza al ribellismo e, negli anni del regime, l’antifascismo cosiddetto “spontaneo”. E’ una rete di rapporti con queste caratteristiche che sta all’origine anche della cellula comunista di Lori e Maria. Siamo nel 1935, il “socialfascismo” è superato, anzi l’unità d’azione tra comunisti e socialisti, pattuita nel 1934, già si sperimenta. La Francia, dove la democrazia è ancora solida, si avvia verso il governo del Fronte popolare (1936-1939), cosa che Lori naturalmente non manca di mettere in risalto: Il Lori – continua il Prefetto – nei suoi discorsi esaltò anche il socialismo e parlò della esistenza di altri partiti politici in Francia, nonché della libertà di parola, di stampa e di azione di cui essi godevano. Entusiasmata dai discorsi del soldato, la Giacometti espresse il desiderio di leggere un giornale socialista […]. Al desiderio della Giacometti si associò il “Fin”. La casa di Carmela divenne la sede d’incontro e di scambio tra i tre, a cui si associò presto, oltre al marito di lei, un suo nipote, il giovane Oriano Turolla, abitante in Borgo San Luca, mentre Lori Terzo prendeva contatto con uno dei più noti comunisti locali dell’epoca, Massimo Manfredini, – anch’esso reduce dalla Francia, dove si era recato dopo aver subìto una condanna del Tribunale Speciale per aver tentato, già nel 1933 ed in precedenza, di organizzare il Partito comunista nel Ferrarese – organizzandone l’incontro con il Pavani. Trasmesso l’indirizzo della Giacometti in Francia e indicatala come nuovo “recapito” del partito, Lori partì al seguito del suo reggimento per le esercitazioni al campo e Carmela ricevette, qualche giorno dopo, una lettera dalla Francia che, mercè evidentemente la collaborazione della Polizia postale, fu intercettata dalle autorità. Nella lettera, a lei indirizzata ma destinata ad un innominato “cugino” che doveva coincidere con il più esperto del gruppo, il Manfredini, con un linguaggio non esplicito ma molto ingenuo e quindi facilmente decifrabile, si annunciava l’arrivo dei materiali promessi dalla Francia e si raccomandavano la massima prudenza e riservatezza. Bastò poco alla questura per capire che si trattava del primo contatto politico, fermare la Giacometti, il Pavani, il Turolla, interrogarli e tradurne il fermo in arresto. Conserviamo gli interrogatori di tutti i fermati, ma ci piace fermarci sulle modalità con cui Carmela risponde alle domande che le vengono poste. Non si tratta forse, agli occhi degli investigatori, di una “donna di casa” i cui trascorsi come semplice tesserata della FIOM e semplice moglie di un esponente all’epoca socialista farebbero pensare ad un altrettanto semplice uso del suo nome come destinataria della corrispondenza al solo scopo di depistare la polizia politica e distrarla dai reali destinatari? Sia chiaro, esistevano, tra le donne del tempo, semplici prestanome, che a volte nemmeno sapevano di venir in questo modo coinvolte in rischiose trafile politiche: è il caso, per esempio, per non restare che alla città di Ferrara, di Walmen Celeghini, sorella di Alessandro, fondatore nel 1921 del locale PCd’I, indicata come “recapito” del partito in città tra le carte sequestrate, nel 1927, a Umberto Terracini e per questo schedata per diversi anni dalla questura, pur in assenza di qualunque attività reale. “Domandai allora al soldato notizie della Francia – spiega Carmela a chi la interroga in un caldo pomeriggio di luglio nei locali della questura – e, precisamente, circa le condizioni economiche ed il trattamento che viene colà usato agli operai, chiesi inoltre se vi fosse molta disoccupazione, ed egli mi rispose che in Francia si sta molto meglio, che le paghe degli operai sono belle alte e che quando qualche datore di lavoro diceva di voler diminuire le paghe loro facevano sciopero e facevano così valere i propri diritti. Che si divertivano, che andavano a ballare, che andavano a qualche conferenza e che si cantava “Bandiera Rossa”, che si stampavano dei giornalini socialisti e che questi giornalini socialisti circolavano liberamente”. Un racconto fluido, netto, che costringe anche il burocratico trascrittore a seguirla nella sua parlata, e a scrivere di “sciopero”, di “diritti” fatti “valere”, di canti proibiti e di divertimenti in libertà proprio mentre chi sta più in alto di lui sta decidendo, per Carmela, il carcere. Si percepisce, pur nelle strettoie della trascrizione, la vena di provocatorio orgoglio e sfida che attraversa la deposizione e forse è per questo che l’atteggiamento di Carmela, la sua parte nel fare da tramite tra i comunisti francesi e i comunisti ferraresi, vengono velocemente ridotti, non si sa se da lei stessa o dal trascrittore, ad una questione di “curiosità”: è per curiosità che Carmela chiede di poter leggere un giornalino socialista, è per la sua (femminile?) sventata curiosità che il suo indirizzo arriva in Francia e i guai giudiziari varcano la soglia della sua casa. “Sottoposta ad interrogatorio – precisa il Questore di Ferrara nel rapporto al Prefetto con cui chiede per Carmela il provvedimento dell’ammonizione – tentò dapprima di negare ogni addebito, ma, successivamente, poichè una perquisizione domiciliare eseguita aveva fruttato il rinvenimento di due lettere, che qui si allegano e dalle quali ben si rileva l’attività che la Giacometti si riprometteva di svolgere in combutta con il Lori e con altri – stretta dalle contestazioni che le furono fatte, confessò […]. Dal testo della lettera del Lori si rileva infine che la Giacometti non solo aveva aderito all’idea di costituire a Ferrara una “cellula”, ma aveva anche l’incarico di trovare altri aderenti e di funzionare da “recapito” tra il Lori stesso e comunisti residenti in Francia. La Giacometti è coniugata con Rossi Raffaele ed ha 4 figli. E’ di modestissime condi – zioni sociali e di scarsa istru – zione”. L’ammonizione è richiesta per un periodo di due anni “allo scopo di poter assicurare ad un severo controllo l’attività di tale elemento, che appare pericoloso per l’ordine nazionale” avendo per di più adottato lo pseudonimo di “Nenni”. Va detto che la cellula non era ancora divenuta operativa e che la responsabilità politica maggiore viene ovviamente addebitata a Lori Terzo, colpevole di essersi “insinuato” nell’ “animo” di Carmela e di “Fin” (Giuseppe Pavani) individuati, nel gruppo parentalamicale, come i più esposti politicamente, anche se a proposito della Giacometti il Questore precisa che sarebbe stata scelta come “recapito” perchè “per esser donna poteva destare meno sospetti”. Comunque fosse, Lori fu condannato a tre anni di confino a Ventotene e qualche settimana dopo ad essere inserito nella “I° Compagnia di correzione Pizzighettone” alle dipendenze del Distretto Militare di Gaeta. Tornerà in carcere successivamente e, liberato nel periodo badogliano, entrerà nella Resistenza. Commissario politico dell’8° Brigata Garibaldi Romagna, resistette fino alla morte all’attacco delle SS tedesche impegnate in un rastrellamento nella Valle del Bidente, perdendo la vita il 12 aprile 1944. Fu insignito di medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Fonti
Delfina TROMBONI, Donne di sentimenti tendenziosi. Sovversive nelle schedature politiche del Novecento, Nuove Carte, 2006
MINISTERO DELLA DIFESA, STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO – UFFICIO STORICO, Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Decisioni emesse nel 1934, Sentenza n. 9 del 24 febbraio 1934
Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale, fasc. Giacometti Carmela, Lori Terzo, Pavani Giuseppe, Manfredini Massimo, ad nomen
Archivio di Stato di Ferrara, Questura, Gabinetto, Cat. A8, Individui pericolosi per la sicurezza dello Stato, fasc. Giacometti Carmela, Lori Terzo, Pavani Giuseppe, Manfredini Massimo, Turolla Oriano, Rossi Raffaele, ad nomen
Archivio Centrale dello Stato, Tribunale Speciale, Istruttoria relativa a Manfredini Massimo, ad nomen * L’espressione è usata da Paolo SPRIANO, Storia del Partito comunista. III. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970, p. 181
** Ringrazio Dante Giordano per avermi segnalato il passaggio che qui richiamo, oltre che per avermi aiutato, insieme ad Andrea Musacci, che ugualmente ringrazio, nella ricerca delle fonti necessarie per questo intervento